Penale

Palpare la coscia senza il consenso della donna è violenza sessuale (Cassazione 6010/2002)

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La coscia di una donna rientra nel novero delle c.d. "zone erogene"
ed è necessario il consenso per toccarla. Palpare la coscia senza consenso,
dunque, è comportamento che manifesta un fine di libidine. La Terza Sezione
Penale della Corte di Cassazione, nell’esaminare il caso di un dentista che
aveva fatto delle avances nei confronti della propria assistente, alla presenza
di un paziente, ha ritenendo che, alla pari del seno, anche la coscia rientra
"tra le parti inequivocabilmente rientranti nella gamma della cosiddetta
appetibilità  sessuale". Ha quindi confermato la sussistenza del reato di
violenza sessuale.

Suprema Corte di
Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.6010/2002

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

SENTENZA

FATTO E DIRITTO

All’esito delle indagini conseguenti alla querela
sporta da Cristina Massaro, il dott. Ruggero Comitti, medico stomacologo,
veniva tratto al giudizio del Tribunale di Milano, per rispondere dei
delitti di cui agli artt. 81 cpv., 521 commi 1° e 2° C.P. e 527 C.P.
[1], commessi il 15 e 16/6/1993 nell’ambulatorio dentistico e nel suo
studio privato, in danno della suddetta, con abuso del rapporto di
prestazione d’opera, essendo la vittima sua assistente.

Gli atti di libidine violenti erano consistiti, secondo
l’accusa, nell’avere, in una prima occasione, afferrato da tergo ed
improvvisamente la donna per i seni, reiterato, poco dopo, detto gesto,
palpeggiando altresí la vittima su tutto il corpo, in particolare su
petto e pube, baciandola sulla bocca e sui seni, aderendole con il proprio
corpo e serrandole una mano, con la propria, sul membro virile in
erezione; all’indomani di tali fatti, verificatisi nel suddetto
ambulatorio, aveva fatto seguito, nello studio dentistico e durante una
prestazione su una paziente, un subdolo toccamento di una coscia della
dipendente.

Con sentenza del 1- 13 dicembre 1994 il Tribunale,
ritenuta l’accusa provata, sulla scorta delle dichiarazioni della parte
offesa, reputate intrinsecamente attendibili ed oggettivamente riscontrate
da testimonianze de relato, dichiarò il Comotti colpevole dei reati
ascrittigli, in continuazione tra loro, condannandolo, previa concessione
delle attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata aggravante, alla
pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione, con i benefici di legge, spese,
risarcimento danni, con provvisionale, e rimborso spese in favore della
parte civile.

All’esito dell’appello dell’imputato, con la
sentenza in epigrafe, dichiarato estinto per prescrizione il delitto di
atti osceni e ritenuta applicabile alla fattispecie l’ipotesi attenuata,
dei fatti di minore gravità , di cui all’art. 609 bis u. c. C.P. [2],
disposizione sopravvenuta più favorevole al reo, confermata nel resto la
sentenza impugnata, la pena veniva ridotta ad anni 1 e mesi 2 di
reclusione.

Avverso tale sentenza il Comotti ha proposto,
unitamente al difensore di fiducia, ricorso per cassazione affidato a due
motivi.

Nel primo lamenta, ai sensi dell’art. 606 comma 1°
lett. b) ed e) c.p.p., la violazione dell’art. 192 dello stesso codice e
connesso vizio di motivazione, per essere stata erroneamente e senza
adeguata spiegazione, attribuita preminenza, rispetto a quelle
dell’imputato, alle interessate dichiarazioni della parte offesa, da
ritenersi invece inattendibili, sia sotto il profilo intrinseco, per
l’oggettiva inverosimiglianza, sia sotto quello soggettivo, per vari
profili di inaffidabilità  della deponente, in relazione a sue vicende,
lavorative, contrassegnate da varie inadempienze, nonchè personali,
caratterizzate da notevole esposizione debitoria e da un episodio di
falso.

Nessun riscontro, si soggiunge, avrebbe poi potuto
trarsi dalle deposizioni testimoniali, essendo state rese da persone che
avevano avuto conoscenza dei fatti non direttamente, ma solo dal racconto
della presunta parte offesa.

Con il secondo motivo, vengono dedotti violazione della
legge penale e connesso vizio di motivazione, essendosi attribuito
rilevanza penale, agli effetti dell’art. 609 bis C.P., ad atti in
concreto privi, alcuni del carattere della violenza, ed altri di effettiva
valenza sessuale.

Il ricorso è inammissibile.

I giudici di merito si sono attenuti, con corretta
motivazione, al ben noto principio, consolidato nella costante
giurisprudenza di questa S.C., a termini del quale il vigente codice di
procedura penale consente che ai fini della formazione del libero
convincimento del giudice ben possa tenersi conto delle dichiarazioni
della parte offesa, la cui testimonianza, ove ritenuta (come nella specie)
intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di
prova, sulla quale può essere, anche esclusivamente, fondata
l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, purchè la relativa
valutazione sia adeguatamente motivata.

Segnatamente detto principio è stato ribadito in tema
di delitti sessuali, l’accertamento dei quali passa, nella maggior parte
dei casi, attraverso la necessaria valutazione del contrasto delle opposte
versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in
assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o altri elementi atti
ad attribuire maggior credibilità , ad extrinseco, all’una o all’atra
tesi.

Nel caso di specie, peraltro, i giudici di merito hanno
evidenziato, a sostegno della maggior credibilità  della tesi della
querelante, oltre al costante e dettagliato contenuto delle precise
accuse, anche l’oggettivo riscontro che le stesse hanno ricevuto
attraverso le deposizioni di due testi, la segretaria di studio del
Comotti, Giovanna Vanzini, ed un collega del predetto, il dott. Calogero
Bellavia, precedente datore di lavoro della Massaro, persone alle quali la
giovane donna aveva nell’immediatezza o quasi dei fatti (ed addirittura
nell’intervallo, quanto alla prima, tra i due episodi) confidato
l’accaduto, trovando comprensione, peraltro, solo nel secondo.

Le testimonianze dei due (quale che ne fosse la
rispettiva propensione a prestar fede a quanto appreso) sono state, con
motivazione del tutto adeguata sul piano logico, ritenute tali da
eliminare ogni dubbio in ordine alla sussistenza dei fatti, avendo i
giudici di merito correttamente considerato: che un’accusa calunniosa
motivata da intenti speculativi o ritorsivi non sarebbe stata, anzitutto,
esternata, ad una persona di fiducia e particolarmente vicina
all’accusato, la segretaria Vanzini, con la prevedibile conseguenza di
metterlo sull’avviso; che il dott. Bellavia, persona del cui
disinteresse alla vicenda nessun dubbio poteva nutrirsi, non solo aveva
confermato quanto appreso dalla Massaro, ma aveva riferito anche dello
stato di agitazione, ansia e depressione in cui la donna versava,
all’atto del racconto, e, soprattutto, delle parziali e minimizzanti
(due toccate ) ammissioni telefonicamente rese dal collega.

Sicchè la testimonianza de relato del Bellavia, la cui
precisione e costanza è stata evidenziata anche per aver il medesimo
ribadito la specifica portata delle iniziali ammissioni (che vanamente
l’imputato tentò, poi, di modificare, nel senso di essersi riferito a,
non meglio precisate, battute), ha assunto nella motivazione un valore
particolarmente pregnante, per la duplice provenienza e sostanziale
concordanza delle circostanze apprese e riferite.

Ne ha omesso la corte di merito di esaminare le
principali obiezioni difensive, spiegando, anzitutto, la mancata reazione
clamorosa da parte della parte offesa (limitarsi , all’atto della prima
aggressione, a sgomitare e, della seconda, a protestare di essere
felicemente fidanzata) con il comprensibile stato di turbamento derivante
dalla soggezione verso il datore di lavoro e dalle possibili implicazioni
dell’accaduto con la conservazione di un posto già  precario, ragioni
che ne avevano determinato quello stato di agitazione ed ansia
testimonialmente acclarato.

Inammissibile, al pari di quelle suesposte, perchè
risolventisi in palesi censure in fatto, sono anche quelle specificamente
relative alla seconda aggressione del 15/6, sotto il profilo della
credibilità  della circostanza che la Massaro si fosse spogliata alla
presenza di chi l’aveva poc’anzi, fatta oggetto di atti di libidine,
considerato che i giudici di merito nell’accertamento della circostanza
si sono attenuti, nel quadro della motivata attendibilità  ascritta alla
parte offesa, alla narrazione di quest’ultima, che al riguardo aveva
precisato di essersi cambiata (indossando il proprio abito in luogo del
camice, prima di lasciare il posto di lavoro) al riparo dell’anta di un
armadietto e mentre il Comotti era intento a parlare al telefono, con ciò
implicitamente escludendo ogni ipotesi di consenso o provocazione da parte
della parte lesa.

Disatteso, dunque, per manifesta infondatezza e per la
sostanziale attinenza ai profili di merito della vicenda (di cui
inammissibilmente, in sede di legittimità , si propone un’alternativa
ricostruzione: v. S.U. 23/6/2000 n. 12), il primo motivo di ricorso, per
di più vanamente corredato da inconferenti richiami a vicende personali
della parte offesa, prive di attinenza ai fatti di causa, osserva ancora
la Cor5e che non miglior sorte meritano le censure contenute nel secondo
motivo, circa le pretese mancanze di violenza e di rilevanza, sotto il
profilo sessuale, delle condotte.

Al riguardo è sufficiente, anzitutto, osservare come
la repentinità  della prima aggressione, posta in essere dalle spalle
della vittima e direttamente comportante la manomissione del petto della
donna, parte indiscutibilmente e secondo natura, erogena, correttamente
sia stata considerata violenta, non essendo stato concessa al soggetto
passivo alcuna possibilità  di manifestare il suo dissenso, a fortiori
corretta (oltretutto in considerazione della manifestazione di dissenso
che aveva fatto seguito al primo) deve ritenersi la qualificazione
violenta ascritta ai successivi e più incisivi atti di libidine, compiuti
su quella e sulle altre parti (specificamente indicati nel capo di
imputazione) del corpo femminile, inequivocamente rientranti nella gamma
della c.d. appetibilità  sessuale, ivi compresa la coscia, sulla quale
nell’ultimo episodio, del 16/6, si è concentrata l’azione
palpeggiatrice dell’imputato.

Le contestate modalità  subdole di quest’ultima, sia
pur fugace, aggressione, in quanto posta in essere confidando nella
situazione di imbarazzo nei confronti dell’ignaro paziente, tale da
evitare reazioni eclatanti da parte della vittima, sono state altrettanto
correttamente ritenute violente, tenuto conto del più che presumibile
dissenso del soggetto passivo.

All’inammissibilità  del ricorso consegue, infine, ai
sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente alle spese ed
alla sanzione pecuniaria, nell’adeguata misura di cui in dispositivo.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di L.
1.000.000 in favore della cassa delle ammende.

Roma, 14 dicembre 2001.

Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2002.

 

NOTE

[1] L’art.521 del codice penale puniva
il reato di atti di libidine violenti. La norma è stata abrogata dalla
legge n.66/96 che ha unificato le figure di violenza carnale ed atti di
libidine violenti nella fattispecie di "violenza sessuale"
(art.609 bis c.p.). L’art.527 c.p. punisce gli atti osceni.

 

[2] L’art.609 bis del codice penale,
introdotto dalla legge 15 febbraio 1996 n.66, punisce il delitto di
"violenza sessuale", del quale risponde "chiunque, con
violenza o minaccia o mediante abuso di autorità , costringe taluno a
compiere o subire atti sessuali". L’ultimo comma prevede una
diminuzione di pena per "i casi di minore gravità ".

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