Civile

Niente risarcimento agli avvocati per la “distrazione” della clientela – Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 560 del 13/01/2005

 

Se il "pacchetto
clienti" viene dirottato alla concorrenza, l’avvocato non puo’ sperare nel
risarcimento del danno. I grossi studi legali assomigliano tantissimo alle
imprese, ma non abbastanza da poter denunciare la distrazione di clientela.
Resiste, dunque, l’orientamento giurisprudenziale che non accetta applicazioni
analogiche dell’articolo 2598 del codice civile.
Nella sentenza 560 del 13 gennaio, la terza sezione civile della Cassazione fa
tramontare, ancora una volta, le speranze di giustizia "aggiuntiva" per
l’avvocato che si ritiene derubato dal collega. I comportamenti scorretti, a
quanto pare, si gestiscono in casa e, di fronte a un legale poco leale, il
codice invocabile resta solo quello deontologico.
“Non si nega ” dicono i giudici ” che sotto il profilo meramente economico studi
di libero professionisti siano de facto (per personale, mezzi tecnici e quant’altro),
assimilabili alle aziende”. Pero’, una simile considerazione non vale quando si
tratta di applicare la tutela civilistica prevista per le imprese vere e
proprie. Questo perchè, ad avviso dei consiglieri, non c’è ragione di credere
che il legislatore abbia voluto arricchire l’articolo 2598 di significati
diversi rispetto alla norma di poco precedente (articolo 2555).
Al contrario, i giudici hanno distinto nettamente l’attività imprenditoriale da
quella libero-professionale. Prova ne sia, precisa la Suprema corte, proprio l’incompatibilità
dell’attività di avvocato con quella di commerciante; il divieto, per il
legale, di esercitare il commercio in nome proprio o altrui esclude, dunque,
radicalmente l’equiparazione tra uno studio professionale a una qualunque
azienda. Percio’, non essendoci alcuna lacuna nel nostro ordinamento, secondo la
Cassazione non si puo’ invocare l’applicazione analogica della disposizione che
disciplina la distrazione di clientela subita dall’azienda.
Il ragionamento ha portato al rigetto del ricorso presentato da un avvocato
milanese. Il professionista aveva fatto causa al suo ex praticante, che, andando
via, si era trascinato un discreto numero di fascicoli. In realtà, a quanto
risulta dal racconto processuale, si trattava di clienti "procacciati" dallo
stesso futuro avvocato, che, in qualità di ex dipendente delle Ferrovie, aveva
raccolto tra i suoi passati colleghi i relativi mandati per l’instaurazione di
cause di lavoro.
I consiglieri hanno, cosi’, respinto la tesi del ricorrente in base alla quale
“l’esercizio di una professione intellettuale, svolta in modo continuativo e con
stabile organizzazione, puo’ essere qualificata come attività d’impresa”.
Eppure, guardandola da un’altra e più ampia prospettiva, la conclusione
giurisprudenziale dovrebbe piacere ai liberi professionisti del diritto.
Tuttora, infatti, sulle dimensioni dell’attività svolta si gioca una importante
partita fiscale: quella dell’assoggettabilità all’Irap. Affermare che uno
studio, seppur grosso, non è mai paragonabile a un’impresa potrebbe favorire la
testi di quanti ritengono di essere al riparo dall’imposta sul valore aggiunto
della produttività. Chissà che la cattiva notizia in sede civile, non possa
tornare utile in campo fiscale.

BEATRICE DALIA

www.ilsole24ore.com

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