Penale

Diffamazione: la violenza verbale è talvolta più dannosa di quella fisica – CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n. 7568 del 01/03/2005

Il linguaggio usato per comunicare deve essere corretto e
non oltrepassare certi limiti, poichè la violenza verbale, ingiustamente
tollerata in nome della libertà di espressione e di critica, è talvolta anche
più dannosa della violenza fisica. Viene dai Giudici della Quinta Sezione
Penale della Corte di Cassazione un severo monito contro il linguaggio
offensivo e scurrile. La Suprema Corte, infatti, decidendo un caso di
diffamazione a mezzo stampa – nel caso in questione era intervenuta la
prescrizione del reato – ha ricordato che "è indispensabile che il
linguaggio usato per comunicare sia corretto, poichè, anche se "oggi è
invalso il costume, oramai diffuso, di avvalersi di inaccettabili linguaggi
usati anche da personaggi molto in vista, negli ambienti più disparati",
si tratta in realtà "di un malcostume che deve essere contenuto per la
salvaguardia di coretti rapporti tra i consociati che debbono essere improntati
ad un minimo di rispetto e di civiltà, requisiti ai quali non è possibile
rinunciare".

 


Suprema
Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.7568/2005 (Presidente:
F. Marrone; Relatore: R. L.
Calabrese)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

V
SEZIONE PENALE

SENTENZA

OSSERVA

C.
M. è stato dichiarato responsabile del reato punito dall’art. 595
c.p.[1]
perchè mediante invio di una lettera per fax destinata a
P. F. e M. M., della redazione
del quotidiano Il Messaggero, offendeva la reputazione di D. G., collaboratore
del predetto quotidiano, definendolo incompetente, pezzo di merda: in Roma, il
29 marzo 1996.

Per
i giudici di merito, l’espressione usata, a ragione della sua pesantezza e
volgarità, è offensiva e le considerazioni svolte dalla difesa sulle
modifiche del linguaggio nell’era moderna e sul come oggi siano socialmente
accettate espressioni che ieri venivano reputate offensive, non possono
riguardare le volgarissime parole scritte dall’imputato.

Inoltre
non ricorre, nemmeno sotto il profilo putativo, l’invocata esimente della
provocazione.

Col
ricorso il difensore deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge
penale, nonchè vizi motivazionali in riferimento alla sussistenza del reato,
nella sua componente tanto oggettiva che soggettiva, e alla esimente della
provocazione.

Rileva
altresi’ la intervenuta prescrizione del reato.

Preliminarmente,
va osservato che, risalendo il fatto al marzo 1996, ed essendo decorsi oltre 7
anni e 6 mesi previsti dagli artt. 157 n. 4 e 160 u.c. c.p., in assenza di
documentate cause di sospensione della detta decorrenza, il reato è estinto
per prescrizione; onde, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui al n. 2
dell’art. 129 c.p.p., ola sentenza impugnata va annullata senza rinvio.

Ai
fini degli interessi civili, deve subito dirsi che sono sicuramente infondati i
profili di censura sub a).

E’
indispensabile che il linguaggio usato per comunicare sia corretto; il modo di
esprimersi puo’ anche essere severo ed aspro, ma il requisito della continenza
deve essere rispettato.

E’
vero che oggi è invalso il costume, oramai diffuso, di avvalersi di
inaccettabili linguaggi usati anche da personaggi molto in vista, negli
ambienti più disparati.

Ma
si tratta di un malcostume che deve essere contenuto per la salvaguardia di
coretti rapporti tra i consociati che debbono essere improntati ad un minimo di
rispetto e di civiltà, requisiti ai quali non è possibile rinunciare.

Ed
invero, si è perspicacemente osservato che la violenza verbale, ingiustamente
tollerata proprio in nome della libertà di espressione e di critica, è
talvolta anche più dannosa della violenza fisica (Cass. Sez. V, 17 febbraio
2004, Metta).

La
locuzione pezzo di merda, che lo stesso ricorrente definisce inelegante e
volgare, è dunque dotata di indubbia carica offensiva, tale connotato non perdendo
di certo in vita del particolare contesto (mondo dello spettacolo) in cui è
stata usata.

E
va da se che riverbera tutta la sua valenza negativa sull’epiteto
(incompetente) che immediatamente la precede, dovendo la significazione
offensiva della frase essere desunta dall’intero contesto delle parole
adoperate, unitariamente considerate.

Appaiono
invece fondate, per quanto di ragione, le censure che afferiscono all’esimente
della provocazione.

L’imputato
ha giustificato l’invio del fax quale reazione al fatto ingiusto del D.,
indicato come l’autore di un articolo, apparso sul Messaggero, ispirato alla
presentazione dell’ultima opera del gruppo musicale Elio e le storie tese,
avvenuta in una abitazione privata.

Nello
scritto gli si attribuivano comportamenti fascisti:
il C. management degli
artisti, avrebbe messo alla porta i giornalisti e i fotografi intervenuti alla
festa, dopo che costoro avevano fotografato i musicisti.

Si
sostiene inoltre che sarebbe stato violato l’accordo che prevedeva la pubblicazione
dell’articolo solo due giorni dopo l’evento, dovendo questo essere ripetuto nel
giorno seguente a Milano (il c.d. embargo).

Cio’
posto i giudici di merito hanno ritenuto che non vi era prova che il D. fosse
stato a conoscenza dell’intesa volta all’attuazione dell’embargo; aggiungendosi
dalla corte territoriale che, comunque, non era dato comprendere quale danno
potesse avere cagionato alla compagine rappresentata dal C. la pubblicazione
anticipata dell’articolo sul Messaggero.

Sotto
questo aspetto, l’esclusione del fatto ingiusto risulta argomentato
congruamente, senza cadute sul piano della logica, cio’ che rende la
motivazione, in parte qua, incensurabile in questa sede.

Per
il resto, va osservato che il giudice d’appello: ritiene il C., mai indicato normativamente
nell’articolo, non identificabile come l’autore dello scortese intervento verso
i fotografi e i giornalisti intervenuti alla festa; ma cosi’ si pone in netto
contrasto con il giudice precedente, che si è avvalso al riguardo di precisi
elementi (in particolare, della testimonianza di tale T: F.); e non dà minima
ragione del suo diverso convincimento; attribuisce un connotato ironico e
scherzoso, ricalcando il dire del giudice di primo grado, alle parole adoperate
dal giornalista per stigmatizzare l’intervento dell’imputato nella festa (stile
aguzzino Villa Triste tardo Salo’) e, ad ogni modo, la le considera corretta
espressione del diritto di critica: ma con mere affermazioni, del tutto
apodittiche, che non esplicitano in alcun le ragioni dei convincimenti
espressi; liquida la tematica relativa all’immediatezza della reazione con il
semplice asserto che il fax è stato inviato al Messaggero dopo il ritorno a
Milano di C.: senza precisare il lasso di tempo intercorso tra l’apprendimento
della notizia della pubblicazione dell’articolo e la reazione avuta
dall’imputato (che costui assume accaduti lo stesso giorno), cosi’ in pratica
eludendo completamente la specifica questione devoluta con l’impugnazione.

E’
pertanto di palese evidenza che i tre punti sopra menzionati abbisognino di un
riesame, involgente la scriminante in parola, anche sotto l’aspetto putativo,
che è da affidare al competente giudice civile.

PQM

La
Corte annulla la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per
prescrizione.

Rinvia
il processo al giudice civile competente in appello, limitatamente al punto
relativo alla provocazione, agli effetti civili.

Roma,
17 nov. 2004.

Depositata
in Cancelleria il 1 marzo 2005.


Note 

[1] Art.595
codice penale (Diffamazione): Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo
precedente , comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è
punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire due milioni.

Se l’offesa consiste
nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a
due anni, ovvero della multa fino a lire quattro milioni.

Se l’offesa è recata col
mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto
pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non
inferiore a lire un milione.

Se l’offesa è recata a un
Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad
una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

 

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