Penale

Anche senza mandato esplicito il difensore può acquisire informazioni su una indagine in corso – CASSAZIONE PENALE, Sezione I, Sentenza 11547 del 22/03/2005

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Il difensore,
munito o meno di mandato per quel particolare procedimento, puo’ legittimamente
acquisire informazioni su un’indagine in corso, nella quale potrebbe essere
interessato un proprio cliente, purchè l’acquisizione sia lecita ed è lecita,
in particolare, ogni qualvolta non sia avvenuta in violazione delle regole sul
segreto previste dall’articolo 329 del c.p.p; disposizione, quest’ultima, che,
nel definire il cosiddetto segreto interno al procedimento, stabilisce che gli
atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria
sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza
e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari, a meno che,
sussistendo particolari esigenze di indagine, il pubblico ministero non abbia
imposto il segreto per singoli atti. (Nella specie, pertanto, è stato ritenuto
corretto il comportamento di un avvocato il quale, anche se non munito di
esplicito mandato, per conto di un cliente, aveva chiesto informazioni in
relazione a un determinato procedimento, ove era possibile il coinvolgimento del
proprio assistito, ad altro collega, il quale, a sua volta, aveva assistito un
correo in un interrogatorio non segretato; secondo la Cassazione, in vero, la
correttezza del comportamento dell’avvocato discendeva dal fatto che questi si
era limitato a sollecitare e a ricevere notizie da chi aveva partecipato a un
atto sul cui contenuto non instava più alcun segreto interno al procedimento

 

 


CASSAZIONE PENALE, Sezione I, Sentenza 11547 del 22/03/2005

Composta
dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FABBRI
Gianvittore – Presidente

Dott. MOCALI
Piero – Consigliere

Dott. RIGGIO
Gianfranco – Consigliere

Dott. GRANERO
Francantonio – Consigliere

Dott.
PIRACCINI Paola – rel. Consigliere

ha
pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso
proposto da:

PROCURATORE
DELLA REPUBBLICA DI POTENZA;

nel
procedimento contro:

B. P., nato a
Potenza il 16/10/1945;

avverso
l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Potenza il 2/12/2004 con la
quale veniva accolta la richiesta di riesame e annullata l’ordinanza di custodia
cautelare in carcere emessa dal GIP di Potenza in data 13/11/2004 per il reato
di concorso esterno in associazione mafiosa;

visti gli
atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

Udita la
relazione del Consigliere Dott. Piraccini;

Rilevato che
il Procuratore Generale nella persona del Cons. Dott. Vittorio Meloni chiedeva
l’annullamento con rinvio;

Rilevato che
i difensori Avv. COPPI e Avv. PACE chiedevano il rigetto del ricorso.

L’indagato,
avvocato penalista del foro di Potenza, veniva raggiunto da ordinanza di
custodia cautelare in carcere per il reato di concorso esterno in associazione
mafiosa per aver fornito un contributo rilevante al sodalizio criminoso, facente
capo al boss Martorano Renato, fornendogli informazioni riservate, ottenute in
ambiente giudiziario, riguardanti lo svolgimento delle indagini
sull’associazione mafiosa e le determinazioni del P.M. e del GIP. Il Tribunale
del riesame rilevava che le fonti di prova a carico dell’avvocato erano
costituite da tre telefonate intercettate sull’utenza in uso a Martorano, tutte
intervenute nella giornata del 10 agosto 2004, nelle quali il boss chiedeva al
legale di informarsi se erano in corso indagini che lo riguardavano e
l’avvocato, dopo alcune ore, rispondeva che probabilmente vi erano state delle
richieste di misure cautelari non accolte dal gip, e che il P.M. in pieno agosto
stava svolgendo indagini per trovare ulteriori elementi ed in particolare aveva
inviato informazioni di garanzia per poter sentire delle persone indagate.
Nell’ordinanza di custodia cautelare il GIP riteneva sussistente il reato di
concorso esterno in associazione mafiosa in quanto il legale, non nominato
difensore di fiducia, si era prestato a cercare informazioni riservate su
un’indagine in corso allo scopo di favorire l’associazione mafiosa che si
trovava in difficoltà proprio perchè si sapeva che erano state inviate
informazioni di garanzia e si temeva per qualcosa di peggio. Il legale,
interrogato in stato detentivo, aveva contestato l’ipotesi di accusa rivelando
di essere il difensore da sempre di Martorano e che l’indagine di cui si
discuteva era conosciuta a Potenza e le voci dicevano che erano coinvolti anche
politici. Quando era stato contattato dal suo cliente si era impegnato a
chiedere informazioni, ma in realtà non aveva contattato nessuno perchè aveva
attinto informazioni dalla sua collega di studio che era stata nominata
difensore di ufficio per un correo del Martorano, in relazione ad una
informazione di garanzia notificata per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p.
La collega gli aveva riferito che quell’indagato aveva un suo difensore storico,
amico di entrambi, e cosi’ aveva deciso di contattare il solo avv. Chiriaco che
proprio quel pomeriggio del 10 agosto era in Procura col suo cliente per rendere
interrogatorio. Dopo aver sentito il collega, aveva telefonato al Martorano e
gli aveva comunicato la sua opinione sull’intera vicenda e cioè che, secondo
lui, il P.M. aveva chiesto delle misure cautelari, ma il gip le aveva rigettate,
e quindi il P.M. stava facendo ulteriori indagini. Negava di aver saputo tali
notizie da una talpa in Procura, affermava che aveva parlato solo col suo
collega ed aveva dedotto che cosi’ erano andati i fatti, perchè per esperienza
sapeva che, per il delitto di cui agli artt. 416 bis c.p., nessun P.M. mandava
prima le informazioni di garanzia, procedeva subito con la misura cautelare, e
che, se invece sentiva gli indagati a piede libero, era perchè non aveva
ottenuto le misure dal gip. Il Tribunale del riesame contestava la
prospettazione contenuta nell’ordinanza impositiva negando che il comportamento
del legale potesse configurare un concorso esterno in associazione mafiosa in
quanto il rapporto tra l’indagato e Martorano era di natura fiduciaria, avendo
il legale difeso da sempre quel cliente, per cui anche in mancanza di un
mandato, non possibile perchè ancora non c’era un procedimento a suo carico, le
richieste avanzate per telefono potevano inquadrarsi in un rapporto
cliente-avvocato. Non poteva individuarsi alcuna agevolazione al sodalizio
criminoso, neanche nella telefonata conclusiva con cui l’avvocato riferiva
l’esito della sua indagine, perchè quelle notizie miravano a spiegare al suo
cliente che cosa stesse succedendo nell’indagine di cui aveva ricevuto notizie
solo quella mattina. Nè poteva sostenersi che in concreto quelle rivelazioni
avessero aiutato il sodalizio criminoso in difficoltà, in quanto già da tempo
i partecipi sapevano dell’indagine contro di loro e della possibilità di essere
intercettati.

Il Tribunale
inoltre valutava se potesse configurarsi l’ipotesi minore di favoreggiamento e
la escludeva perchè le notizie diffusa da B. erano ampiamente conoscibili da
altri partecipi alle indagini che in numerose telefonate parlavano dei capi
d’imputazione notificati con l’informazione di garanzia. Aggiungeva il tribunale
che il difensore di un indagato non ha alcun obbligo di mantenere il segreto
sull’atto a cui ha assistito e che la notizia fornita da B. al suo cliente era
una deduzione e non un notizia avuta illegalmente in quanto aveva usato
l’avverbio "probabilmente" quando aveva parlato delle richieste di misure
cautelari e poi aveva dato un’informazione sbagliata quando aveva riferito che
il gip le aveva rigettate. Non vi era alcuna prova che tali affermazioni fossero
notizie avute da una talpa all’interno della Procura e che quindi se le fosse
procurate illegalmente; appariva invece altamente probabile che le avesse
ricavate da considerazioni assunte insieme al collega che aveva partecipato ad
un atto del processo, visto che proprio nel pomeriggio del 10 agosto il collega
Chirico aveva partecipato all’interrogatorio del suo assistito. Contro la
decisione presentava ricorso il P.M. deducendo violazione di legge in relazione
ai reati di cui all’art. 416 bis, 378 c.p. nella parte in cui il tribunale aveva
ritenuto sussistere la scriminante di cui all’art. 51 c.p., e cioè l’esercizio
del legittimo diritto di difesa nella condotta dell’Avv. B., mentre invece era
provata in atti la sua condotta illecita nell’aver ottenuto da altri difensori
notizie coperte dal segreto e nell’averle utilizzate per favorire un boss
mafioso e senza essere munito di un mandato difensivo. Riteneva il P.M. che la
palese violazione di regole deontologiche, quali il dovere di correttezza e
fedeltà, da parte dei legali escludeva la possibilità di configurare
l’esercizio di un diritto. Deduceva ancora mancanza e manifesta illogicità
della motivazione in relazione alla esclusione del reato ascritto all’indagato
che doveva qualificarsi come concorso esterno in associazione maliosa tenuto
conto che egli ben conosceva il calibro criminale del Martorano per averlo
assistito e pertanto, quando aveva deciso di aiutarlo a reperire le informazioni
di cui aveva bisogno, ben sapeva di dare un aiuto al sodalizio criminale;

inoltre della
mafiosità dell’indagato il tribunale del riesame aveva dato conto in altre
ordinanze pronunciate nei confronti degli altri indagati di quel processo.

Ritiene la
Corte che il ricorso debba essere rigettato in quanto la condotta tenuta
dall’avvocato B., cosi’ come descritta nell’ipotesi di accusa, non presenta
alcun aspetto di illegalità nè sotto il profilo del concorso esterno in
associazione mafiosa, nè sotto il profilo del favoreggiamento. La disciplina
che il nostro codice riserva alla tutela del segreto nelle indagini, definibile
come segreto interno al procedimento, è contenuta nell’art. 329 c.p.p. ed è da
questa che è necessario partire per verificare quando vi sia stata una
propalazione illecita. Il principio cardine della disciplina è che gli atti di
indagine compiuti dal P.M. o dalla P.G. sono coperti dal segreto fino a quando
l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle
indagini preliminari. Quando sussistono particolari esigenze di indagine il P.M.
puo’ imporre il segreto per singoli atti, ma non risulta che nel caso di specie
il P.M. procedente si sia avvalso di tale potere. La disciplina del segreto
sugli atti di indagine non interessa solo ai fini del delitto di rivelazione dei
segreti di ufficio, diretta conseguenza della violazione del segreto, ma anche
in relazione a quelle condotte che potrebbero configurare in capo al difensore,
o ad altri soggetti, il delitto di favoreggiamento o, come nel caso di specie,
di concorso esterno in associazione mafiosa.

Infatti il
difensore, munito o meno di mandato per quel particolare procedimento, puo’
legittimamente acquisire informazioni su un’indagine in corso, nella quale
potrebbe essere interessato un proprio cliente, purchè l’acquisizione sia
lecita ed è lecita ogni qualvolta non sia avvenuta in violazione delle regole
sul segreto previste dall’art. 329 c.p.p. (vedasi Sez. 6^ 20 luglio 1995 n.
1853, rv. 202217). Nel caso oggetto del presente procedimento, l’avv. B. era
stato contattato da un suo cliente storico che lo aveva informato, il 10 agosto
in pieno periodo feriale, di aver sentito dire che stavano notificando delle
informazioni di garanzia che avrebbero potuto coinvolgerlo e che l’indagine era
quella famosa, di cui si parlava in città, condotta da un determinato pubblico
ministero, e gli aveva chiesto di acquisire informazioni.


Dell’esistenza di tali informazioni di garanzia notificate il Martorano e gli
altri correi avevano piena contezza perchè già si erano scambiati le notizie
relative, come risulta dalle intercettazioni telefoniche. Orbene l’avvocato
dichiarava di aver contattato un suo collega che proprio quel pomeriggio aveva
assistito un correo in un interrogatorio, non segretato, e pertanto aveva
ricevuto delle notizie, da chi aveva partecipato ad un atto, sul cui contenuto
quindi non instava più alcun segreto interno al procedimento. L’ipotesi
d’accusa della illiceità di questa

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