Penale

Il bagno di un pubblico esercizio non può essere considerato “luogo di privata dimora” – CASSAZIONE PENALE, Sezione VI, Sentenza n. 11654 del 04/04/206

Il bagno di un pubblico esercizio non puo’
essere considerato ”luogo di privata dimora”. Quest’ultimo puo’ essere
identificato oltre che nella abitazione, in ogni luogo in cui la persona svolge
le sue funzioni essenziali di vita e di relazione o che assolve ad analoghe
funzioni, lavorative, professionali o di altra natura, comprese lo studio e lo
svago, con carattere di stabilità, in modo da giustificare la medesima tutela
costituzionalmente garantita. E’ pertanto legittimo il servizio di osservazione
effettuato dalla P.G. in un bagno pubblico

 


CASSAZIONE PENALE,
Sezione VI, Sentenza n. 11654 del 04/04/2006

(Presidente F.
Romano, Relatore S.F. Mannino)


IN FATTO E IN
DIRITTO

Avverso
l’ordinanza del Tribunale del riesame di Milano 22 giu. 2005, con la quale è
stata confermata l’ordinanza del GIP del Tribunale di Milano 30 mag. 2005 che
gli aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere per il reato
previsto dagli artt. 110 n. 11, 81 cc. 1 e 2, 314, 616 e 619 c.p., commesso in
Peschiera Borromeo nelle date indicate nei capi di imputazione, V. S. ha
proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento per i seguenti
motivi: erronea applicazione dell’art. 314 c.p. e carenza o illogicità della
motivazione in relazione alla fattispecie concreta perchè le Poste Italiane non
sono un ente pubblico, ma una società per azioni che gestisce sia la spedizione
che la corrispondenza e pacchi nonchè altri servizi bancari, quali l’apertura
di conto corrente e bancomat; erronea applicazione degli artt. 14 Cost. e 4 L.
30 mag. 1970 n. 300 e carenza o illogicità della motivazione in relazione
all’installazione da parte della Polizia postale di telecamere audiovisive nei
bagni, considerati come locali pubblici, mentre quello in cui è avvenuta
l’installazione è un centro di smistamento della corrispondenza, in cui
lavorano 1400 dipendenti e non è aperto al pubblico degli utenti del servizio;
violazione dell’art. 273 c.p.p. e carenza o illogicità della motivazione
riguardo alla mancanza dei gravi indizi di colpevolezza per la dedotta
inaffidabilità dei filmati audiovisivi e dei relativi verbali ai fini
dell’esatta e reale identificazione degli indagati e, in particolare, del S.,
identificato con persone diverse e con abbigliamenti differenti; e, inoltre,
perchè dall’esame dei filmati e dalla descrizione dei soggetti non risulta con
certezza, chiunque sia il soggetto individuato, che egli abbia aperto
corrispondenza diretta a terzi; violazione dell’art. 274 c.p.p. e carenza o
illogicità della motivazione riguardo al pericolo di reiterazione, venuto meno
in quanto l’Azienda ha sospeso il S. dal servizio e dalla retribuzione fino alla
data del chiarimento processuale della posizione del dipendente.


L’impugnazione è infondata.

La
definizione di pubblico servizio data dal secondo comma dell’art. 358 c.p. si
articola su due elementi essenziali, il primo, di natura obiettiva, riguarda
l’esercizio di un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica
funzione, benchè priva dei poteri tipici di quest’ultima; il secondo, di
carattere soggettivo, riguarda lo svolgimento di mansioni non puramente di
ordine e della prestazione di opera non meramente materiale.

In ossequio a
questa definizione si ritiene, in tema di qualificazione soggettiva degli
addetti ai servizi postali, che la trasformazione dell’amministrazione postale
in ente pubblico economico e la successiva adozione della forma della società
per azioni, di cui alla legge 23 dic. 1996, n. 662, non fanno venir meno la
natura pubblicistica non solo dei servizi postali definiti riservati dal D.Lgs.
22 lug. 1999, n. 261, ma neppure dei servizi non riservati, come quelli relativi
alla raccolta dei risparmio attraverso i libretti di risparmio postale ed i
buoni postali fruttiferi (cd banco posta), ora disciplinato dal D.Lgs. 30 lug.
1999, n. 284 (Cass., Sez. VI, 15 giu. 2004 n. 36007, ric. Perrone ed altro; Sez.
VI, 8 mar. 2001 n. 20118, ric. Di Bartolo B.).

Ne consegue,
sotto il profilo soggettivo, che, anche dopo la trasformazione dell’Ente Poste
in società per azioni, i servizi postali e quelli di telecomunicazioni
appartengono al novero dei servizi pubblici, sia per la situazione di
sostanziale monopolio alla produzione affidata all’Ente Poste, senza che abbia
alcun rilievo la possibilità che alcune attività del servizio possano essere
gestite in regime di concessione amministrativa, giacchè non viene meno la
funzione e il ruolo di garantire i valori costituzionali della libertà e della
segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.) assume il mezzo di raccolta, di
trasporto e distribuzione della corrispondenza.

E, sotto il
profilo soggettivo, che riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio
l’impiegato postale addetto alla selezione e allo smistamento della
corrispondenza in arrivo o in partenza (Cass. Sez. VI, 9 lug. 1998 n. 10138,
ric. Volpi AM; sez. VI, 10 giu. 1999 n. 9929, ric. Billè; Sez. Vi, 7 mag. 2004
n. 37102, ric. Ferreri).

Pertanto, nel
caso dell’addetto al servizio postale che manometta un plico impossessandosi
delle banconote ivi contenute, è configurabile il concorso dei delitti di
peculato e di violazione di corrispondenza, non sussistendo un rapporto di
specialità tra l’art. 616 e l’art. 314 c.p.

Infatti, la
clausola se il fatto non è preveduto come reato ad altra disposizione di legge,
contenuta nell’art. 616 c.p., va interpretata con riferimento al fatto tipico
della presa di cognizione del contenuto di una corrispondenza ovvero della sua
sottrazione, distrazione, distruzione o soppressione, eventualmente descritto in
una norma penale diversa da quella dell’art. 616; condotte, queste, non
specificamente enunciate nel delitto di peculato, che ha diversa oggettività
giuridica rispetto all’altra figura delittuosa (Cass., Sez. VI, 14 ott. 1998 n.
11360, ric. Merloni).

Il primo
motivo di ricorso è, quindi, infondato.

Alla medesima
conclusione si perviene riguardo al secondo motivo.

Dal testo
dell’art. 614 c.p., richiamato dal secondo comma dell’art. 266 c.p.p., si desume
che luogo di privata dimora è in primo luogo l’abitazione, come quello in cui
la persona svolge le sue funzioni essenziali di vita e di relazione, e quindi,
tutti quei luoghi che assolvono a funzioni analoghe, lavorative, professionali o
di altra natura, come lo studio o lo svago, con carattere di stabilità, in modo
da giustificare la medesima tutela costituzionalmente garantita.

Il bagno di
un locale pubblico non ha evidentemente queste caratteristiche e non puo’,
quindi,come locale di privata dimora, benchè la funzione di servizio da esso
svolta esprima naturalmente esigenze di riservatezza meritevoli di tutela e
tuttavia differenti rispetto a quelle che riguardano il luogo di privata dimora
e realizzabili in forme diverse e più specificamente idonee in sede di
esecuzione.

Pertanto, il
servizio di osservazione realizzato dalla polizia giudiziaria per mezzo di una
telecamera installata all’interno di un bagno di un locale pubblico non
configura una forma di intercettazione tra presenti ai sensi dell’art. 266 c. 2
c.p.p., in quanto il luogo in questione, caratterizzato da una frequenza
assolutamente temporanea degli avventori e condizionata unicamente alla
soddisfazione di un bisogno personale, non puo’ essere assimilato al luoghi di
privata dimora di cui all’art. 614 c.p., che presuppongono una relazione con un
minimo grado di stabilità con le persone che li frequentano, e un soggiorno
che, per quanto breve, abbia comunque una certa durata, tale da far ritener
apprezzabile l’esplicazione di vita privata che vi si svolge (C.Cost. 13 feb.
2002 n. 135; Cass., Sez. VI, 10 gen. 2003 n. 6962, ric. Cherif Ahmed; Sez. VI,
10 genn. 2003 n. 3443, ric. Mostra).

Anche il
secondo motivo di ricorso è percio’ infondato.

Con il terzo
motivo il ricorrente contesta l’affidabilità degli accertamenti eseguiti.

In realtà,
la sentenza impugnata ha confutato adeguatamente ogni obiezioni, rilevando come
i filmati siano stati accuratamente esaminati e selezionati, con la rimozione di
tutti quelli che apparivano equivoci.

E il Giudice
di appello segnala come proprio questa selezione dimostri che la prova è stata
desunta solo da elementi certi e inequivoci.

Soprattutto
ha aggiunto che l’ingresso nel bagno dei vari protagonisti, fra cui il S., è
stato rilevato e registrato, per cui l’identificazione appare sicura.

E, inoltre,
che nei filmati il ricorrente viene ritratto in atteggiamenti inequivocabili,
mentre apre le buste, ne guarda il contenuto e in certi casi se ne appropria,
intascandolo.

Per contro il
ricorrente muove in realtà censure in fatto, peraltro già smentite dagli
accertamenti dei giudici del merito e, quindi, manifestamente infondate, che
implicano una ricostruzione della vicenda diversa da quella eseguita con la
sentenza impugnata, prospettando una revisione del giudizio di merito
incompatibile con il controllo di legittimità, il quale ha fisiologicamente per
oggetto la verifica della struttura logica della sentenza e non puo’, quindi,
estendersi all’esame e alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti alla
causa, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto al quale la
Corte di cassazione non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di
una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa (Cass.,
Sez. unite, 2 lug. 1997 n. 6402, ric. Dessimone; Sez. III, 12 feb. 1999 n. 3539,
ric. Suini; Sez. III, 14 lug. 1999 n. 2609/99, ric.


Paone; id., 12 nov. 1999 n. 3560, ric. Drigo; Sez. VII, 9 lug. 2002 n. 35758,
ric.

Manni G.).

Il terzo
motivo di ricorso risulta percio’ per più versi inammissibile.

Per quanto
riguarda il quarto motivo si osserva che in tema di esigenze cautelari per
l’adozione di misure coercitive personali con riguardo a reati contro la PA
commessi da pubblici funzionari o impiegati, la dimissione o sospensione dal
servizio non determinano di per se necessariamente la cessazione del pericolo di
reiterazione di reati della tessa specie (art. 274 c. 1 lett. c, c.p.p.), che il
giudice di merito puo’ ritenere sussistente anche quando il pubblico ufficiale
risulti sospeso o dimesso dal servizio; in tale caso pero’ lo stesso giudice
deve fornire adeguata motivazione in merito alla non rilevanza della
sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto con riferimento alle
circostanze di fatto che connotano la concreta situazione e cosi’ in riferimento
al tempo decorso da dette evenienze, all’eventuale potere di vertice e di
supremazia raggiunto dal pubblico funzionario durante il servizio e al potere di
influenza, in ipotesi residuante nel pubblico dipendente per assenza di
mutamenti nell’organico dell’ufficio o per interferenza delle sue nuove
occupazioni con la sfera di azione dei pubblici poteri (Cass., Sez. VI, 30 mag.
1995 n. 2179, ric. Stilo; Sez. VI, 28 gen. 1997 n. 285, ric. Ortolano).

Nel caso
concreto il giudice di appello si è fatto carico del problema e lo ha
affrontato con specifica motivazione, sottolineando, oltre alla provvisorietà
ed alla revocabilità del provvedimento rispetto al procedimento disciplinare,
che la prossimità degli episodi delittuosi, risalenti a meno di tre mesi, ed il
loro numero e l’ampiezza dell’attività illecita, la quale aveva portato nelle
tasche del S. svariate bancon

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