Penale

La mancata esecuzione di un provvedimento del giudice non costituisce reato – CASSAZIONE PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 36692 del 05/10/2007

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Il mero rifiuto di
ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 comma 2 c.p. non
costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura
personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva del
provvedimento eluso esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato.

 


CASSAZIONE
PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 36692 del 05/10/2007

(
Presidente E. Lupo, Relatore A. Nappi)


 

MOTIVI DELLA
DECISIONE

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Genova ha confermato la
dichiarazione di colpevolezza di G. V. in ordine al delitto di elusione
dell’esecuzione dell’ordinanza possessoria con la quale il giudice civile le
aveva ingiunto la restituzione ad AB e GC di un’area pertinenziale a un
magazzino di loro proprietà.

I giudici del merito, pur riconoscendo che il comportamento dell’imputata fu di
mera inottemperanza all’obbligo derivante dal provvedimento possessorio, ne
hanno nondimeno dichiarato la rilevanza penale nel presupposto che il reato di
cui all’art. 388 c.p. tuteli “l’autorità della decisione giudiziaria in sè e
per sè”.

Ricorre per cassazione GV e propone tre motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 388 c.p. e vizi di
motivazione della decisione impugnata.

Lamenta che i giudici del merito:

a) abbiano erroneamente interpretato come rifiuto di adempiere la lettera con la
quale ella aveva dichiarato di non avere nulla da rispondere alla richiesta
scritta di restituzione dell’immobile;

b) abbiano erroneamente qualificato come elusivo il mero rifiuto di adempiere il
provvedimento possessorio, senza considerare le conseguenze assurde cui
condurrebbe il riconoscimento di rilevanza penale a qualsiasi comportamento di
inottemperanza a un titolo esecutivo giudiziale;

c) abbiano erroneamente omesso di considerare che non era esattamente
individuabile l’area di cui era stata ordinata la restituzione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce ancora violazione dell’art. 388 c.p.
e vizi di motivazione della decisione impugnata. Lamenta che erroneamente i
giudici del merito le abbiano addebitato di avere utilizzato un cane per
impedire alle persone offese l’accesso all’area controversa, mentre in realtà
l’animale era legato, e di avere occupato l’area con una catasta di legna,
peraltro già accumulata in precedenza sul posto.

Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 388 c.p. e vizio
di motivazione della decisione impugnata in ordine all’elemento psicologico del
reato.

2. La Sesta sezione penale di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato,
ha denunciato un contrasto di giurisprudenza sui limiti di rilevanza a norma
dell’art. 388 comma 2 c.p. della condotta elusiva “dell’esecuzione di un
provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di
altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della
proprietà, del possesso o del credito”.

Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, “nel delitto di cui all’art.
388 c.p. il termine "elusione" deve essere inteso in senso ampio sino a
comprendere qualunque comportamento positivo o negativo – che non esige
scaltrezza o condotta subdole – diretto ad ostacolare l’esecuzione del
provvedimento del giudice” (Cass., sez. III, 14 febbraio 1969, Soricelli, m.
111040, Cass., sez. I, 20 gennaio 1978, Righi, m. 139625, Cass., sez. III, 4
giugno 1980, Guidi, m. 146139, Cass., sez. VI, 4 giugno 1990, Piraino, m.
185810, Cass., sez. VI, 8 maggio 1996, Sapienza, m. 205078, Cass., sez. VI, 6
ottobre 1998, De Leo, m. 211739). Si ritiene percio’ che “il delitto di mancata
esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice non presuppone a nessun
effetto che l’interessato abbia previamente promosso l’esecuzione forzata del
diritto riconosciutogli dal giudice, essendo sufficiente che egli abbia
richiesto, anche informalmente, di adempiere” (Cass., sez. VI, 1 luglio 1997,
Perri, m. 209279, Cass., sez. III, 16 marzo 1982, D’Introno, m. 154215).

Secondo un opposto orientamento giurisprudenziale, invece, “ai fini della
sussistenza del reato di elusione di un provvedimento del giudice di cui
all’art. 388, comma secondo c.p., non è sufficiente un mero comportamento
omissivo, ma è necessario un comportamento attivo ovvero commissivo del
soggetto, diretto a frustrare o quanto meno a rendere difficile l’esecuzione del
provvedimento giudiziale, cio’ perchè la semplice inattività viene perseguita
dalla legge con sanzioni di carattere civilistico appositamente predisposte”
(Cass., sez. VI, 19 marzo 1991, Modesto, m. 187420, Cass., sez. VI, 23 marzo
2000, Valente, m. 220561; analogamente già Cass., sez. III, 17 ottobre 1968, Di
Florio, m. 109706, Cass., sez. III, 16 maggio 1974, Tedeschi, m. 129207, Cass.,
sez. III, 31 ottobre 1979, Girola, m. 143826, Cass., sez. VI, 8 aprile 1981,
Saracini, m. 090008).

Una tesi intermedia è sostenuta infine dalla giurisprudenza che distingue in
ragione della natura dell’obbligo imposto con il provvedimento giudiziale cui
non si è ottemperato. Se si tratta di un obbligo di non fare, si sostiene,
risulta elusivo anche il solo fatto della sua violazione; se si tratta di un
obbligo di fare, è rilevante solo il comportamento volto a impedire il
risultato concreto cui tende il comando giudiziale (Cass., sez. VI, 9 maggio
2001, Caratelli, m. 219973, Cass., sez. VI, 12 novembre 1998, Salini, m.
213909). Si precisa peraltro che, anche quando si tratti della violazione di
obblighi di fare, “la inazione dell’obbligato puo’ assumere rilievo, ogni volta
che l’esecuzione del provvedimento del giudice richieda la sua collaborazione”
(Cass., sez. VI, 18 novembre 1999, Baragiani, m. 217332, Cass., sez. III, 22
ottobre 1971, Trio, m. 119710, Cass., sez. III, 18 maggio 1967, Palmerini, m.
104898), in particolare se si tratti di attività non fungibile (Cass., sez.
III, 15 maggio 1967, Silvestro, m. 105101).

3. Si discute dunque “se per la sussistenza del reato previsto dall’art. 388
comma 2 c.p. sia sufficiente che la condotta elusiva corrisponda ad una mera
inottemperanza ovvero ad un semplice rifiuto di eseguire il provvedimento
giudiziale, oppure occorra un comportamento commissivo diretto ad ostacolare
l’esecuzione del provvedimento o, ancora, se sia necessario distinguere la
condotta di elusione a seconda della natura dell’obbligo da eseguire (obbligo di
fare o di non fare)”.

Il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla Sesta sezione penale di questa
Corte ha peraltro la sua origine nella risalente disputa soprattutto dottrinale
sull’oggetto giuridico dei reati previsti dall’art. 388 c.p. nei suoi due primi
commi, che ne esaurivano il testo prima della modifica apportatavi dalla legge
n. 689 del 1981.

S’è a lungo discusso infatti se oggetto giuridico dei due reati sia l’autorità
in sè delle decisioni giudiziarie ovvero solo la possibilità di una loro
effettiva esecuzione. Ed è evidente che solo la prima opzione interpretativa
renderebbe rilevanti in ogni caso anche comportamenti meramente omissivi.

L’inadeguatezza di tale opzione è tuttavia palesata dalla considerazione che il
primo comma dell’art. 388 c.p. non assegna rilevanza penale a qualsiasi
inadempimento “degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna o dei
quali è in corso l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria”, ma richiede
il compimento di atti simulati o fraudolenti, intesi a sottrarre l’obbligato
all’adempimento e seguiti dall’effettiva inottemperanza all’ingiunzione di
eseguire la sentenza.

Si puniscono dunque nel primo comma dell’art. 388 c.p. i comportamenti destinati
a precostituire una situazione di ineseguibilità della decisione giudiziaria
definitiva. E non si vede come si possa non riconoscere un’analoga ratio anche
al secondo comma, laddove punisce comportamenti elusivi di provvedimenti
cautelari o comunque interinali, che sono destinati appunto ad assicurare
l’eseguibilità della decisione finale, anticipandone talora in qualche misura
gli effetti.

Entrambe le fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 388 c.p. hanno in
realtà per oggetto giuridico l’interesse all’effettività della tutela
giurisdizionale, che è garantito dalla Costituzione, secondo un’interpretazione
ormai consolidata della Corte costituzionale (C. cost., n. 77/2007, C. cost., n.
24/2003).

Non è dunque la possibilità di un’esecuzione attuale della decisione
giudiziaria a venire in rilievo, perchè il primo comma estende esplicitamente
la tutela anche agli obblighi “dei quali è in corso l’accertamento dinanzi
l’Autorità giudiziaria”. Ma è tuttavia rilevante l’esigenza di preservare la
possibilità di un’effettiva efficacia pratica della decisione futura. E benchè
il riferimento della seconda fattispecie a provvedimenti ordinatori e cautelari
estenda certamente l’ambito della tutela, non v’è ragione di ipotizzare una
diversità di oggetto giuridico tra primo e secondo comma dell’art. 388 c.p.,
come pure si è sostenuto da una parte della dottrina.

Nella prima fattispecie è infatti l’inottemperanza “all’ingiunzione di eseguire
la sentenza” ad assegnare rilevanza penale ai precedenti comportamenti
simulatori o fraudolenti. Nella seconda fattispecie assumono invece immediata
rilevanza penale i comportamenti elusivi delle misure interinali adottate in
funzione cautelare o anticipatoria della futura decisione sul merito della
controversia. Ma in entrambe le fattispecie il legislatore ha inteso garantire
l’effettività della tutela giurisdizionale, punendo i comportamenti destinati a
privarla di una concreta possibilità di incidere sugli interessi controversi.

E’ significativo del resto che la condotta prevista dall’art. 388 comma 2 c.p.,
qui specificamente in discussione, sia descritta come elusione non del
provvedimento interinale in sè, bensi’ della sua esecuzione. Sicchè è
ragionevole ritenere che si richieda una condotta ben più trasgressiva della
mera inottemperanza, altrimenti sarebbe stato sufficiente definire la condotta
in termini di “inosservanza”, come nell’art. 389 c.p., che punisce appunto la
“inosservanza di pene accessorie”, nell’art. 509 c.p., che punisce la
“inosservanza delle norme disciplinanti i rapporti di lavoro”, o nell’art. 650
c.p., che punisce la “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”.

Come da tempo riconosce una parte della giurisprudenza, occorre nondimeno tener
conto della natura degli obblighi derivanti dai provvedimenti interinali
tutelati dal secondo comma dell’art. 388.

Quando si tratti di obblighi la cui esecuzione coattiva non richieda
necessariamente un intervento agevolatore del soggetto obbligato, non v’è
ragione di assegnare rilevanza al suo atteggiamento di mera inottemperanza,
perchè, come s’è detto, non è qui in discussione una mera trasgressione
all’ordine del giudice, bensi’ l’ostacolo all’effettiva possibilità di una sua
esecuzione. In questi casi assumono dunque rilevanza penale solo i comportamenti
che ostacolino dall’esterno un’attività esecutiva integralmente affidata ad
altri.

Diversamente deve ritenersi, invece, quando la natura personale delle
prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento
giudiziale escludano che l’esecuzione possa prescindere dal contributo
dell’obbligato. In questi casi infatti l’inadempimento dell’obbligato
contraddice di per sè la decisione giudiziale e ne pregiudica l’eseguibilità.

Ove si tratti di provvedimento interdittivo (obbligo di non fare), in
particolare, la violazione dell’obbligo di astensione priva immediatamente di
effettività la decisione giudiziale, che risulta appunto elusa nella sua
esecuzione, perchè contraddetta oltre che inadempiuta. E ove si tratti di
provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un
comportamento agevolatore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si
esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma tende a
impedirne o comunque a ostacolarne l’esecuzione, incidendo cosi’ ancora
sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma
incriminatrice.

Si puo’ pertanto concludere enunciando il seguente principio di diritto:

Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art.
388 comma 2 c.p. non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a
meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura
interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo
dell’obbligato. Infatti l’interesse tutelato dal secondo come dal primo comma
dell’art. 388 c.p. non è l’autorità in sè delle decisioni giurisdizionali,
bensi’ l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.

4. Nel caso in esame, come risulta dalla stessa sentenza impugnata, l’ordinanza
di reintegrazione di AB e GC nel possesso dell’area di loro proprietà fu
effettivamente eseguita dall’ufficiale giudiziario, che, constatato il rifiuto
di restituzione opposto da GV, si avvalse di ausiliari per rimuovere la legna e
gli altri oggetti accatastati nello spazio controverso.

I giudici d’appello riconoscono che si tratto’ della mera trasgressione
dell’obbligo derivante dal provvedimento possessorio. Ma attribuiscono rilevanza
penale a tale comportamento, pur di mera inottemperanza, nel presupposto che
oggetto della tutela sia appunto “l’autorità della decisione giudiziaria in sè
e per sè”.

Esclusa tuttavia la validità di un tale presupposto, risulta evidente, sulla
base dello stesso accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata,
l’insussistenza del reato contestato. E pertanto, in applicazione dell’art. 129
c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perchè il fatto non
sussiste.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè il fatto non
sussiste,

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