CivileGiurisprudenza

E’ valida la notifica al procuratore della società estinta per incorporazione – Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 19509/2010

E’ valida la notifica al procuratore della società estinta per incorporazione

L’impugnazione è validamente notificata al procuratore costituito di una società anche se questa, dopo la chiusura della discussione, si è estinta per incorporazione. Lo ha stabilito la Cassazione, a sezioni Unite, con la sentenza 19509/2010 che ha risolto un contrasto sull’interpretazione delle norme sulla fusione anteriori alle modifiche introdotte dal Dlgs 6/2003. Secondo il collegio di legittimità nel caso in cui l’impugnante non abbia avuto conoscenza dell’evento modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notifica, l’impugnazione può essere notificata al procuratore costituito.

 Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 19509 del 14/09/2010

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 24 marzo 1997 la C. I. Company of Europe s.a. (successivamente A. I. s.a.) ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Milano la Società Trasporti C. s.p.a., chiedendone la condanna al pagamento di L. 30.147.100 a titolo di rivalsa, ai sensi dell’art. 1916 c.c., per avere pagato identico importo al proprio assicurato S. Confezioni s.p.a. in conseguenza della perdita delle merci consegnate alla società Trasporti C. , che aveva subito una rapina, di cui ha contestato l’esistenza e, comunque, l’evitabilità.

La società convenuta ha dedotto che la perdita delle merci era avvenuta per caso fortuito e, in subordine, ha invocato la limitazione della responsabilità ai sensi della L. n. 450 del 1985.

Con sentenza del 2 novembre 1999 il Tribunale ha rigettato la domanda ma, con sentenza del 22 luglio 2003, la Corte di Appello di Milano, nella contumacia della società appellata, l’ha accolta condannando la Società Trasporti C. s.p.a. a pagare alla A. I. s.a. la somma di Euro 15.569,68 oltre agli interessi legali, ritenendo che la rapina subita dal vettore era prevedibile, in quanto era stata segnalata la presenza di rapinatori sull’autostrada percorsa dal veicolo della società di trasporti e che, comunque, il comportamento dell’autista, che si era staccato da una colonna di autocarri formatasi proprio per evitare il rischio di rapine, era stato imprudente. Né poteva applicarsi la limitazione della responsabilità del vettore, di cui alla L. n. 450 del 1985, art. 1 e successive modificazioni, in presenza di colpa grave dello stesso.

Ha preposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati con memoria, la S. Italiana s.p.a., incorporante la Società Trasporti C. Resiste con controricorso la A. I. s.a.

Poiché con il ricorso è stata sollevata la questione della nullità dell’atto d’appello, in quanto indirizzato alla Trasporti. C. che è stata incorporata dalla S. Italiana con atto pubblico del 27 settembre 2000, iscritto nel registro delle imprese il 28 successivo, anteriormente alla notifica dell’appello avvenuta il 9 novembre 2000, la terza sezione civile ha rimesso la questione al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite avendo rilevato che, mentre l’ordinanza n. 2637/2006 sembra ritenere che l’art. 2504 bis c.c., nel testo modificato con D.Lgs. n. 6 del 2003 – da intendersi come previsione che la fusione per incorporazione non comporta l’estinzione della società incorporata e la creazione di un nuovo soggetto giuridico, ma solo una vicenda modificativo-evolutiva dello stesso soggetto, che conserva la propria identità – abbia natura interpretativa e quindi efficacia retroattiva rispetto alle fusioni perfezionatesi prima del 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della nuova norma, Cass. n. 17855 del 2007 ha affermato che le fusioni per incorporazione avvenute prima di tale data comportano l’estinzione della società incorporata e quindi l’interruzione del processo.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, deducendo la violazione dell’art. 1 c.p.c., comma 63, n. 2, artt. 164 e 328 c.p.c. e degli artt. 2504 e 2504 bis c.c. la ricorrente sostiene che l’atto d’appello, indirizzato alla Società Trasporti C. , soggetto inesistente al momento della notifica dell’impugnazione in quanto estinto per incorporazione nella S. Italiana s.p.a., sarebbe nullo. La fusione per incorporazione, deliberata dalle assemblee delle due società interessate il 27 giugno 2000, ha formato oggetto di atto pubblico del 27 settembre 2000, iscritto nel registro delle imprese il 28 settembre successivo. La nullità (non della notifica, ma) dell’atto d’impugnazione ha comportato il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e, comunque, l’inesistenza della sentenza d’appello.

Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1693, 2697 e 1729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. e vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere affermato che la perdita del carico a causa della rapina subita dal conducente dell’autocarro che lo trasportava non era imputabile a caso fortuito o forza maggiore ma costituiva un evento prevedibile ed evitabile con l’ordinaria diligenza, con ciò omettendo di valutare le circostanze concrete, oggetto di denuncia penale e mai contestate, dalle quali sarebbe emerso che a causa delle condizioni di traffico non sarebbe stato possibile viaggiare incolonnati e che, anche ad ammettere la prevedibilità della rapina, rendevano inevitabile l’evento in presenza di minacce con armi provenienti da più persone riunite.

Con il terzo motivo, deducendo la violazione dell’art. 1693 c.c.. e della L. n. 450 del 1985, art. 1, nn. 2 e 3 e successive modificazioni, la ricorrente lamenta che la corte territoriale abbia escluso la limitazione del risarcimento sulla base di un immotivato accertamento della colpa grave del vettore.

2. Il primo motivo non è fondato.

In ordine logico va innanzi tutto esaminata la questione se la fusione per incorporazione della Trasporti C. nella S. Italiana, avvenuta con atto pubblico del 27 settembre 2000, iscritto nel registro delle imprese il 28 successivo, abbia determinato l’estinzione della società incorporata, questione che ha formato oggetto dell’ordinanza di rimessione da parte della terza sezione civile.

Ora, nella vigenza della disciplina dettata dall’art. 2504 bis c.c., nel quale il D.Lgs. n. 22 del 1991, art. 13 aveva sostanzialmente trasfuso l’art. 2504, comma 4 nell’originario testo codicistico, nonostante il dissenso di parte della dottrina, era orientamento costante e pacifico che la fusione di società mediante incorporazione realizzasse un’ipotesi di successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa delle persone fisiche, dalla quale deriva l’estinzione della società incorporata ed il contestuale subingresso di quella incorporante nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alla prima (ex multis: Cass. n. 12350 e 5716 del 2003; 17974, 9504 e 4679 del 2002; 14238, 10595, 9595, 6949, 4180 e 2655 del 2001; 9796/2000;

In senso contrario non può invocarsi, la sentenza, che peraltro sarebbe isolata, n. 15599/2000, la quale, dopo avere affermato che la fusione è inquadrabile tra le vicende modificative dell’atto costitutivo delle società partecipanti, ha espressamente rilevato, richiamando l’art. 2504 bis c.c., comma 1, che tra gli effetti della fusione è compreso anche quello dell’estinzioni delle società partecipanti.

Con riferimento al nuovo art. 2504 bis c.c., conseguente alla riforma del diritto societario (del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 6), la sentenza n. 2637/2006 (seguita da Cass. n. 14526/2006), valorizzando la lettera della disposizione, che non contiene più il riferimento all’effetto estintivo e che, inoltre, sottolinea che la società che risulta dalla fusione o quella incorporante prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, ha affermato che la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo.

Tale interpretazione è stata seguita, peraltro senza esplicita motivazione in ordine alla soluzione implicitamente data al problema di diritto intertemporale, anche con riferimento alle fusioni realizzate prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 2504 bis c.c., che costituiscono oggetto del contrasto rimesso a queste sezioni unite, da una parte della giurisprudenza della Corte (Cass. 15133/2006, 1476/2007, 4661/2007, 22330/2007), mentre altra parte, certamente maggioritaria (Cass. nn. 6686, 13001, 21016, 22489, 23168 del 2006; 2210, 3695, 9900, 12316, 15669, 17681, 17855, 22330, 22658, 27183 del 2007; 7611, 9040, 21161, 21780, 24410, 25618 del 2008) ha mantenuto fermo l’orientamento precedente, al quale la corte ritiene debba essere data continuità.

3. A parte la già rilevata mancata indicazione esplicita di argomenti che inducano a rivedere la giurisprudenza precedente, la tesi della natura interpretativa, e quindi dell’efficacia retroattiva, del nuovo art. 2504 bis c.c. non è convincente. Vero è che queste sezioni unite con l’ordinanza n. 2637 del 2006 hanno testualmente affermato che “Il legislatore ha così (definitivamente) chiarito che la fusione tra società non determina, nell’ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata “, ma l’argomento testuale è troppo labile per giustificare un così netto ravvedimento rispetto all’ultratrentennale orientamento precedente, mentre possono essere invocate ragioni decisive per ritenere che la nuova disciplina abbia natura innovativa e quindi, non retroattiva.

Deve premettersi che, secondo la giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti v. corte cost. n. 170/2008, 400/2007, 409/2005, 168/2004, 291/2003, 29 e 374 del 2002, 525 e 292/2000), seguita anche da questa Corte (sent. n. 677/2008, 4070/2004, 12605/2002, 8539/2000, 12386/2000), pur non essendo richiesto che sia effettivamente insorto un contrasto giurisprudenziale, per poter ritenere la natura interpretativa di una norma di legge, è pur sempre necessario che esista un’obbiettiva incertezza nell’applicazione del dato normativo e un obbiettivo dubbio ermeneutico e che la nuova norma sia diretta a chiarire il contenuto di norme preesistenti ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati tra quello plausibilmente ascrivibili alle norme stesse, purché la scelta imposta rientri tra le possibili varianti di senso del testo interpretato e sia compatibile con la sua formulazione. La discrezionalità del legislatore, peraltro, oltre a richiedere la sussistenza dei presupposti indicati, incontra, comunque, dei limiti, anche al di fuori della materia penale, identificati: a) nella salvaguardia dei principi generali di ragionevolezza e di eguaglianza; b) nella tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla sicurezza giuridica e cioè sulla certezza dell’ordinamento giuridico, specialmente in materia processuale; c) nel rispetto della funzione giudiziaria (con il conseguente divieto di intervenire sugli effetti del giudicato e sulle fattispecie sub judice) (Corte Cost. n. 170/2008, cit., 416/1999, 111/1998, 211/1997, 311/1995, 397/1994).

Ora, come si è rilevato, sull’affermazione che dalla fusione per incorporazione derivi l’estinzione automatica della società incorporata si è formato un orientamento pacificamente e costantemente: seguito dalla giurisprudenza di questa Corte che, ben a ragione, deve essere considerato diritto vivente, a fronte del quale sono stati sollevati dubbi soltanto da una parte della dottrina, senza però che tali dubbi fossero idonei a creare un’oggettiva situazione di incertezza applicativa. Tale pacifico orientamento, peraltro, è basato sulla lettera dell’art. 2504, comma 4 e dell’art. 2504 bis (introdotto con il D.Lgs. n. 22 del 1991) che faceva espresso riferimento alle “società estinte” per effetto della fusione. La negazione dell’effetto estintivo, quindi, anche se compatibile con ‘esigenza teorica di conciliare tale effetto con la permanenza dei rapporti sociali preesistenti alla fusione, non rientra certamente tra le possibili varianti di senso del testo delle disposizioni precedenti e, comunque, finirebbe per apportare un vulnus rilevante all’affidamento legittimo sulla certezza dei rapporti giuridici derivante dalla costante e pacifica giurisprudenza precedente.

D’altra parte, sia nella Legge Delega n. 366 del 2001 che nella relazione al D.Lgs n. 6 del 2003, non è stata manifestata alcuna volontà del legislatore delegato diretta a superare un’obbiettiva incertezza o un dubbio interpretativo circa la portata della disciplina preesistente, essendosi invece ribadito che, in materia di fusioni, veniva rispettata la disciplina comunitaria nella quale, fin dalle direttive n. 78/855/CEE (terza direttiva in materia di fusioni) e 82/981/CEE (sesta direttiva sulle scissioni societarie), trasfuse. Nel D.Lgs. n. 22 del 1991 è stato sempre previsto che dalle modificazioni societarie prese in considerazione deriva l’estinzione delle società scisse o fuse.

Tale impostazione, inoltre, è rimasta costante anche successivamente, come dimostrano, l’art. 33 del regolamento CE n. 1453/2003, relativo alla statuto della società cooperativa europea, e l’art. 1 della direttiva del parlamento europeo n. 2005/56, sulle fusioni transfrontaliere.

Né, fermo comunque il limite costituzionale derivante dall’esigenza di salvaguardare l’affidamento nella sicurezza giuridica derivante dal costante e pacifico orientamento favorevole alla tesi dell’estinzione delle società fuse (o di quella incorporata), che imporrebbe, nel dubbio, di preferire l’interpretazione conforme a costituzione, a favore della esistenza di un’oggettiva incertezza interpretativa e quindi della natura interpretativa del nuovo art. 2504 bis, possono invocarsi quelle disposizioni che sembrano seguire la tesi dell’effetto meramente modificativo e non estintivo derivante dalle fusioni, come il D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 29 e 32 (in tema di responsabilità degli enti per i reati commessi dai dirigenti), il D.P.R. n. 34 del 2000, art. 15 (recante il regolamento di attuazione della L. n. 109 del 1994, legge quadro sui lavori pubblici) e il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 4 (T.U. bancario). Si tratta infatti di norme dettate dalle peculiari esigenze proprie di ognuno dei sistemi normativi all’interno dei quali sono inserite, che hanno privilegiato, agli specifici fini presi in considerazione, le esigenze di continuità dei rapporti giuridici facenti capo alle società partecipanti alla fusione, esigenze peraltro non incompatibili con la configurazione del fenomeno in termini di successione tra soggetti giuridici, come è dimostrato dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 172, T.U. sulle imposte dirette, come modificato dal D.Lgs. n. 344 del 2003, che, pur essendo diretto a garantire l’adempimento degli obblighi e l’esercizio dei diritti tributari delle società fuse o incorporate, continua a riferirsi all’effetto estintivo che deriva dal compimento delle operazioni di fusione.

4. Pur dovendo quindi ritenersi che a seguito dell’incorporazione della Società Trasporti. C. nella S., la prima società si sia estinta, tuttavia non può affermarsi che l’atto d’appello indirizzato dalla A. I. alla società estinta e notificato presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, in epoca successiva all’atto di fusione, sia nullo.

Sulla questione è rinvenibile nella giurisprudenza della Corte un contrasto tra un primo orientamento (Cass. n. 1413, 6686, 23168 del 2006, 554 e 22236/2004, 17402/2003, 9504/2002, 7254/1999, 3684/1998, 10372/1993, 366/1992) secondo cui, nel regime anteriore alla modifica apportata dal D.Lgs. n. 6 del 2003 all’art. 2504 bis c.c., comma 1, se la fusione interviene dopo la pubblicazione della sentenza e durante la pendenza del termine per impugnarla, l’impugnazione dovrà essere proposta da o contro il nuovo soggetto effettivamente legittimato anche se l’evento della fusione non sia stato né dichiarato né notificato, mentre un altro orientamento (Cass. n. 12387, 10501 e 8908 del 2004, 4741/2001, 6065/1998, 578/1973, 3346/1969) ritiene che se la fusione non sia stata portata a conoscenza della controparte, l’appello deve ritenersi ritualmente proposto nei confronti della società incorporata perchè l’incorporazione può assumere rilevanza solo quando sia dichiarata in udienza o notificata alle altre parti, ovvero emerga comunque dalla relazione di notifica di uno degli atti di cui all’art. 292 c.p.c..

Pur trattandosi di questione che ha un limitato rilievo temporale, essendo destinata ad essere superata quando sarà a regime la nuova disciplina delle fusioni entrata in vigore dal 1 gennaio 2004, le sezioni unite ritengono che, sia pure per motivazioni in parte diverse, debba essere preferito il secondo e più risalente orientamento, in quanto, da un lato, soddisfa in modo più rigoroso le esigenze sistematiche e, dall’altro, consente un più soddisfacente bilanciamento tra la tutela della parte legittimata a proseguire il giudizio e quella della parte, ignara dell’evento che ha interessato l’antagonista, che intenda proporre impugnazione.

L’orientamento al quale si vuole dare continuità si fonda, sostanzialmente, su due affermazioni, tra loro connesse: a) l’applicazione analogica, stante l’identità di ratio, dell’art. 300 c.p.c., che prende in considerazione eventi verificatisi prima della chiusura della discussione, anche all’ipotesi, non prevista dalla norma, di estinzione della società verificatasi successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza dei termini di cui all’art. 190 c.p.c; b) l’irrilevanza nel processo della disciplina sostanziale del mandato (art. 1722 c.c., n. 4) e dell’efficacia degli atti destinati ad essere iscritti nel registro delle imprese (art. 2193 c.c.).

Per contro, l’opposto orientamento, che ha trovato applicazione anche nella sentenza delle Sezioni unite n. 15783 del 2005, avente ad oggetto gli effetti del conseguimento della maggiore età verificatosi prima della chiusura della discussione, nega che la limitata ultrattività del mandato alle liti prevista dall’art. 300 c.p.c., in quanto derogatrice del principio secondo cui la morte del mandante estingue il mandato, possa estendersi al di là delle ipotesi espressamente previste e ritiene, in continuità con quanto affermato dalla sentenza n. 11394 del 1996, che dall’art. 328 c.p.c. si desume che il mutamento della situazione soggettiva della parte ha efficacia automatica nel processo, determinando il mutamento della legittimazione attiva e passiva a notificare la sentenza e a proporre o ricevere l’impugnazione, senza che sia richiesta la conoscenza o la conoscibilità dell’evento.

5. Ritiene il collegio che la questione dell’applicabilità alla fattispecie di cui si tratta dell’art. 300 c.p.c. debba essere superata non meritando conferma l’orientamento secondo cui, dovendo l’effetto estintivo derivante dalla fusione accostarsi a quello della successione universale mortis causa, ne consegue l’applicazione della disciplina dell’interruzione del processo di cui all’art. 299 e segg. c.p.c. (ex multis v. Cass. n. 18615/2008; 22568, 17855, 15669 e 9900 del 2007, 6686/2006).

Tale orientamento, infatti, non resiste alle puntuali osservazioni della più recente dottrina che ha segnalato, innanzi tutto, la diversa formulazione letterale dell’art. 110 c.p.c., che accomuna la morte della persona fisica al venir meno per altra causa della parte “per altra causa” ai fini della prosecuzione del processo (che non è necessariamente Legata al fenomeno dell’interruzione), rispetto a quella dell’art. 299 e segg., che disciplina esplicitamente solo gli effetti della morte (o della perdita della capacità di stare in giudizio). Inoltre, a parte l’inaccettabilità di una concezione antropomorfica della soggettività giuridica, e delle società in particolare, poichè la disciplina dell’interruzione del processo è diretta a ripristinare l’effettività del contraddittorio, tale esigenza sussiste solo quando si verificano eventi estranei alla volontà dei soggetti che ne sono colpiti, sui quali, per tale ragione, non possono ricadere gli eventuali effetti negativi derivanti da un processo al quale non abbiano avuto la possibilità di prendere parte. Nella modificazione dell’organizzazione societaria, invece, il fenomeno è riconducibile alla volontà del soggetto e pertanto non sussiste l’esigenza garantistica che giustifica il verificarsi dell’effetto interruttivo e del conseguente onere di riassunzione dell’altra parte. La società che “viene meno” a seguito della volontaria fusione non è pregiudicata dalla continuazione di un processo di cui era perfettamente a conoscenza, cosi come nessun pregiudizio subisce la società incorporante o risultante dalla fusione, la quale può intervenire nel processo e, comunque, ha il potere di impugnare la decisione sfavorevole.

Ad analoghe conclusioni questa Corte, peraltro, è già pervenuta allorché di recente (Cass., n. 28989/2008) ha affermato che se è vero che dalla fusione di una società per incorporazione, ai sensi dell’art. 2504 bis c.c. (nel testo vigente prima del 1 gennaio 2003), deriva l’estinzione della società incorporata, da ciò non consegue necessariamente l’applicazione di tutte le norme dettate per l’interruzione del processo e in particolare dell’art. 303 c.p.c., comma 2, secondo cui il ricorso in riassunzione deve contenere gli estremi della domanda. In tale occasione si è avuto modo di precisare che le vicende della “morte della persona fisica” e del “venir meno della personalità giuridica” di una società per fusione, equiparate ai fini della successione nel processo di cui all’art. 110 c.p.c., restano oggettivamente distinte, perchè mentre nel caso di persona fisica vi è una successione di soggetti diversi e pienamente distinti rispetto alla parte originaria deceduta, nell’incorporazione per fusione, la società incorporata, già prima della citata novella del 2003, in qualità di partecipe alla fusione con la società in cui si fonde non è totalmente distinto dalla parte già costituita.

6. E’ invece decisiva l’altra argomentazione, utilizzata, ovviamente in senso opposto, da entrambi gli orientamenti dei quali si discute, relativa alla rilevanza della disciplina sostanziale nel processo, sia ai fini di riconoscere o negare ultrattività al mandato alle liti conferito dalla società estinta che a quelli degli effetti processuali della pubblicità legale degli atti di fusione.

Sul piano generale, come è stato osservato in dottrina, dal noto principio chiovendiano secondo cui “il processo per quanto possibile deve dare al titolare del diritto tutto quello e proprio quello che egli avrebbe diritto di conseguire sulla case del diritto sostanziale” deriva la (relativa) autonomia del diritto processuale rispetto al diritto sostanziale, dovendo il primo soddisfare le due concorrenti esigenze della attuazione delle garanzie costituzionali della difesa e del contraddittorio e della realizzazione di efficienza del processo.

In particolare non è del tutto condivisibile l’integrale estensione al diritto processuale della regola dell’effetto estintivo del mandato attribuito dall’art. 1722 c.c., n. 4 (che, comunque, non ignora nella seconda proposizione le esigenze di continuità) alla morte o della perdita della capacità del mandante, dovendo porsi sullo stesso piano e accanto ad essa, all’interno della disciplina processuale, la regola dell’ultrattività del mandato ad litem (di cui all’art. 85 c.p.c., o art. 330 c.p.c.) diretta ad assicurare la funzionalità del processo. Per la stessa ragione, poichè in materia di capacità di stare in giudizio la disciplina processuale detta regole proprie per attribuire efficacia alla conoscenza o alla conoscibilità degli eventi che incidono su tale capacità, non può attribuirsi rilevanza processuale alle regole sostanziali (art. 2193 c.c.) che disciplinano l’efficacia degli atti destinati a essere iscritti nel registro delle imprese (Cass. 8908/2004, 4741/2001, 578/1973, 3346/1969, 1104/1969) come peraltro è espressamente disposto per il periodo anteriore alla chiusura della discussione (o alla scadenza dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.) dall’art. 300 c.p.c..

Venendo alla fattispecie di cui si tratta, deve tenersi presente la frequenza dei fenomeni di fusione societaria, che costituiscono strumenti, per così dire ordinari, della gestione imprenditoriale. A fronte di tale realtà, si impone quindi in misura molto maggiore che in analoghe ipotesi di perdita della capacità di stare in giudizio (come ad esempio il conseguimento della maggiore età, oggetto dell’intervento di queste sezioni unite con la sentenza n. 15783 del 2005, che costituisce evento facilmente percepibile già sulla base degli atti processuali) un attento bilanciamento tra le esigenze del soggetto che intenda impugnare la decisione sfavorevole e quelle del soggetto protagonista di una vicenda modificatrice della capacità di stare in giudizio, dallo stesso voluta e non immediatamente percepibile sulla base degli atti del processo.

Non appare da questo punto di vista ragionevole gravare la parte interessata all’impugnazione dell’onere di una permanente consultazione del registro delle imprese al solo fine di consentirle la semplice gestione del processo. Come non appare ragionevole che le esigenze tutelate fino alla chiusura della discussione attraverso le regole di cui all’art. 300 c.p.c. diventino del tutto irrilevanti, una volta superato tale limite temporale.

D’altra parte la citata sentenza n. 1578/2005, per le ipotesi di mutamenti della capacità successivi alla pubblicazione della sentenza, diverse dal raggiungimento della maggiore età, ha esplicitamente ammesso, sia pure limitatamente ai processi pendenti al 30 aprile 1995 ai quali non si applica la sanatoria ex tunc prevista dall’art. 164 c.p.c. come modificato con la novella del 1990, ha ammesso la rilevanza della non conoscibilità dell’evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che intenda proporre impugnazione. Deve essere quindi condiviso l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’impugnazione è validamente notificata al procuratore costituito di una società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per incorporazione, se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione di esso.

Pertanto, in applicazione di tale principio, poiché l’incorporazione della Società Trasporti C. nella S., oggetto di atto pubblico del 27 settembre 2000, iscritto nel registro delle imprese il 28 settembre successivo, non ha formato oggetto di notificazione in data anteriore alla proposizione dell’appello con atto di citazione del 9 novembre 2000, il primo motivo del ricorso appare infondato e deve essere rigettato.

7. Il secondo e il terzo motivo sono inammissibili perchè si risolvono in critiche al giudizio di fatto compiuto dalla corte territoriale in ordine alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento danno, da un lato, e alla colpa grave del vettore, dall’altro, correttamente e congruamente motivato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio con Euro 1.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

 

Depositata in Cancelleria il 14.09.2010

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *