Diritto TributarioDottrina

Imputabili al contribuente gli esiti delle indagini finanziarie su terzi

Le pronunce della Cassazione su ripartizione dell’onere della prova e configurabilità di una doppia presunzione

Gli articoli 32, primo comma, Dpr 600/1973, e 51, secondo comma, Dpr 633/1972, consentono di porre a base della rettifica i dati concernenti qualsiasi rapporto intrattenuto dal contribuente (direttamente o per interposta persona) con gli intermediari creditizi, quando egli non dimostri di averne tenuto conto nelle relative dichiarazioni o che fossero per esse irrilevanti.
Le controversie instaurate dai contribuenti riguardano l’utilizzabilità e la valenza probatoria di tali dati.

Su tali aspetti possono delinearsi i seguenti filoni giurisprudenziali.
Il primo ruota essenzialmente intorno alla ripartizione dell’onere probatorio. Si è posta la questione della sussistenza o no in capo all’Amministrazione finanziaria dell’onere di fornire la prova della riferibilità al soggetto controllato delle singole movimentazioni bancarie fatte confluire su conti intestati a soggetti terzi.
Il secondo attiene invece alla configurabilità o meno di una doppia presunzione nel caso in cui l’avviso di accertamento sia basato su dati acquisiti da conti di terzi.

Ripartizione dell’onere probatorio
L’articolo 32, primo comma, secondo periodo, Dpr 600/1973, rubricato “Poteri degli uffici” prevede espressamente che “I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504”, ossia i dati relativi a rapporti e operazioni finanziarie, “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni” (cfr Corte costituzionale 225/2005), e, in modo speculare, ai fini Iva, recita anche l’articolo 51, secondo comma, del Dpr 633/1972.

In virtù di tale disposizione, i versamenti e i prelevamenti bancari danno origine a una presunzione legale relativa di maggiori ricavi o di maggiori imponibili Iva non dichiarati (salvo la prova di determinate circostanze contrarie); si tratta di presunzione che la legge trae da un fatto noto (versamento o prelevamento bancario) per risalire a un fatto ignoto (occultamento di imponibile), dispensando da qualunque prova il Fisco a cui favore è stabilita (si veda anche Cassazione, 20735/2010).

La prassi amministrativa (circolare 32/2006) e la giurisprudenza ormai costante precisano che, nonostante la mancanza di un’espressa previsione normativa, risulta ormai fuor di dubbio l’estendibilità delle indagini ai conti di “terzi”, ossia di soggetti non direttamente interessati dall’attività di controllo.
In particolare, la Suprema corte (Cassazione 8507/2010, 16062/2010) ha precisato che l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati.

Nelle controversie in esame, il ricorrente, contestando il mancato assolvimento, da parte dell’ufficio, del proprio onere di dimostrare – non attraverso mere presunzioni – la effettiva riferibilità al soggetto controllato dei conti correnti intestati ai terzi, deduce la sussistenza di un vero e proprio onere di prova a carico dell’Amministrazione finanziaria – non integrabile attraverso meccanismi presuntivi – in tutte le ipotesi in cui al soggetto controllato vengano imputate movimentazioni formalmente riconducibili a conti dei terzi.
Al riguardo, la Corte di cassazione, nella sentenza 21454/2009, ha precisato che “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore. In forza di tali disposizioni deve ritenersi che l’acquisizione dagli istituti di credito di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente e l’utilizzazione dei dati da questi risultanti ai fini delle rettifiche e degli accertamenti non possono ritenersi limitate, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati alla società, ma riguardano anche quelli intestati ai soci e agli amministratori” (vedi anche Cassazione 4752/2010).
Allo stesso modo, la recente sentenza n. 20197 del 24 settembre 2010, sul punto, afferma che la prova della sostanziale riferibilità al soggetto verificato dei conti “estranei” possa essere validamente fornita mediante il ricorso a presunzioni semplici.

Può invero considerarsi ormai consolidato il principio affermato nella citata sentenza secondo cui “l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati”.
Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che la condotta reticente dei soci e dei dipendenti titolari dei conti (vedi anche Cassazione 4752/2010) fosse elemento indiziario sufficiente a provare la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi, “nel senso che su di essi confluissero in realtà operazioni proprie della società. Sicché, in base alla presunzione legale posta dal D.P.R. 633/1973, art. 51, spettava alla società medesima dimostrare quali e quante delle movimentazioni rilevate su quei conti erano estranee agli affari sociali”.
In definitiva, sulla base dei consolidati orientamenti giurisprudenziali citati, la dimostrazione dell’esistenza di un rapporto diretto fra il reddito d’impresa accertato e l’intestazione dei conti a soggetti terzi (amministratori, dipendenti, coniuge e familiari conviventi) può essere quindi fornito tramite presunzioni semplici ex articolo 2729 cc (in senso conforme, Cassazione 5913/2010).

Configurabilità di una doppia presunzione
Le presunzioni semplici, ai sensi dell’articolo 2729 cc, sono quelle conseguenze non stabilite dalla legge, che il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento, trae da un fatto noto per risalire a uno ignoto; gli elementi che ne costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza. In linea generale, è inammissibile la valorizzazione di una presunzione in mancanza di un fatto noto (preasumptum de praesumpto non admittitur).

Secondo consolidato orientamento della Suprema corte, non rileva il richiamo del ricorrente al divieto di doppia presunzione, in cui sarebbe incorso l’ufficio erariale.
La Cassazione, nella sentenza n. 1023 del 18 gennaio 2008, ha infatti affermato che “…il divieto di doppia presunzione attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice e non può ritenersi, invece, violato nel caso in cui da un fatto noto si risale a un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale…” (vedi anche Cassazione 2612/2001, 18421/2005, 27032/2007).

L’accertamento basato sui dati ricavati da conti correnti intestati a terzi è, invero, fondato su di una prima presunzione legale secondo la quale i movimenti del conto vengono recuperati a tassazione come ricavi o compensi, salvo prova contraria, e una seconda presunzione semplice per cui i predetti proventi confluiti nei conti “terzi” vengono ricondotti nella sfera giuridica ed economica del contribuente controllato.
Con specifico riguardo alla fattispecie in esame, nella sentenza 3300/2009, la Corte di cassazione ribadisce che “in tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, n. 7 e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51 autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi […] acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dall’Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame”.

Marco Viti
fonte: nuovofiscooggi.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *