AmministrativaGiurisprudenza

L’equo indennizzo da causa di servizio è completamente distinto dal risarcimento del danno – Consiglio di Stato, Sentenza n. 365/2011

In materia di strumentario rimediale garantito al dipendente pubblico vittima d’infortunio sul lavoro costituisce ormai ius receptum, sia per orientamento giurisprudenziale consolidato che l’equo indennizzo da causa di servizio per presupposti oggettivi, fatti costitutivi, regime probatorio e disciplina complessiva, è completamente distinto dal risarcimento del danno.
Lo afferma la Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella Sentenza n. 365 depositata lo scorso 19 gennaio 2011.

Secondo i Giudici amministrativi, mentre il risarcimento del danno, quanto ad oggetto e finalità, tende a ristabilire l’equilibrio nella situazione del soggetto turbato dall’evento lesivo e a compensare per equivalente la perduta integrità fisio-psichica, l’equo indennizzo spettante ai dipendenti degli enti pubblici per infermità contratta per causa o concausa di servizio con una menomazione dell’integrità fisica non inferiore al 15% (v. art. 32 d.p.r. 26 maggio 1976, n. 411, in relazione all’allegato n. 5 al d.p.r. cit. e, oggi, all’allegato 4 al d.p.r. 16 ottobre 1979, n. 509), per il concetto di equità e discrezionalità ad esso inerente, per la sua astrazione dalla responsabilità civile, colposa o dolosa, di parte datoriale, e per la sua non coincidenza con l’entità effettiva del pregiudizio subito dal dipendente, è assimilabile a una delle molteplici indennità che l’Amministrazione conferisce ai propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio, sicché equo indennizzo e risarcimento del danno (sia esso patrimoniale o non patrimoniale) sono tra loro compatibili e cumulabili, senza che l’importo liquidato a titolo di equo indennizzo possa essere detratto da quanto spettante a titolo di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale o extracontrattuale del datore di lavoro.

Esiste invece un divieto di cumulo tra rendita vitalizia erogata dall’I.N.A.I.L. per infortunio sul lavoro o malattia professionale ed equo indennizzo per causa di servizio.

Quanto al rapporto tra rendita vitalizia erogata dall’I.N.A.I.L. e risarcimento dei danni non patrimoniali (ivi compresi quello alla salute o biologico e quello morale) conseguenti a infortunio sul lavoro, in conseguenza dell’estraneità di tali componenti di danno alla copertura dell’assicurazione obbligatoria disciplinata dal d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 (applicabile ratione temporis alla fattispecie sub iudice) e in applicazione dei principi affermati nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 87, 356 e 485 del 1991, le limitazioni poste dall’art. 10 d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 all’azione risarcitoria del lavoratore infortunato nei confronti del datore di lavoro – sia in punto di an (responsabilità penale), sia in punto di quantum (danno differenziale) –, riguardano solo il danno patrimoniale collegato alla capacità lavorativa generica, mentre esse non si applicano al danno alla salute o biologico e ai danni morali ex art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale esulanti dalla copertura assicurativa obbligatoria (mentre secondo la disciplina successiva, introdotta dall’art. 13 d. lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno biologico è coperto da tale forma assicurativa), sicché il lavoratore ha diritto al loro risarcimento integrale in presenza dei presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro (v. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. lav., 5 maggio 2010, n. 10834; Cass. Civ., Sez. lav., 19 gennaio 2002, n. 1114; Cass. Civ., Sez. lav., 20 ottobre 1998, n. 10405);

(Litis.it, 4 Febbraio 2011)

Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 365 del 19/01/2011

FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.A.R. per il Veneto respingeva la domanda risarcitoria proposta da [OMISSIS] nei confronti della Poste Italiane s.p.a. – in riassunzione da una pronuncia di difetto di giurisdizione del giudice del lavoro di Venezia, il quale aveva rilevato versarsi in tema di azione risarcitoria contrattuale relativa a infortunio inerente a rapporto d’impiego di natura pubblicistica, in fattispecie anteriore alla trasformazione dell’Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni in ente pubblico economico ai sensi del d.l. 1 dicembre 1993, n. 487, conv. in l. 29 gennaio 1994, n. 71 – in relazione ai danni conseguenti alle gravi lesioni subite in occasione dell’infortunio lavoro occorso il 10 aprile 1991 durante le operazioni di scarico della posta da un camion-gru presso la darsena di Tessera (VE), esposti, per danni patrimoniali (spese mediche, mancato reddito da perdita della capacità lavorativa specifica), biologici e morali, nell’importo complessivo di lire 621.520.000 (= euro 320.988,29). Dichiarava le spese di causa interamente compensate fra le parti.

2. Il T.A.R. basava la statuizione di rigetto sul rilievo, che nell’ambito del rapporto di pubblico impiego non potevano trovar spazio forme di risarcimento ulteriori e diverse da quelle dell’equo indennizzo in esito al procedimento di riconoscimento della causa di servizio o, in alternativa e in presenza dei relativi presupposti, della rendita d’inabilità-I.N.A.I.L. e dell’eventuale corresponsione della pensione privilegiata, oltre all’erogazione del trattamento retributivo nel periodo di assenza a causa dell’infortunio e al rimborso delle spese, in quanto, diversamente, si perverrebbe a una duplicazione delle forme di risarcimento relative ad uno stesso evento lesivo.

3. Avverso tale sentenza interponeva appello il ricorrente soccombente, precisando in linea di fatto che gli era stata riconosciuta una rendita I.N.A.I.L. in relazione ad un’inabilità dell’11% (poi, in sede di revisione, aumentata al 14%) e deducendo i seguenti motivi: a) violazione degli artt. 24 e 32 Cost. e dell’art. 2087 c.c., con richiamo delle sentenze Corte Cost. nn. 87/1991, 356/1991 e 485/1991, e conseguente erronea negazione del diritto al risarcimento delle “voci di danno che vantano un diretto fondamento costituzionale” (v. così, testualmente, il ricorso in appello), non coperte dalla garanzia assicurativa I.N.A.I.L.; b) omessa pronuncia sulla dedotta responsabilità contrattuale dell’ente datoriale ex art. 2087 c.c. e sul diritto di esso appellante al risarcimento del danno in relazione ai postumi d’invalidità permanente, indicati nella misura del 30% sulla base dell’allegata consulenza medico-legale di parte. Dichiarava espressamente di rinunciare ai danni di natura patrimoniale e di limitare le domande alle voci di danno a “diretto fondamento costituzionale”. Chiedeva dunque, in riforma della gravata sentenza, la condanna della società appellata al risarcimento dei danni esposti nell’importo complessivo di euro 118.785,09 (o nella diversa misura ritenuta di giustizia), oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria dalla data dell’infortunio fino al saldo.

4. Costituendosi, la società appellata contestava la fondatezza dell’appello, chiedendone il rigetto.

5. All’udienza pubblica del 26 ottobre 2010 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Premesso che sulla questione di giurisdizione si è formato il giudicato endoprocessuale in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della presente controversia, sicché la questione esula dai limiti oggettivi del presente giudizio di gravame, si osserva nel merito che l’appello è fondato entro i limiti di cui appresso.

2. Merita, in primo luogo, accoglimento il primo motivo d’appello di cui sopra sub a).

In materia di strumentario rimediale garantito al dipendente pubblico vittima d’infortunio sul lavoro costituisce ormai ius receptum, sia per orientamento giurisprudenziale consolidato di questo Consiglio, sia per orientamento costante della Corte di Cassazione:

– che l’equo indennizzo da causa di servizio (alla cui disciplina si richiama la sentenza qui impugnata per escludere ogni forma di risarcimento ulteriore), per presupposti oggettivi, fatti costitutivi, regime probatorio e disciplina complessiva, è completamente distinto dal risarcimento del danno, atteso che, mentre quest’ultimo, quanto ad oggetto e finalità, tende a ristabilire l’equilibrio nella situazione del soggetto turbato dall’evento lesivo e a compensare per equivalente la perduta integrità fisio-psichica, l’equo indennizzo spettante ai dipendenti degli enti pubblici per infermità contratta per causa o concausa di servizio con una menomazione dell’integrità fisica non inferiore al 15% (v. art. 32 d.p.r. 26 maggio 1976, n. 411, in relazione all’allegato n. 5 al d.p.r. cit. e, oggi, all’allegato 4 al d.p.r. 16 ottobre 1979, n. 509), per il concetto di equità e discrezionalità ad esso inerente, per la sua astrazione dalla responsabilità civile, colposa o dolosa, di parte datoriale, e per la sua non coincidenza con l’entità effettiva del pregiudizio subito dal dipendente, è assimilabile a una delle molteplici indennità che l’Amministrazione conferisce ai propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio, sicché equo indennizzo e risarcimento del danno (sia esso patrimoniale o non patrimoniale) sono tra loro compatibili e cumulabili, senza che l’importo liquidato a titolo di equo indennizzo possa essere detratto da quanto spettante a titolo di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale o extracontrattuale del datore di lavoro (v. C.d.S., Sez. IV, 31 marzo 2009, n. 2009; C.d.S., Ad. Plen., 8 ottobre 2009, n. 5; Cass. Civ., Sez. III, 27 luglio 2001, n. 10291; Cass. Civ., Sez. III, 5 settembre 2005, n. 17764);

– che esiste invece un divieto di cumulo tra rendita vitalizia erogata dall’I.N.A.I.L. per infortunio sul lavoro o malattia professionale ed equo indennizzo per causa di servizio (v. C.d.S., Sez. V, 24 agosto 2007, n. 4487; Cass. Civ., Sez. lav., 1 settembre 2003, n. 12754);

– che, quanto al rapporto tra rendita vitalizia erogata dall’I.N.A.I.L. e risarcimento dei danni non patrimoniali (ivi compresi quello alla salute o biologico e quello morale) conseguenti a infortunio sul lavoro, in conseguenza dell’estraneità di tali componenti di danno alla copertura dell’assicurazione obbligatoria disciplinata dal d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 (applicabile ratione temporis alla fattispecie sub iudice) e in applicazione dei principi affermati nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 87, 356 e 485 del 1991, le limitazioni poste dall’art. 10 d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 all’azione risarcitoria del lavoratore infortunato nei confronti del datore di lavoro – sia in punto di an (responsabilità penale), sia in punto di quantum (danno differenziale) –, riguardano solo il danno patrimoniale collegato alla capacità lavorativa generica, mentre esse non si applicano al danno alla salute o biologico e ai danni morali ex art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale esulanti dalla copertura assicurativa obbligatoria (mentre secondo la disciplina successiva, introdotta dall’art. 13 d. lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno biologico è coperto da tale forma assicurativa), sicché il lavoratore ha diritto al loro risarcimento integrale in presenza dei presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro (v. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. lav., 5 maggio 2010, n. 10834; Cass. Civ., Sez. lav., 19 gennaio 2002, n. 1114; Cass. Civ., Sez. lav., 20 ottobre 1998, n. 10405);

– che dunque il risarcimento integrale di queste voci di danno costituisce un diritto del lavoratore infortunato da far valere autonomamente, e non già a titolo differenziale, nei confronti del proprio datore di lavoro, indipendentemente dalla entità dell’indennizzo erogato dall’istituto assicuratore, nei casi di infortunio o malattia professionale addebitabili ad una colpa, anche se concorrente e non di rilievo penale, del datore di lavoro o di un qualsiasi suo sottoposto di cui egli debba rispondere civilmente, con la sola esclusione – secondo le regole generali – dei casi in cui l’evento lesivo sia riconducibile a caso fortuito, a forza maggiore, o a colpa esclusiva dello stesso lavoratore (v., ex plurimis, Cass. Civ., Sez. lav., 20 ottobre 1998, n. 10405).

Sulla base di quanto sopra, in riforma della gravata statuizione del T.A.R., va affermata l’esperibilità dell’azione di risarcimento dei danni da responsabilità civile di parte datoriale, intentata dall’odierno appellante nei confronti della Poste Italiane s.p.a.

3. Il secondo motivo di gravame, di cui sopra sub b), va accolto parzialmente, entro i limiti di cui appresso.

3.1. Premesso che l’azione esperita dall’odierno appellante va qualificata come azione da responsabilità contrattuale, avendo lo stesso sin dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado dedotto la violazione dell’art. 2087 c.c., si osserva che secondo consolidato orientamento giuslavoristico, condiviso da questo collegio, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, e che la citata disposizione codicistica costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, la quale obbliga il datore di lavoro a tutelare l’integrità psicofisica dei propri dipendenti imponendogli l’adozione di tutte le misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione del bene della salute nell’ambiente e in costanza di lavoro anche quando faccia difetto la previsione normativa di una specifica misura preventiva o risultino insufficienti o inadeguate le misure previste dalla normativa speciale (v., per tutte, Cass. Civ. 20 aprile 1998, n.4012; Cass. Civ. 9 maggio 1998, n.4721).

3.2. Sul piano processuale, la natura contrattuale dell’obbligo in esame comporta che il riparto degli oneri probatori nella domanda di risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell’art. 1218 c.c. circa l’adempimento delle obbligazioni, sicché il lavoratore, il quale agisca per il risarcimento di tali danni, deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno e il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile, ossia da caso fortuito o forza maggiore, e di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno (v. sul punto, per tutte, Cass. Civ., Sez. lav., 3 agosto 2008, n. 21590).

3.3. Applicando tali principi al caso di specie, alla luce delle risultanze istruttorie non può sussistere dubbio alcuno sulla responsabilità esclusiva dell’ente datoriale nella causazione dell’infortunio occorso all’odierno appellato.

3.3.1. Sulla base delle – pur scarne – risultanze istruttorie, la dinamica dell’infortunio può essere ricostruito come segue: l’odierno appellante, il quale verso le ore 9.30 del giorno 10 aprile 1991 con altri due colleghi di lavoro a mezzo di un camion-gru stava effettuando il trasporto/consegna degli effetti postali al CMP aeroportuale Marco Polo di Tessera e alla darsena per Venezia, sceso dal camion per la consegna dei dispacci soggetti a firma, venne colpito al dorso e alla spalla destra dalla sponda del camion del peso di ca. quattro quintali, non più trattenuta dai ganci di fissaggio – i quali si erano allentati o a causa della percorrenza di un fondo stradale dissestato, oppure per effetto delle vibrazioni conseguenti alle operazioni di fissaggio della piattaforma del camion in funzione dell’azionamento della gru, oppure per effetto di usura –, riportando varie lesione alla regione dorsale e cervico-toracica (v. dichiarazioni testimoniali dei colleghi di lavoro Aleo Carmelo e Arcadio Rizzardi; rapporto del dirigente dell’ufficio del 13 aprile 1991; dichiarazioni dello stesso infortunato rese nel contesto della richiesta di riconoscimento d’infermità per causa di servizio).

3.3.2. Sebbene non fosse stato possibile ricostruire l’esatta causa concreta che abbia determinato l’allentamento dei ganci di fissaggio della sponda del camion-gru, tutte le cause ipotizzate (percorrenza di un fondo stradale dissestato, vibrazioni conseguenti alle operazioni di fissaggio della piattaforma del camion in funzione dell’azionamento della gru, usura) sono riconducibili alla sfera di responsabilità colposa di parte datoriale, o per carente manutenzione del mezzo, oppure per il comportamento negligente degli operatori addetti allo scarico o rispettivamente per il mancato coordinamento, in condizioni di sicurezza, della squadra addetta alle operazioni di scarico, essendo l’evento dannoso stato in ogni caso prodotto da un assetto organizzativo – di mezzi e di personale – non rispettoso delle norme generali sulla sicurezza dell’ambiente di lavoro, mentre sarebbe stato evitabile con l’adozione delle cautele e degli accorgimenti tecnici da ritenere connaturali al tipo di attività esercitata, sicché deve persino ritenersi raggiunta la prova concreta della responsabilità colposa di parte datoriale.

3.3.3. Si aggiunga che, poiché risulta comprovato il nesso causale tra evento dannoso e prestazione lavorativa, essendo l’infortunio incontrovertibilmente occorso in occasione di prestazioni di lavoro, in applicazione del sopra evidenziato regime di riparto dell’onere probatorio, incombeva all’ente datoriale fornire la prova rigorosa della riconducibilità dell’infortunio a causa ad esso non imputabile – ad es., a una condotta del lavoratore arbitraria ed esorbitante dalle modalità e dalle esigenze proprie dell’attività lavorativa (cosiddetto rischio elettivo), che presuppone una rigorosa dimostrazione della estraneità della iniziativa e del rischio affrontato alla sfera di organizzazione del lavoro, in modo da evidenziarne il carattere di fattore sufficiente da solo a produrre l’evento lesivo –, e di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza apprestando tutte le misure per evitare il danno; onere della prova, minimamente assolto dall’odierna appellata, la quale ha anche omesso di offrire e fornire la prova di un eventuale concorso colposo del lavoratore infortunato.

3.4. Deve dunque affermarsi la riconduzione dell’evento lesivo all’esclusiva responsabilità colposa dell’Amministrazione datrice di lavoro.

4. Per quanto attiene alla natura dei danni dedotti in giudizio e limitati nell’atto di appello ai danni non patrimoniali inerenti alla lesione del diritto alla salute e all’integrità morale del prestatore di lavoro, di valenza costituzionale, si osserva che secondo il più recente orientamento della Corte di Cassazione in materia, il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia e omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, con la conseguenza che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale (v. Cass. Civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, e le relative sentenze-“gemelle” di pari data), con conseguente riconduzione ad unità del concetto di danno non patrimoniale alla salute, comprensivo di tutti gli aspetti con ricadute negative sull’integrità psico-fisica e relazionale della persona lesa, da valutare in modo unitario e globale in un’ottica di personalizzazione con riguardo al caso concreto.

4.1. In punto di quantum, si osserva che nella consulenza medico-legale di parte dimessa dall’odierno appellante (v. relazione dd. 6 novembre 1996 del medico-legale Prof. Giancarlo Umani Ronchi) l’entità dei postumi invalidanti incidenti sull’integrità psico-fisica dell’infortunato (esiti algo-disfunzionali di violento trauma contusivo del rachide cervico-dorsale; esiti di violento trauma contusivo della spalla destra, in soggetto destrimane, con fenomeni cicatriziali del plesso brachiale interessanti anche l’arteria succlavia destra; esisiti consistenti in ipotonotrofia del cinto scapolare, dolore e limitazione funzionale diffusa dell’arto) risulta determinata, secondo i comuni criteri civilistici, nella percentuale d’invalidità del 30 %.

Considerato che per un verso tali conclusioni medico-legali del consulente di parte appaiono viziate per eccesso, in quanto divergenti in modo rilevante dalle risultanze degli accertamenti medici eseguiti nell’ambito della pratica di riconoscimento della rendita I.N.A.I.L., ove in occasione della visita di revisione effettuata nel mese di novembre 1995 erano stati riconosciuti postumi invalidanti permanenti pari al 14%, e che per altro verso i correlativi metri valutativi divergono in parte sotto un profilo ontologico (riferendosi gli accertamenti della pratica I.N.A.I.L. all’inabilità rilevante ai fini dell’assicurazione obbligatoria sugli infortuni sul lavoro – ossia, all’incidenza sulla capacità lavorativa generica per quanto attiene i postumi permanenti, e sulla capacità lavorativa specifica per quanto riguarda l’inabilità temporanea –, mentre la consulenza di parte dimessa dall’odierno appellante si orienta ai comuni criteri civilistici, tenendo conto dell’incidenza sull’integrità psico-fisica in sé e per sé considerata come valore costituzionalmente tutelato), si ritiene congruo pervenire, sulla base una valutazione globale e unitaria delle emergenze processuali e in un’ottica equitativa, ad una quantificazione dell’entità dei postumi permanenti nella misura del 20%.

4.2. Quanto alla liquidazione del danno, si ritiene allo stato opportuno ricorrere allo strumentario processuale di cui all’art. 34, comma 4, cod. proc. amm. (equivalente al pregresso art. 35, comma 2, d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dall’art. 7 l. 21 luglio 2000, n. 205), condannando parte appellata a proporre all’appellante entro il 31 maggio 2011 il pagamento di una somma di denaro a titolo risarcitorio in relazione alla sopra determinata percentuale d’inabilità permanente e ai periodi di inabilità temporanea, totale e parziale, risultanti dalla documentazione medica, sulla base dei criteri valutativi tutti meglio enunciati dalla sopra citata giurisprudenza di legittimità, che impone una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale biologico e di ogni altro danno non patrimoniale connesso alla lesione della salute.

Si ritiene al riguardo congruo fissare quale criterio liquidatorio di base i valori risultanti dalle nuove tabelle elaborate nella loro versione definitiva nella riunione dell’Osservatorio per la giustizia civile di Milano in data 28 aprile 2009 (come pubblicate, aggiornate al 25 giugno 2009, a pp. 32 ss. del dossier mensile: novembre 2009 della Guida al Diritto de Il Sole 24 Ore), che operano una liquidazione congiunta a) del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale”, sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi ovvero peculiari; b) del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione.

L’importo risarcitorio in tal modo liquidato, espresso in moneta attuale, dovrà essere devalutato a ritroso alla data dell’infortunio, per poi essere maggiorato di rivalutazione monetaria e interessi legali in applicazione dei correnti criteri civilistici (v. Cass. Civ., Sez. Un., 12 febbraio 1995, n. 1712).

5. Considerato l’esito della lite, le spese del doppio grado vanno poste a carico di parte appellata.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta),

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,

lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, condanna la Poste Italiane s.p.a. al risarcimento dei danni nei termini di cui in motivazione;

condanna la società appellata a rifondere all’appellante le spese del doppio grado, che si liquidano nell’importo complessivo di euro 3.000,00, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nelle camere di consiglio del giorno 26 ottobre 2010 e 24 novembre 2010, con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Coraggio, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 19/01/2011

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