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Procedimento disciplinare nel pubblico impiego – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3414/2011

Il d.P.R. n. 737 del 1981 costituisce corpus normativo “speciale” rispetto all’organica e generale regolamentazione, valevole per tutto il pubblico impiego di cui alla legge n. 97 del 2001, che prevede termini diversi per la promozione del procedimento disciplinare a seguito di sentenze penali ( avendo tale legge in ultimo citata portata generale, rispetto alla quale il dpr 737 del 1981 si pone quale normativa specifica per gli appartenenti all’amministrazione della pubblica sicurezza).

Lo speciale regime di cui alla legge n. 737 del 1981, ed in particolare l’art. 9 comma 6 che indica per l’inizio del procedimento disciplinare il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza stessa trova applicazione nel caso di assoluzione (conformemente a quanto ritenuto dall’Adunanza Plenaria nella decisione n. 10 del 2006).

La circostanza per cui in ipotesi di condanna i termini di definizione del procedimento disciplinare siano più stringenti che nel caso di assoluzione, lungi dal costituire una illogicità, è conseguente alla circostanza che nel primo caso (a differenza che nell’ipotesi di intervenuta assoluzione) l’amministrazione si trova al cospetto di un compiuto accertamento svolto dal giudice penale valutabile in un più contenuto torno di tempo.

La valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento

Le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (l’amministrazione dispone, infatti, di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo).

In sede di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, la valutazione circa la gravità dei fatti commessi ai fini dell’irrogazione di una sanzione disciplinare è estrinsecazione di discrezionalità amministrativa ed in quanto tale è insindacabile dal giudice amministrativo, salvo che in ipotesi di eccesso di potere nelle sue varie articolazioni di natura sintomatica, fra cui l’evidente sproporzionalità della misura disciplinare adottata rispetto alla gravità dei fatti accertati

(© Litis.it, 14 Giugno 2011 – Riproduzione riservata)

Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 3414 del 07/06/2011

FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio era stato chiesto dall’odierno appellante [OMISSIS] l’annullamento del provvedimento n. 333 – D – 38118 del Ministero dell’Interno del 15.11.2004, con il quale gli era stata inflitta la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per la durata di quattro mesi.

Le censure formali e procedimentali dedotte dall’odierno appellante sono state disattese integralmente dal Tribunale amministrativo regionale con sentenza assunta in forma semplificata all’adunanza camerale fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione della esecutività dei provvedimenti impugnati.

In particolare è stato rilevato che, quanto alla dedotta mancata sottoscrizione dell’atto di contestazione degli addebiti del 13.5.2004, essa integrava mera irregolarità in presenza di una certa e sicura riferibilità dell’atto all’Amministrazione resistente ( in ogni caso dalle giustificazioni rese dall’[OMISSIS] risultava che lo stesso aveva potuto esplicare una piena attività difensiva, senza alcuna lesione del principio del contraddittorio in tale fase del procedimento).

Quanto poi al secondo motivo di ricorso, esso era infondato, in quanto la contestazione degli addebiti del 13.5.2004 era relativa (non ad una sentenza di condanna ma) ad un procedimento penale conclusosi con l’assoluzione dell’originario ricorrente con sentenza della suprema Corte del 10.2.2004.

La contestazione risultava quindi rispettosa dei termini previsti dall’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737 del 1981, relativo ai procedimenti penali “comunque definiti”.

 

Neppure (terzo motivo di ricorso) poteva trovare applicazione né in via diretta né in via analogica il termine di cui all’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 che disciplinava il diverso caso delle sanzioni disciplinari conseguenti a sentenze di condanna.

Il quarto motivo di gravame risultava infondato in quanto il termine per la comunicazione all’interessato della sanzione adottata, (di cui all’art. 21, comma IV, del dpr n. 737 del 1981) era meramente ordinatorio, non essendo ricollegabile alcuna sanzione alla sua violazione; eguale sorte meritava il quinto motivo: la circostanza che il funzionario istruttore, prima della contestazione degli addebiti, avesse acquisito tutta la documentazione relativa al procedimento penale a carico dell’[OMISSIS] non contrastava con le norme indicate dall’odierno appellante che non proibivano che l’istruttore espletasse un istruttoria più approfondita anche in una fase anteriore alla formale apertura del procedimento disciplinare (al fine di una più esatta cognizione dei fatti anche a garanzia del soggetto nei confronti del quale sta per instaurarsi il suddetto procedimento).

Nel merito, l’istruttoria espletata risultava esaustiva ed approfondita; sufficientemente motivato il provvedimento impugnato; congrua la sanzione in relazione ai fatti contestati in base ad un giudizio di razionalità e di logicità della stessa restando escluso il sindacato giudiziale su apprezzamenti riservati alla sfera del merito.

Avverso la sentenza in epigrafe l’originario ricorrente in primo grado ha proposto un articolato appello, reiterando le censure di eccesso di potere già rappresentate nel quarto motivo del ricorso di primo grado, la assenza assoluta di proprie responsabilità con riferimento alle condotte addebitategli e riproponendo tutte le censure disattese in primo grado.

L’assenza di sottoscrizione rendeva nullo il provvedimento di contestazione degli addebiti; il concetto di “processo definito” doveva interpretarsi come facente riferimento alla conclusione di ogni singola fase processuale (e non già facendolo coincidere con il passaggio in giudicato della sentenza); la tesi del primo giudice postulava l’irragionevole approdo per cui in ipotesi di condanna i termini di definizione del procedimento disciplinare fossero più stringenti che nel caso di assoluzione;era mancata una autonoma valutazione sui fatti addebitatigli posto che ci si era limitati a fare riferimento alla sentenza di secondo grado (e peraltro indebitamente l’istruttore aveva acquisito detti atti ancor prima dell’avvio dell’azione disciplinare vera e propria).

La sentenza appellata, in quanto illogica, meritava di essere annullata.

Alla odierna pubblica udienza del 12 aprile 2011 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

1.La sentenza deve essere confermata previa declaratoria di infondatezza dell’appello.

2. La doglianza relativa alla omessa sottoscrizione dell’atto è certamente infondata: per pacifica giurisprudenza, infatti, “la mancanza di sottoscrizione di un atto non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti le quante volte detta omissione, come nel caso de quo, non metta in dubbio la riferibilità dell’atto stesso all’organo competente (cfr. Cons Stato sez. IV 5/10/2010 n. 7309, ma anche sez. IV 11/5/2007 n. 2325; idem sez. VI 23/2/2007 n. 981 )”

3. Quanto alla seconda censura, l’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737 del 1981, del quale esattamente il primo giudice ha sottolineato l’applicabilità al caso di specie così recita: “Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze che rendano l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di giorni 120 dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all’Amministrazione”.

Va rammentato che nei confronti dell’appellante venne emessa una pronuncia assolutoria.

E pacifico pertanto che debba trovare applicazione la citata disposizione (ex multis, si veda

Consiglio di stato, sez. VI, 06 aprile 2009 , n. 2112).

Di essa, peraltro, è stata apoditticamente ed infondatamente sostenuta dall’appellante l’intervenuta abrogazione.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, invece, è principio pacifico, in giurisprudenza, quello per cui il d.P.R suindicato costituisca corpus normativo “speciale” rispetto all’organica e generale regolamentazione, valevole per tutto il pubblico impiego di cui alla legge n. 97 del 2001, che prevede termini diversi per la promozione del procedimento disciplinare a seguito di sentenze penali ( avendo tale legge in ultimo citata portata generale, rispetto alla quale il dpr 737 del 1981 si pone quale normativa specifica per gli appartenenti all’amministrazione della pubblica sicurezza).

Come questo Consiglio di Stato ha più volte ribadito (cfr, per tutte Sez. VI, n. 624 del 2008), che lo speciale regime di cui alla legge n. 737 del 1981, ed in particolare l’art. 9 comma 6 che indica per l’inizio del procedimento disciplinare il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza stessa trova applicazione nel caso di assoluzione (conformemente a quanto ritenuto dall’Adunanza Plenaria nella decisione n. 10 del 2006).

La circostanza per cui in ipotesi di condanna i termini di definizione del procedimento disciplinare siano più stringenti che nel caso di assoluzione, lungi dal costituire una illogicità, è conseguente alla circostanza che nel primo caso (a differenza che nell’ipotesi di intervenuta assoluzione) l’amministrazione si trova al cospetto di un compiuto accertamento svolto dal giudice penale valutabile in un più contenuto torno di tempo.

3.1. Per altro verso, che la citata disposizione di cui all’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737 del 1981 si riferisca alla conoscenza da parte dell’amministrazione di una sentenza regiudicata, non rilevando a tal fine le pronunce non ancora divenute definitive è circostanza della quale non si dubita in giurisprudenza (“Ai sensi dell’art. 9 comma 6 d.P.R. n. 737 del 1981, come modificato dall’art. 9 l. n. 19 del 1990, ai fini della decorrenza del termine perentorio di 120 giorni per l’esercizio del potere disciplinare rileva la data in cui l’amministrazione sia venuta a conoscenza della irrevocabilità della sentenza del giudice penale.” Consiglio Stato , sez. VI, 13 luglio 2006, n. 4495”).

Anche la seconda censura, pertanto deve essere disattesa.

4. Eguale sorte segue la terza doglianza, del pari calibrata sulla tutt’affatto diversa ipotesi che il procedimento disciplinare fosse stato avviato a seguito di pronuncia penale di condanna invocando l’applicazione dell’art. 5 co.IV della legge n. 97 del 2001 che, per le già chiarite ragioni, non regolamenta la fattispecie oggetto del contendere .

5.Quanto alla quarta censura, essa merita la reiezione in quanto, per pacifica giurisprudenza “i termini previsti dalle disposizioni infraprocedimentali che cadenzano il procedimento disciplinare del personale di Polizia non hanno carattere perentorio, bensì ordinatorio, qualora non sia prevista alcuna decadenza per la loro inosservanza, né sia stabilita l’inefficacia degli atti compiuti dopo la loro scadenza.”(Consiglio Stato , sez. VI, 17 gennaio 2008, n. 80).

In particolare, merita di essere riconfermato il tradizionale orientamento secondo cui “Non ha natura perentoria il termine per la comunicazione del provvedimento con il quale viene inflitta la sanzione disciplinare al soggetto che appartiene ai ruoli della polizia di Stato e divisato dall’art. 21 d.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737.”.(Consiglio Stato , sez. VI, 03 febbraio 2006, n. 377).

4. Con l’ultimo motivo di censura si sono introdotte nel processo amministrativo inammissibili ed apodittiche valutazioni di merito: il mezzo non merita accoglimento

A tal uopo, il Collegio rammenta il consolidato orientamento -peraltro ben tenuto presente dal giudice di prime cure e dal quale la Sezione non intende discostarsi- secondo cui “la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento.” (ex multis, si veda Consiglio Stato , sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2830).

La Sezione, in particolare, ha di recente affermato che “le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (l’amministrazione dispone, infatti, di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo)”.(Consiglio Stato , sez. VI, 22 marzo 2007, n. 1350).

Nel caso in oggetto la gravità delle condotte poste in essere da parte appellante costituisce dato agevolmente percepibile;la valutazione dell’amministrazione non appare né abnorme né sproporzionata; la severità delle pene in primo grado inflittegli testimonia la circostanza che la valutazione di gravità delle condotte non era distonica rispetto alle resultanze probatorie acquisite.

L’amministrazione ha esaminato funditus il procedimento penale in cui l’appellante ha rivestito la qualità di imputato; ha evidenziato la gravità della fattispecie comportamentale a questi addebitata, ed ha anche tenuto contro della circostanza che la fattispecie di cui all’art. 643 del codice penale originariamente contestatagli era stata successivamente derubricata in quella di truffa (art. 640 del codice penale) e dichiarata improcedibile per tardività della querela.

Ha del pari ponderato la tipologia di sanzione applicabile all’appellante e ha motivatamente escluso che potesse applicarsi quella della destituzione, disponendo infine, all’unanimità, che venisse applicata altra sanzione, meno afflittiva.

La articolata censura merita la reiezione, in adesione all’orientamento, ancora di recente espresso in giurisprudenza, secondo il quale “in sede di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, la valutazione circa la gravità dei fatti commessi ai fini dell’irrogazione di una sanzione disciplinare è estrinsecazione di discrezionalità amministrativa ed in quanto tale è insindacabile dal giudice amministrativo, salvo che in ipotesi di eccesso di potere nelle sue varie articolazioni di natura sintomatica, fra cui l’evidente sproporzionalità della misura disciplinare adottata rispetto alla gravità dei fatti accertati.”(Consiglio Stato , sez. IV, 16 ottobre 2009 , n. 6353).

Il predetto motivo di doglianza appare altresì intrinsecamente contraddittorio, laddove dapprima ci si duole della circostanza che il funzionario istruttore abbia acquisito la quasi totalità degli atti sottesi al procedimento penale, per poi lamentare un supposto difetto di istruttoria e, infine, l’asserita carenza di autonoma valutazione da parte dell’amministrazione.

Nessuna di tali critiche merita positiva delibazione, apparendo l’impugnato provvedimento frutto di matura e consapevole valutazione (che, ovviamente, ebbe a fondarsi in primis sui fatti verificati dal giudice penale).

Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

6. Conclusivamente, il ricorso in appello è infondato e merita la reiezione.

7. La condanna al pagamento delle spese degli onorari del giudizio segue la soccombenza e pertanto l’ appellante deve essere condannato al pagamento, in favore dell’ appellata amministrazione di una somma che, avuto principalmente riguardo alla natura della controversia appare equo determinare in Euro mille (€ 1000/00), oltre accessori di legge, se dovuti..

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)definitivamente pronunciando sull’appello numero di registro generale 5140 del 2006 come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’ appellante al pagamento, delle spese processuali in favore dell’ appellata amministrazione nella misura di Euro mille (€ 1000/00), oltre accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 aprile 2011 con l’intervento dei magistrati:

Roberto Garofoli, Presidente FF
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 07/06/2011

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