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Se il cane randagio morde, il Comune paga i danni – Cassazione Civiele, Sentenza n. 17528/2011

In caso di ravvisata integrazione dell’ipotesi generale di responsabilità aquiliana non può prescindersi dal rilievo che la P.A. è responsabile per i danni causalmente riconducibili alla violazione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono limiti esterni alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c.

La legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo (L. 281/1991) demanda alle Regioni l’istituzione dell’anagrafe canina e l’adozione di programmi per la prevenzione ed il controllo del randagismo. Al riguardo, la L. Reg. Campania n. 36/1993 (successivamente abrogata dalla L. n. 16 del 2001, ma nel caso ratione temporis applicabile) dispone in particolare che alla sua attuazione «provvedono, nei rispettivi ambiti di competenza, la Regione, i Comuni e le USL, con la collaborazione di enti ed associazioni protezionistiche, zoofile e animalistiche» (art. 1, comma 4). Prevede quindi l’istituzione dell’anagrafe canina (art. 3), la realizzazione di vaccinazioni e controlli sanitari (art. 4), la costruzione di «rifugi municipali per cani» (già canili municipali) (art. 5), il controllo del randagismo (art. 7), la promozione di iniziative di informazione e di educazione (art. 10 nonché l’esplicazione di attività di vigilanza a mezzo (anche) di guardie zoofile comunali (art. 11).
Orbene, emerge già alla stregua di tali richiami evidente come compiti di organizzazione, prevenzione, e controllo (anche) dei cani vaganti (siano essi «tatuati», e cioè scomparsi o smarriti dai proprietari, ovvero «non tatuati») spettano (pure) ai Comuni (non può pertanto condividersi quanto affermato da Cass., 7/12/2005, n. 27001), tenuti anch’essi, in correlazione con gli altri soggetti pubblici (e non) indicati dalla legge, ad adottare concrete iniziative e assumere provvedimenti volti ad evitare che animali randagi possano arrecare danni alle persone nel territorio di competenza (cfr. Cass., 28/4/2010, n. 10190).

(© Litis.it, 29 Agosto 2011 – Riproduzione riservata)

Cassazione Civile, Sezione Terza, Sentenza n. 17528 del 23/08/2011

Svolgimento del processo

Con sentenza del 12/2/2010 la Corte d’Appello di Napoli respingeva il gravame interposto dalla sig. [OMISSIS] nei confronti della pronunzia Trib. Torre Annunziata 14/5/2002 di rigetto della domanda dalla medesima proposta nei confronti del Comune di Meta di risarcimento dei danni lamentati a seguito del sinistro avvenuto il 12/6/1996, allorquando, mentre percorreva la locale via Caracciolo alla guida del proprio ciclomotore Honda Vision, veniva aggredita da un cane randagio che la faceva cadere dal motociclo, provocandole danni patrimoniali e non patrimoniali.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la [OMISSIS] propone ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso il Comune di Meta.

Motivi della decisione

Con il 1° motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2907 c..c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c., 112, 113, 163 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 4, c.p.c.,; nonché «contraddittoria, erronea, insufficiente ed illogica motivazione» su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co, n. 5, c.p.c.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto essere stata nel caso contestata la mancata prevenzione del fenomeno «del randagismo in sé, con totale avulsione dal fatto concreto», laddove ha agito per ottenere il risarcimento dei danni lamentati in conseguenza del subito attacco da parte del cane randagio, e quindi a causa più generalmente del mancato controllo del randagismo.

Lamenta che il giudice di merito «avrebbe dovuto pronunciare su tutta la domanda dopo aver assolto al potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione esperita e di attribuire il nomen iuris al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alla prospettazione giuridica svolta nella domanda» –

Con il 3 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 43 c.p., 2051, 2043, c.c, 3, 13, 50 d.lgs. n. 285 del 1992, 2, 4 L. n. 281 del 1991, 1, 5, 11 L. Regione Campania n. 36/93, in riferimento all’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.; nonché «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione» su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.

Sì duole che la corte di merito abbia erroneamente limitato l’indagine alla prevenzione del randagismo da parte del Comune senza alcuna relazione con la tutela della pubblica incolumità.

Lamenta che i giudici di merito abbiano «ingiustificatamente separato il fatto- custodia/condizioni della strada dal fatto-aggressione del cane randagio», e che la corte di merito abbia omesso ogni valutazione in merito alla del pari lamentata «pericolosità del tracciato e del manto stradale di via Caracciolo» , oltre che della «presenza del cane». Si duole non essersi considerato che il Sindaco ha, non già quale ufficiale di governo bensì come rappresentante del Comune, il potere-dovere di controllare che le A.S.L. svolga i poteri ad esse delegati in materia di randagismo.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati nei termini di seguito indicati.

Come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo, la legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo (L. 281/1991) demanda alle Regioni l’istituzione dell’anagrafe canina e l’adozione di programmi per la prevenzione ed il controllo del randagismo. Al riguardo, la L. Reg. Campania n. 36/1993 (successivamente abrogata dalla L. n. 16 del 2001, ma nel caso ratione temporis applicabile) dispone in particolare che alla sua attuazione «provvedono, nei rispettivi ambiti di competenza, la Regione, i Comuni e le USL, con la collaborazione di enti ed associazioni protezionistiche, zoofile e animalistiche» (art. 1, comma 4). Prevede quindi l’istituzione dell’anagrafe canina (art. 3), la realizzazione di vaccinazioni e controlli sanitari (art. 4), la costruzione di «rifugi municipali per cani» (già canili municipali) (art. 5), il controllo del randagismo (art. 7), la promozione di iniziative di informazione e di educazione (art. 10 nonché l’esplicazione di attività di vigilanza a mezzo (anche) di guardie zoofile comunali (art. 11).

Orbene, emerge già alla stregua di tali richiami evidente come compiti di organizzazione, prevenzione, e controllo (anche) dei cani vaganti (siano essi «tatuati», e cioè scomparsi o smarriti dai proprietari, ovvero «non tatuati») spettano (pure) ai Comuni (non può pertanto condividersi quanto affermato da Cass., 7/12/2005, n. 27001), tenuti anch’essi, in correlazione con gli altri soggetti pubblici (e non) indicati dalla legge, ad adottare concrete iniziative e assumere provvedimenti volti ad evitare che animali randagi possano arrecare danni alle persone nel territorio di competenza (cfr. Cass., 28/4/2010, n. 10190).

Risulta allora non corretta la limitazione della domanda nel caso operata dalla corte di merito al mero «dovere istituzionale di ogni amministrazione comunale di prevenire il randagismo», nonché alla rilevanza del fenomeno alla mera attività di «accalappiamento dei cani randagi»; come del pari non corretta è l’affermazione secondo cui all’epoca del sinistro de qua in base al quadro normativo all’epoca vigente siffatta «funzione pubblica» spettava «in via esclusiva» all’unità sanitaria locale territorialmente competente», non potendo pertanto avallarsi la ravvisata irrilevanza della verifica circa la configurabilità della responsabilità del Comune di Meta in merito al sinistro de qua.

Atteso che risulta in effetti erronea ed apodittica la limitazione della disamina al mero profilo della «funzione pubblica» svolta dalla P.A., atteso che la stessa corte di merito da atto in motivazione come l’oggetto della pretesa della odierna ricorrente sia costituito dal risarcimento dei danni lamentati in conseguenza del sinistro, dalla considerazione anche di tale (aspetto della) domanda non può dunque prescindersi, spettando ai giudici di merito dare la corretta qualificazione dell’ipotesi di responsabilità nel caso ricorrente, se quella generale ex art. 2043 c.c. ovvero un’ipotesi di responsabilità speciale aggravata ex art. 2051 c.c. o art. 2052 c.c., a tale stregua compiendo quella valutazione nella specie adombrata ma poi in effetti non compiuta, in ragione della -come detto- ravvisata relativa irrilevanza ai fini della decisione.

Va al riguardo osservato che in caso di ravvisata integrazione dell’ipotesi generale di responsabilità aquiliana non può prescindersi dal rilievo che, come da questa Corte anche recentemente precisato, la P.A. è responsabile per i danni causalmente riconducibili alla violazione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono limiti esterni alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (cfr., con riferimento a diversa ipotesi, Cass., 27/4/2011, n. 9404).

In presenza di obblighi normativi la discrezionalità amministrativa invero si arresta, e non può essere invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore in considerazione.
Va altresì posto in rilievo che il modello di condotta cui la P.A. è tenuta postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure e degli accorgimenti idonei ai fini del relativo assolvimento, essendo essa tenuta ad evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale.

Comportamento cui la P.A. è d’altro canto tenuta già in base all’obbligo di buona fede o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale -che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale- in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui -nei limiti dell’apprezzabile sacrificio-, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056. Da ultimo cfr. Cass., 27/4/2011, n.
9404).

Condotta che ove tardiva, carente o comunque inidonea provoca o non impedisce la lesione di quei diritti ed interessi la cui tutela è propriamente rimessa al corretto e tempestivo esercizio dei poteri ‘attribuiti per l’assolvimento della funzione (cfr. Cass., 25/2/2009, n. 4587. V. anche Cass., Sez. Un., 27/7/1998, n. 7339).

A tale stregua, in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire, la considerazione del comportamento dovuto e della condotta mantenuta assume allora decisivo rilievo, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (Ct r. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582. E, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404).

Alla fondatezza -nei suindicati termini- dei motivi consegue, assorbiti gli altri, con i quali la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 cc., 101, 190, 281 quater, 342, 343, 345 c.p.c.., in riferimento all’art. 360, 1° Co. n. 3, c.p.c., nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 4, c.p.c., nonché «fittizia, omessa, contraddittoria, erronea, insufficiente ed illogica motivazione» su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. 5, c.p.c. (2° motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 100, 101, 159, 82, 83, 85, 88, 167, 168, 180, 182 c.pc., in riferimento all’art. 360, 1° Co. n. 3, c.p.c., nullità dei procedimenti e delle sentenze di 1° e 2 grado, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 4, c.p.c. 4° motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 88, 91, 92 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c., nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° Co. n. 4, c.p.c., nonché omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° cc. n. 5, c.p.c. (5° motivo), l’accoglimento in relazione del ricorso, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli che, in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suesposti principi applicazione.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il 1° ed il 3° motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.

Depositata in Cancelleria il 23 agosto 2011

 

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