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Processo penale – Misure cautelari – Criteri di scelta delle misure – Corte Costituzionale, Ordinanza n. 269/2011

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Corte Costituzionale, Ordinanza n. 269 del 12/10/2011

Processo penale – Misure cautelari – Criteri di scelta delle misure – Obbligatorietà della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), nella forma della mera partecipazione non aggravata dalla disponibilità di armi – Mancata previsione della salvezza dell’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure.

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dalla Corte di appello di Bari nel procedimento penale a carico di L.A., con ordinanza del 13 dicembre 2010, iscritta al n. 67 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza del 13 dicembre 2010, la Corte di appello di Bari ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), «nella forma della mera partecipazione non aggravata dalla disponibilità di armi», è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva «anche l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti, in relazione al caso concreto, che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»;

che il giudice a quo premette di dover decidere sulla richiesta di revoca della misura cautelare in atto, o di sostituzione della stessa con altra misura meno grave, formulata da una persona sottoposta a custodia cautelare in carcere per il delitto di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990);

che, al riguardo, il rimettente riferisce che, con sentenza del 7 novembre 2008, emessa a seguito di giudizio abbreviato, l’interessato era stato condannato, in primo grado, per detto reato, alla pena di otto anni di reclusione e assolto, invece, dalle restanti imputazioni di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416-bis del codice penale) e di detenzione illegale di armi, aggravata ai sensi dell’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203;

che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari, con provvedimento del 16 marzo 2009, aveva quindi disposto la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere – cui l’imputato risultava sottoposto dal 30 novembre 2006 – con quella degli arresti domiciliari;

che, nelle more del giudizio di appello, il Procuratore generale aveva chiesto il ripristino della custodia in carcere alla luce del nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.: richiesta che la Corte rimettente aveva rigettato, ritenendo la nuova normativa non applicabile «alle situazioni cautelari pregresse»;

che avverso tale provvedimento la Procura generale aveva proposto appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.: appello che era stato accolto dal Tribunale di Bari con ordinanza del 15 marzo 2010, divenuta esecutiva a seguito del rigetto, nell’ottobre 2010, del ricorso per cassazione proposto dall’imputato;

che, con sentenza della Corte rimettente del 18 novembre 2010, l’imputato era stato dichiarato responsabile, oltre che del reato di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 – escluse, tuttavia, le aggravanti originariamente contestate e, in particolare, quella relativa al carattere armato dell’associazione (comma 4 del citato art. 74) – anche dei delitti di associazione mafiosa e di detenzione illegale aggravata di armi, e condannato, previo riconoscimento del vincolo della continuazione, alla pena complessiva di nove anni e tre mesi di reclusione, con applicazione, inoltre, della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni;

che, tutto ciò premesso, il giudice a quo osserva come le esigenze cautelari poste a base delle misura coercitiva in atto non possano ritenersi cessate, tenuto conto dei «precedenti penali non lievi benché non recenti» dell’imputato, della gravità dei reati per i quali egli ha riportato condanna in secondo grado e della ritenuta applicabilità, a pena espiata, di una misura di sicurezza personale, che «presuppone un positivo giudizio di pericolosità sociale»;

che l’avvenuta esclusione delle aggravanti relative al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 consentirebbe, peraltro, di applicare, in fase esecutiva, l’indulto previsto dalla legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), il cui art. 1, comma 2, lettera b), esclude dal beneficio le sole ipotesi di cui ai commi 1, 4 e 5 del citato art. 74: circostanza, questa, da ritenere rilevante ai fini del giudizio di proporzionalità prefigurato dall’art. 275, comma 2, cod. proc. pen., stante anche il periodo di custodia cautelare già sofferto dall’imputato;

che, in questa prospettiva, il periculum libertatis potrebbe essere adeguatamente fronteggiato con la misura degli arresti domiciliari, tenuto conto del fatto che il reato è stato commesso «in epoca non recentissima» e che, nel periodo trascorso agli arresti domiciliari, l’istante ha sempre rispettato le prescrizioni, tant’è che la misura è stata aggravata solo per l’intervenuta modifica normativa;

che all’accoglimento dell’istanza osterebbe, tuttavia, la preclusione, introdotta dalla novella legislativa modificativa dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati – tra cui quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (evocato tramite il rinvio all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»;

che il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma denunciata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.;

che, al riguardo, rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata, per contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure;

che nella citata sentenza si afferma che le presunzioni assolute in materia di misure cautelari (quale, in specie, quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, sottesa alla previsione normativa denunciata) si giustificano solo quando rispondono a dati di esperienza generale, riassumibili nella formula dell’«id quod plerumque accidit»: il che avviene per i «delitti di mafia in senso stretto» – implicanti «un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice», donde l’inidoneità delle misure diverse dalla custodia carceraria a neutralizzare la pericolosità dell’indiziato, troncando i suoi rapporti con l’ambiente delinquenziale di appartenenza – ma non per i reati a sfondo sessuale oggetto, nell’occasione, dello scrutinio;

che, ad avviso del giudice a quo, la situazione non sarebbe diversa in rapporto al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, quanto meno nelle ipotesi non escluse dalla concessione dell’indulto;

che – premesso che la concedibilità di tale beneficio assumerebbe «un indubbio significato criminologico» – il rimettente rileva come l’associazione finalizzata al narcotraffico costituisca «un’attività imprenditoriale con oggetto illecito, l’adesione alla quale non è correlata a una specifica subcultura e appartenenza personale, come è tipico del sodalizio mafioso»;

che, in particolare, diversamente da quanto avviene per l’adesione alla mafia – che è di regola irreversibile, salvi «i casi in cui il sodalizio venga interamente sgominato, oppure l’aderente collabori con la giustizia» – l’adesione al sodalizio finalizzato al narcotraffico è normalmente reversibile, non essendo infrequente che un narcotrafficante abbandoni l’associazione pur «senza avere iniziato a collaborare con la giustizia, e senza che il sodalizio sia venuto meno»;

che, di conseguenza, la «pacifica» inclusione del reato previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 tra quelli di criminalità organizzata non potrebbe comportarne l’automatica assimilazione ai delitti di mafia;

che, in questa prospettiva, il rimettente ritiene che la presunzione censurata si ponga in contrasto sia con il principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi al delitto in questione a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili al paradigma punitivo considerato; sia con il principio di inviolabilità della libertà personale, enunciato dall’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative di detta libertà; sia, infine, con la presunzione di non colpevolezza, espressa dall’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuirebbe alla misura cautelare tratti funzionali tipici della pena, applicabile solo a seguito di un giudizio definitivo di responsabilità.

Considerato che la Corte di appello di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari meno afflittive della custodia in carcere nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), allorché si tratti di ipotesi di «mera partecipazione non aggravata dalla disponibilità di armi»;

che il giudice a quo chiede, nella sostanza, di estendere a tale ipotesi criminosa la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata già pronunciata da questa Corte con la sentenza n. 265 del 2010, in riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale: sentenza con la quale la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari relative a tali delitti, sancita dal novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen., è stata trasformata in presunzione solo relativa, superabile in presenza di elementi specifici che dimostrino l’idoneità allo scopo di altre misure;

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, la disposizione denunciata è stata oggetto di altra pronuncia, comprensiva del petitum dell’odierno rimettente: avendone questa Corte dichiarato, con la sentenza n. 231 del 2011, l’illegittimità costituzionale nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (senza distinzione tra le diverse fattispecie in esso contemplate), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure;

che, dunque, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile per sopravvenuta mancanza di oggetto, giacché, a seguito della sentenza da ultimo citata, la norma censurata dal giudice a quo – ossia quella che impedisce, per la fattispecie criminosa avuta di mira, di applicare misure diverse e meno afflittive della custodia carceraria, in presenza di specifici elementi che ne rivelino l’idoneità a soddisfare le esigenze cautelari – è già stata rimossa dall’ordinamento con efficacia ex tunc (ex plurimis, sentenza n. 80 del 2011 e ordinanza n. 306 del 2010, nonché, con riferimento ad altra questione avente ad oggetto il medesimo art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ordinanza n. 225 del 2011).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2011.

F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2011.

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