Diritto di FamigliaFocus

Troppo rumore per nulla (nota a Cassazione Civile sentenza 601/2013) – di Mariabice Schiavi

La sentenza numero 601/2013 della prima sezione civile della Corte di Cassazione, a dispetto sia del clamore mediatico che è conseguito alla sua pubblicazione, sia dell’interpretazione che della medesima ne offrono i vari schieramenti politici, piegandola e adattandola ciascun gruppo alle proprie linee programmatiche, non rappresenta di per se stessa – ad avviso di chi scrive – un insidioso strumento destinato a minare l’istituzione familiare fin dalle sue fondamenta e a sovvertire in modo irreversibile lo status quo, segnando un punto di non ritorno nei rapporti di coppia e fra genitori e figli.

La pronuncia costituisce infatti soltanto lo strumento cui il Collegio ha affidato la risoluzione del singolo caso concreto posto al suo esame, limitandosi a confermare e a avvalorare le determinazioni e l’interpretazione dei fatti già enunciata dai giudici di primo grado e di appello, valutando inammissibili le allegazioni del ricorrente. Nel caso di specie il giudice stabilisce appunto l’inammissibilità delle censure mosse da parte appellante in rapporto alla pronuncia di secondo grado, confermativa della decisione del tribunale minorile.

La Cassazione statuisce, per quanto attiene un primo ordine di censure, che la Corte d’appello abbia motivato ampiamente le ragioni che hanno portato a affidare in via esclusiva il minore a uno soltanto dei genitori, in deroga alla regola generale dell’affidamento congiunto, costituendo causa ostativa al medesimo proprio il comportamento dello stesso appellante, non improntato- con tutta evidenza – a volontà effettiva di recupero delle proprie funzioni genitoriali. Il Collegio si sofferma poi sul secondo ordine di censure e esclude a fortiori che esse possano essere accolte, sostenendo che l’appellante non abbia dimostrato il fondamento delle proprie doglianze, ossia che l’affidamento esclusivo del minore alla madre, convivente stabilmente con persona del suo stesso sesso, possa provocare al bambino ripercussioni psicologiche, alterandone la crescita e lo sviluppo armonico a causa dell’ambiente familiare in cui viene collocato. Sul punto specifico la prima sezione civile della Corte di Cassazione imputa al ricorrente di non basare i propri motivi di gravame su certezze scientifiche o dati di esperienza, ma sul mero pregiudizio affermando – senza provare- che per un bambino vivere in una famiglia basata su una relazione omosessuale possa essere dannoso per il suo equilibrato sviluppo. Il ricorrente darebbe per scontato – dice il collegio – ciò che scontato non è e che deve essere dimostrato, la nocività per il bambino di quel contesto familiare.

Il Collegio dunque, sia pur implicitamente, non esclude in linea di principio che sia possibile fornire una prova che possa anche dimostrare la dannosità di una siffatta determinazione che, idonea ad essere assunta nel caso di specie, anche in ragione delle condizioni particolari che connotano il nucleo familiare originario del minore, potrebbe non trovare applicazione in altre ipotesi concrete nelle quali appaia però differente il profilo delle parti coinvolte. La sentenza esaminata pertanto non introduce palesemente regole e principi innovativi in rapporto alla delicata problematica della legittimità delle adozioni da parte di coppie omosessuali: la pronuncia ha soltanto confermato la scelta effettuata a monte da altri giudici di affidare in via esclusiva un minore alla propria madre. La I sezione non ha emesso dunque un pronunciamento capace di realizzare effetti dirompenti sul sistema vigente, il quale per subire una profonda mutazione avrebbe sempre e comunque necessità di interventi mirati da parte del legislatore.

Certo non può trascurarsi il fatto che , seppur la pronuncia non abbia intendimenti rivoluzionari in tema di relazioni familiari, essa abbia dato per scontato ciò che scontato non appare e cioè il fatto che possa qualificarsi come famiglia il nucleo affettivo nel quale il minore è collocato, in distonia con l’articolo 29 della Costituzione il quale identifica la famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio. Sarebbe dunque solo grazie a una lettura evolutiva delle norme costituzionali e delle norme del diritto sovranazionale, di cui la nota pronuncia 4184/2012 della medesima sezione giudicante è espressione, che si potrebbe arrivare a confermare ciò che la Cassazione ha dato per implicito e cioè che anche un nucleo connotato da soggetti del medesimo sesso possa essere qualificato come famiglia, a fortiori dopo la decisione 4184/2012. Essa infatti pur facendo salva l’idea che ad intervenire sul tema debba essere il legislatore dettando principi e criteri direttivi, traducendo così in altra forma la formula della giustizia sovranazionale che si richiama al margine di apprezzamento degli stati, apre al riconoscimento del matrimonio fra soggetti del medesimo sesso proprio perché anche la relazione stabile di una coppia omosessuale rientra nella nozione di vita familiare ai sensi dell’art.8 della CEDU, consentendo così di costruire le condizioni per valutare anche l’opportunità di affrontare oltre al tema della regolamentazione giuridica di questa tipologia di coppie, anche quello della eventuale concessione alle medesime della adozione di minori per dare piena attuazione a diritti fondamentali secondo le prescrizioni della Corte Europea cui la Cassazione si allinea, esortando il legislatore a intervenire per regolamentare la materia. Ciò che emerge dunque dall’esame del caso concreto non è la affermazione di una linea giurisprudenziale pericolosamente innovatrice, ma la necessità che il Parlamento affronti e dia soluzione a esigenze e problematiche attuali del contesto socio culturale. Già infatti il giudice delle leggi (sentenza 138/2010) ha riconosciuto che per formazione sociale debba intendersi ogni forma di comunità idonea a consentire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, annoverando in tale nozione anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra persone dello stesso sesso cui spetta il diritto fondamentale di vivere la propria condizione di coppia, ottenendo, nei modi, tempi e limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico. I concetti di famiglia e matrimonio, precisa la Corte, non si possono ritenere cristallizzati all’epoca in cui la Carta entrò in vigore, perché sono dotati di una duttilità propria dei principi costituzionali e quindi vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Tale interpretazione però non può spingersi fino al punto di incidere sul nucleo della norma perché si tratterebbe non di una semplice rilettura del sistema, ma di una interpretazione creativa. Spetta dunque al Parlamento nell’esercizio della sua piena discrezionalità stabilire le modalità del proprio intervento in materia; alla società civile non resta altro che attendere il legislatore con l’auspicio che la nuova prossima legislatura non differisca a oltranza la delicata questione, ma la affronti con determinazione senza cercare soluzioni di compromesso frutto di equilibri tra le diverse forze politiche investite del mandato parlamentare.

Mariabice Schiavi, dottore di ricerca in Diritto Costituzionale, Università di Milano 

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