Penale

Sequestro a struttura mista ok: il Gip deve solo indicare il totale

Nei reati di carattere tributario, la determinazione dei beni e della forma della misura cautelativa (diretta o per equivalente) può essere svolta dal pubblico ministero in sede esecutiva

È legittimo il provvedimento ablativo che presenti una struttura “mista”, prevedendo la sottoposizione dei beni in parte a sequestro diretto nei confronti della società e, in subordine, per equivalente a carico degli amministratori, nel caso in cui il sequestro diretto risulti infruttuoso o incapiente rispetto all’imposta evasa. A fornire questi importanti principi è stata la Cassazione, sezione III penale, con la sentenza 29862 del 3 luglio 2018.

La vicenda processuale
La controversia è sorta a seguito dell’omessa presentazione di dichiarazioni fiscali da parte di una Srl e al susseguente sequestro preventivo del Gip, finalizzato alla confisca di denaro, beni mobili e immobili, nella disponibilità dei contribuenti indagati (amministratore di fatto e di diritto della società) fino all’equivalente della somma ritenuta evasa, qualora il sequestro diretto nei confronti della società fosse risultato infruttuoso o incapiente rispetto al medesimo importo.
Con ordinanza del Tribunale del riesame veniva rigettata la richiesta di revoca della misura cautelare.

Avverso la pronuncia, che confermava il sequestro, gli amministratori indagati ricorrevano per cassazione deducendo, in particolare, violazione dellarticolo 606 cpp, lettera b), in relazione all’articolo 321 cpp e all’articolo 12-bis, Dlgs 74/2000.
Lamentavano, in particolare, un’erronea valutazione da parte del Tribunale del riesame circa la correttezza del decreto emesso dal Gip. Sostenevano che per “spostare” il provvedimento ablativo dal bene costituente il prodotto/profitto del reato ad altri beni nella disponibilità degli amministratori sarebbe stato necessario accertare, preliminarmente, l’esistenza obiettiva di un bene costituente profitto o prezzo in capo alla società.
Nel ricorso per cassazione si evidenzia come il Gip, ad avviso degli amministratori, si sarebbe limitato a indicare con un inciso, in conclusione del decreto impugnato, che il sequestro per equivalente era subordinato all’infruttuosità o incapienza del sequestro diretto nei confronti della società senza effettivamente ordinarlo.

Motivi della decisione
La Cassazione ha respinto l’impugnazione, evidenziando come il provvedimento ablativo non debba necessariamente individuare una specificazione dei beni da sequestrare, potendo, tale attività, essere svolta dal Pm nella fase esecutiva, compresa la determinazione delle modalità del sequestro stesso (diretto o per equivalente). È necessaria, invece, l’individuazione della somma da sottoporre a vincolo.

La Corte chiarisce, innanzitutto, le differenze strutturali e funzionali esistenti tra il sequestro preventivo “diretto” e il sequestro “per equivalente”. Le due misure cautelari reali rispondono a una diversa disciplina. Il sequestro diretto prevede la sottoposizione a vincolo di beni che costituiscono il profitto del reato o che siano a esso riconducibili (come nel caso dei beni acquisiti attraverso il reimpiego dei proventi illeciti), nel sequestro per equivalente la misura cautelare coinvolge beni diversi da quelli che costituiscono il profitto della fattispecie delittuosa, che abbiano, comunque, un valore corrispondente a quello del profitto.

Come chiarito dalle sezioni unite (Cassazione, sentenza 10561/2014), “si può far luogo al sequestro per equivalente soltanto dopo avere verificato l’impossibilità, ancorché temporanea, di sottoporre al provvedimento cautelare i beni che, direttamente o indirettamente, siano riferibili al profitto del reato (il quale, nei reati tributari, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario, SSUU n. 18374/2013)”.

I giudici di legittimità sottolineano che l’individuazione dei beni non va necessariamente operata nell’originario decreto di sequestro, quanto, piuttosto, nel momento successivo della concreta esecuzione del provvedimento ablativo. Non si può pretendere una ricerca preventiva dei beni costituenti il profitto di reato; difatti, durante il tempo necessario per eseguire tale ricerca, potrebbero essere occultati altri beni suscettibili di confisca per equivalente, con la conseguente vanificazione delle esigenze di cautela previste dall’ordinamento. Precisa la Corte che nella fase iniziale del procedimento, non è, di solito, ancora possibile stabilire se sia realizzabile o meno la confisca dei beni che costituiscono il prezzo o il profitto di reato, mediante una certa individuazione.

Sulla scorta dei predetti principi, la Corte ha precisato che al Gip spetta soltanto l’indicazione dell’importo complessivo da sottoporre a sequestro, mentre la determinazione analitica dei beni “e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (Cassazione nn. 36464/2015, 24785/2015, 37848/2014) ben potendo, del resto, il destinatario ricorrere al giudice dell’esecuzione qualora dovesse ritenersi pregiudicato dai criteri adottati dal pubblico ministero nella selezione dei cespiti da confiscare (Cassazione n. 20776/2014)”.

Vanno, quindi, disattese le lagnanze dei ricorrenti; è legittimo il decreto di sequestro preventivo che presenti una struttura “mista”, prevedendo la sottoposizione dei beni in parte a sequestro diretto e, “in subordine”, per equivalente nei confronti delle persone fisiche, ove il sequestro diretto, da eseguirsi nei confronti della società, risulti infruttuoso o incapiente rispetto all’imposta evasa.
Al rigetto del ricorso è seguita la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

 

Andrea Santoro,  Fiscooggi.it

Allegato Pdf: Cassazione, sezione III penale, Sentenza 29862 del 3 luglio 2018

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