GiurisprudenzaTributaria

Cane “amico” delle tasse, ma non sempre è così

di Martino Verrengia

La norma assoggetta a tassazione anche l’allevamento di animali, a patto che sia rispettato un determinato rapporto tra superficie agricola coltivata e numero degli animali allevati

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 7374 depositata il 17 marzo 2020, ha stabilito che non sono imprenditori agricoli – e quindi non beneficiano delle agevolazioni del caso – gli allevatori che gestiscono, nell’arco di un anno, cani individuati per razza e per tipo, che non rientrano nella previsione di cui al decreto interministeriale del 20 aprile 2006 che ha inserito l’attività di allevamento canino tra quelle previste in ambito agricolo.

Fatto
La vertenza originava da una serie di avvisi di accertamento, emessi dall’Amministrazione finanziaria, che qualificava:

come società di fatto il sodalizio lavorativo tra una coppia di coniugi e due figlie, che gestivano congiuntamente un allevamento di cani, intestati a fini sportivi ad un altro soggetto come commerciale e non agricola l’attività svolta.

Gradi di merito
I processi avanti alle Commissioni tributarie si concludevano con alterne vicende. Difatti, dapprima la Ctp di Arezzo riconosceva la legittimità degli atti impositivi, con rigetto dei ricorsi introduttivi.

A seguito di appello dei contribuenti, invece, la Ctr di Firenze propendeva, da un alto, per l’esclusione delle dette figlie dalla società di fatto, e, dall’altro, per l’illegittimità della qualificazione dell’attività come commerciale operata dall’ufficio, ai sensi della legge n. 349/1993, che aveva introdotto, per l’allevamento di cani, un’agevolazione che prescindeva dalla necessità dell’alimentazione degli animali con i prodotti del fondo.

Ricorso per cassazione
Il contenzioso giungeva avanti alla Corte di legittimità, a seguito di ricorso dell’ufficio, affidato a tre motivi di diritto.
Ai fini che ci occupano, è opportuno soffermarsi su una delle censure svolte dall’ufficio.
Secondo l’Amministrazione finanziaria in particolare, la Ctr toscana aveva erroneamente ritenuto che l’attività svolta rientrasse in quelle agricole, ex legge n. 349/1993, estendendo la portata della legge menzionata ai fini tributari. Nel settore tributario, proseguiva l’ufficio, la nozione e la disciplina dell’imprenditore agricolo sarebbe contenuta in un articolato normativo avente natura speciale e non potrebbe essere derogato da una legge a carattere generale, se questa non lo prevedesse espressamente. La norma fondamentale, infatti, sarebbe l’articolo 32, comma 2, lettera b) del Tuir, che stabilisce che sono considerate attività agricole quelle di allevamento di animali con margini ottenibili per almeno un quarto dal terreno; ad essa si aggiunge l’articolo 56, comma quinto stesso T.U. che stabilisce il criterio forfettario di determinazione del reddito per le attività di allevamento di animali che eccedono il limite stabilito dal citato articolo 32.

Nel caso di specie, tuttavia, inferiva l’Amministrazione finanziaria, l’articolo 56 sopra menzionato non risultava applicabile fino al periodo di imposta 2004, in quanto soltanto con il Decreto Interministeriale 20 aprile 2006 l’attività di allevamento di cani è stata inquadrata tra le attività di allevamento in ambito agricolo, includendo i cani nelle categorie di animali riportate nella specifica tabella allegata al decreto.

Decisione della suprema Corte
La Corte di cassazione premette che l’articolo 2 della legge n. 349/1993, stabilisce che:
«1. L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto;
2. I soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile;
3. Non sono comunque imprenditori agricoli gli allevatori che producono nell’arco di un anno un numero di cani inferiore a quello determinato, per tipo o per razze, con decreto del Ministro dell’agricoltura e delle foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Inquadramento tributario della disciplina
Sul piano fiscale – osservano i togati di legittimità all’unisono con la prospettazione dell’Amministrazione finanziaria – l’articolo 32, comma 2, lettera b) Tuir assoggetta a tassazione nell’ambito del reddito agrario anche l’allevamento di animali esercitato dalle persone fisiche, dalle società semplici ed enti non commerciali, a patto che sia rispettato un determinato rapporto tra superficie agricola coltivata e numero degli animali allevati in grado da assicurare il soddisfacimento teorico di almeno 1/4 del mangime necessario all’allevamento.
Pertanto, anche l’allevamento dei cani è soggetto al limite individuato dal suddetto articolo, ai fini della determinazione del reddito agricolo tassabile. Inoltre, il numero di animali allevati che consente di rientrare nel regime del reddito agrario è stabilito per ciascuna specie animale da un decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze, emanato di concerto con il ministro delle Politiche agricole e forestali, in considerazione della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti per ciascuna specie allevata.

Con il decreto interministeriale del 20 aprile 2006, emanato ai sensi dell’articolo 56, comma 5 Tuir, anche i cani, per la prima volta, sono stati inclusi tra le specie animali, per cui si rende applicabile la determinazione del reddito su base catastale, con l’indicazione, non solo dei coefficienti per la determinazione forfettaria del reddito d’impresa eccedente quello agrario, ma anche della misura del reddito agrario prodotta dagli allevamenti canini, avuto riguardo alla tipologia del terreno e al numero di capi su esso insistenti.

Conclusioni
In definitiva – chiosa la Cassazione – prima dell’entrata in vigore del decreto ministeriale del 20 aprile 2006, l’attività di allevamento dei cani continuava ad essere tassata come attività commerciale, in base alla differenza tra costi e ricavi di competenza, mentre, dall’anno di imposta 2005, (cioè dall’entrata in vigore del suddetto decreto, emanato in attuazione dell’articolo 56, comma quinto Tuir), tale attività poteva essere ricompresa, anche ai fini tributari, tra quelle produttive di redditi agrari, con conseguente possibilità di scelta, per l’allevatore, del regime applicabile alla quantità di reddito eccedente il limite di cui all’articolo 32 citato.

Iva sulla cessione di cani
Infine, con riferimento all’Iva, deve essere considerato che la cessione di cani è sempre soggetta al regime ordinario, con applicazione dell’aliquota ordinaria, non essendo tali animali compresi tra i prodotti agricoli elencati nella tabella A, parte prima, allegata al Dpr n. 633/1972 (ex articolo 34 Dpr citato).

Allegato Pdf:

Cassazione Civile Sezione Quinta, Sentenza n. 7374 del 17/03/2020


Fonte Fiscooggi.it

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