Assicurazione sulla vita - fallimento - appartenenza alla massa fallimentare delle somme dovute a seguito di riscatto

Cass. Civ. Sez. I, sent. 8676 21/06/00

 

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Latina con decreto 9/7/1998 respinse il reclamo di Montefusco Luigi  dichiarato fallito da quel tribunale  avverso il decreto del giudice delegato del fallimento, che aveva disposto l’acquisizione all’attivo fallimentare delle somme versate o da versare da parte di una compagnia di assicurazioni, per una polizza vita stipulata dal fallito in proprio favore, in caso di sua sopravvivenza, e in favore degli eredi in caso di morte autorizzando il curatore al riscatto.

Ritenne il tribunale che il curatore avesse titolo a subentrare nel contratto di assicurazione; che fosse acquisibile alla massa qualunque utilità, comprese quelle retraibili dalla pendenza di tale contratto; che la impignorabilità stabilita dall’art. 1923 c.c. non sia opponibile al curatore, subentrato al fallito, ma ai terzi; che, infine, non trovi applicazione l’art. 46 n. 2 L.F., giacché le finalità previdenziali considerate dalla norma, concepite in favore degli eredi, non si erano realizzate e trattavasi, pertanto, di un mero accumulo di esborsi recuperabili alla massa.

Ha proposto ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., Montefusco Luigi, con due motivi; non si è costituito il curatore del fallimento. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente denunzia la erronea e falsa applicazione degli artt. 46 L.F. e 1923 c.c.; deduce che ai sensi dell’art. 1923 non possono essere acquisite all’attivo fallimentare le somme dovute dall’assicuratore al contraente o ai beneficiari di una polizza assicurativa sulla vita o sugli infortuni, quand’anche possano esserlo quelle riscosse dall’assicurato e quindi entrare nel suo patrimonio.

Prevarrebbe nel primo caso, tanto da giovare alla esenzione della acquisizione, la funzione previden ziale della assicurazione, mentre nel secondo la confusione tra tutte le risorse patrimoniali del fallito, operata dalla avvenuta riscossione delle somme, non osterebbe alla loro acquisizione all’attivo fallimentare, pur se la identità del fine, in entrambi i casi, dovrebbe lasciare tali risorse sempre fuori dell’attivo fallimentare.

Con il II motivo deduce la violazione dell’art. 46 n. 2 e ult. comma L.F., contestando l’assunto del provvedimento impugnato, secondo cui mancherebbero le finalità previdenziali giustificatrici della applicazione di tale norma e si tratterebbe di mero accumulo di somme; mentre invece la possibilità di convertire, alla scadenza del contratto, la liquidazione assicurativa in una pensione vitalizia porterebbe ad assimilare la fattispecie alle categorie reddituali contemplate da quella norma, al punto da condurre allo spossessamento solo parziale, nella misura cioè stabilita dal giudice delegato.

Il ricorso non merita di essere accolto.

I motivi della proposta censura possono essere trattati unitariamente, giacché prospettano, sotto una diversa base normativa, la ragione della sottrazione alla acquisizione all’attivo fallimentare delle risorse del riscatto della polizza assicurativa sulla vita; la quale troverebbe il fondamento della esclusione sia nell’art. 46 n. 5  coordinato con l’art. 1923 c.c.  che nell’art. 46 n. 2 L.F.

Dispone tale norma del codice civile, al I comma, che «le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare» e la rilevanza di tale disposizione nel fallimento è da tempo controversa in dottrina, essendosene negata l’applicazione, in via generale, in tale procedura, giacché la impignorabilità non potrebbe impedire l’attrazione nella massa attiva di quelle risorse, a vantaggio dei creditori, a nulla giovando il richiamo dell’art. 46 n. 5 citato, in quanto esso farebbe sostanziale riferimento alla impignorabilità assoluta, prevista dall’art. 514 c.p.c., alla cui ratio legis non sarebbe riconducibile l’indennità assicurativa; ovvero evidenziandosi la incongruenza di assimilare nello stesso regime dello spossessamento diritti di natura alimentare, quali quelli previsti dall’art. 46 n. 2, peraltro nei soli limiti ritenuti dal giudice delegato sufficienti al mantenimento del fallito e della sua famiglia, e diritti che tale natura non hanno e che verrebbero sottratti persino illimitatamente allo spossessamento.

Tuttavia la prevalente opinione dottrinaria e la giurisprudenza di legittimità (Cass. 11975/1999; 6548/1988; 2802/1972; 1811/1965) sono nel senso della applicabilità dell’art. 1923 c.c. al fallimento, con la ulteriore specificazione (compiuta da Cass. 6548/1988, ma non condivisa dalla più recente delle richiamate decisioni), che a tale disciplina si sottrae la ipotesi delle somme già liquidate ed acquisite dal contraente poi fallito, siano esse individuabili o meno all’interno della massa attiva del fallito; sicché la portata della norma verrebbe a riguardare solo le somme ancora da corrispondere, in linea con il suo tenore letterale, che fa esclusivo riferimento alle somme «dovute».

Il problema che la fattispecie in esame propone è se per le somme dovute debbano intendersi quelle che l’assicuratore deve al contraente, a qualunque titolo, ovvero quelle, e solo quelle, che ordinariamente sono a suo carico, in relazione alla funzione tipica del contratto e al momento della naturale cessazione del rapporto, consistenti nella indennità assicurativa, oggetto della previsione negoziale.

Ritiene il Collegio che quest’ultima interpretazione sia preferibile, in contrario avviso alle conclusioni raggiunte da questa Corte nell’unico e risalente precedente sul punto (Cass. n. 1811/1965), seppur ribadita in termini ampi e generali dalla recente decisione n. 11975/1999. Se, infatti, fondamento dell’art. 1923 c.c. è la tutela dell’assicuratore, alla luce dei precedenti normativi  art. 453 cod. commercio del 1882; art. 19 L. 4/4/1912 n. 305, istitutiva dell’Ina; art. 5 RDL 29/4/1923 n. 966, sulle imprese di assicurazione  in forza dei quali la impignorabilità e la insequestrabilità dei crediti vantati verso quegli enti derivavano dalla qualità del soggetto debitore dell’indennità assicurativa ed erano concepite a suo vantaggio, allo scopo di evitare che fosse assoggettato a procedure esecutive presso terzi e a contestazioni sulla legittimità e validità dei pagamenti eseguiti all’assicurato, al beneficiario o ai loro aventi causa, non può, tuttavia, trascurarsi che tale tutela è strettamente dipendente dalla funzione di previdenza e risparmio  e più precisamente del risparmio finalizzato alla previdenza  dell’assicurazione sulla vita, che si riflette, come è stato osservato in dottrina, in tutela degli assicuratori e dei beneficiari, a causa della economia di spese, che altrimenti la partecipazione degli assicuratori alle controversie giudiziarie comporterebbe, con ricaduta finale su di loro; della esigenza che il rapporto contrattua le abbia un regolare svolgimento; della necessità che non sia turbato il processo di raccolta e di capitalizzazione dei risparmi, alla base di tale assicurazione.

Tanto può essere affermato, ove si consideri che mentre l’art. 453 cod. comm. escludeva dal fallimento del contraente solo le somme destinate al beneficiario e l’art. 19 L. 305/1912 accordava all’Ina il privilegio della impignorabilità dei crediti vantati verso quell’Istituto, con una tutela palesemente ratione subiecti, l’art. 5 RDL 966/1923  dal quale l’art. 1923 c.c. ripete il dettato normativo  considerò specificamente i contratti di assicurazione sulla vita e riferì la impignorabilità anche alle somme dovute all’assicurato e suoi eredi, oltre a quelle da corrispondere al beneficiario terzo, così modificando l’asse della tutela.

Ciò posto, va considerato che la finalità previdenziale è ravvisabile solo nel caso in cui il contratto abbia raggiunto il suo scopo, in relazione all’interesse garantito che nella assicurazione sulla vita consiste nella reintegrazione del danno provocato da evento morte o/e sopravvivenza, attraverso la prestazione dell’assicuratore preventivamente stimata idonea a soddisfare l’interesse leso da tale evento  giacché in tale forma assicurativa obiettivo dell’assicurato è di coprire il rischio del «caso morte» e del «caso vita» o sopravvivenza ad una data epoca; per cui è solo la indennità, nella quale si traduce la prestazione finale dell’assicuratore, ad essere preservata dalla esecuzione o dalle misure cautelari e a sottrarsi quindi al fallimento, perché è questa il mezzo con cui si realizza la previdenza, alla quale mira il risparmio formatosi attraverso l’accantonamento periodico dei premi versati. Ne consegue che nella ipotesi del riscatto, per via dell’anticipato recesso ad nutum dell’assicurato o di chi risulti legittimato ad esercitarlo  previsto nelle assicurazioni per il caso morte e in quelle miste, in cui il debito dall’assicuratore è certus an  seppur venga a realizzarsi la funzione di risparmio, totalizzando il recedente risorse monetarie recuperate dai premi versati, non si raggiunge il fine previdenziale, poiché non è più in discussione né il contraente beneficia della copertura dall’evento, assunto ad oggetto del rischio.

In siffatta ipotesi viene meno la ragione di escludere dall’attivo fallimentare le risorse recuperate; né può giovare in senso contrario l’assunto che esse erano comunque destinate al fine previdenziale, posto che è solo il risultato ad essere apprezzato dalla norma in esame e cioè il raggiungimento dello scopo, che si concretizza nella esecuzione di una prestazione di dare, quale è quella promessa dall’assicuratore all’atto del perfezionamento del negozio; come non giova il dato letterale che la norma consideri le «somme dovute» da lui, senza alcuna distinzione del titolo, poiché essa ha riguardo alla obbligazione principale dedotta nel contratto così identificata, attraverso la prerogativa che le risorse monetarie in cui si sostanzia acquistano, allorché si sottraggono alle azioni esecutive e cautelari  corrispettiva di quella del pagamento dei premi ed entrambe funzionali a mantenere in vigore il contratto, per tutta la sua durata; mentre il versamento dell’importo del riscatto suppone una situazione esattamente contraria e cioé la cessazione anticipata del rapporto.

Ancor meno può condividersi la tesi che è il rapporto assicurativo sulla vita, nella sua interezza, a sottrarsi allo spossessamento, operato in via generale dalla dichiarazione di fallimento; esso, infatti, si scioglie con la sentenza dichiarativa, a norma dell’art. 82 L.F.  secondo cui a proseguire, nonostante il fallimento, è, tra i contratti di assicurazione, solo quello contro i danni  non essendo nemmeno suscettibile di rientrare nella categoria dei «beni e diritti di natura strettamente personale», prevista dal n. 1 dell’art. 46 L.F., in quanto il fine previdenziale non è sufficiente a caratterizzare in tal modo rapporti patrimoniali, come quello in esame, privo com’è del connotato della intima connessione con la persona del fallito e con la sua identità. Ne deriva che, operandosi lo scioglimento ipso iure, le risorse patrimoniali conseguenti non possano che ridondare a vantaggio della massa dei creditori, beneficiaria unica di quelle attività al pari di ogni altra, esclusi i beni considerati dall’art. 46.

Né diversa sarebbe la conclusione, ove si ritenesse che il rapporto contrattuale non sia suscettibile di scioglimento, subentrando in tal caso al fallito il curatore proprio a cagione della natura non strettamente personale del contratto  per tale verso legittimato al riscatto e alla apprensione delle relative utilità.

Esclusa, pertanto, la riconducibilità della fattispecie alle disposizioni dei nn. 1 e 5 dell’art. 46, resta da esaminare l’ulteriore profilo dei nn. 3 e 4. La circostanza che la finalità previdenziale è frustrata come si è visto, dalla interruzione del rapporto priva del suo indispensabile presupposto la tesi proposta, che fa leva su quella finalità per sottrarre al fallimento l’oggetto del riscatto, mentre la esclusione dello spossessamento fallimentare, specificamente considerata dalla norma citata (in misura peraltro limitata), riguardando assegni con carattere alimentare, stipendi, pensioni, salari e quanto il fallito guadagna con la sua attività, non giustifica la proposta assimilazione, non avendo la assicurazione sulla vita la funzione di provvedere ai bisogni di soggetti privi di assistenza o di inabili al lavoro senza mezzi di sostentamento ed essendo, invece, potenzialmente in grado di procurare elevate risorse, che è irragionevole sottrarre al soddisfacimento dei creditori.

Peraltro la norma richiamata non troverebbe possibilità concrete di essere applicata, essa supponendo erogazioni periodiche e non somme versate una tantum, come quelle oggetto del riscatto, sulle quali nessuna influenza esercita, per il fatto stesso che non può verificarsi, la eventualità che alla scadenza naturale del contratto assicurativo l’indennità avrebbe potuto trasformarsi in pensione vitalizia e a fronte delle quali, ove fossero in discussione bisogni primari insoddisfatti del fallito e della sua famiglia, potrebbe sopperire, con l’attribuzione di sussidio a carico dell’attivo fallimentare, l’art. 47 L.F. Il ricorso va dunque respinto; nulla va disposto con riguardo alle spese processuali, non essendosi costituita la curatela fallimentare.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.