Cassazione – Sezioni unite penali – sentenza 22 marzo- 1 giugno 20001. Con ordinanza di data 7 giugno 1999, il Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catania dispose l'applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di Giuseppe Alfio Finocchiaro, sospettato di appartenenza alle associazioni per delinquere (di tipo mafioso: articolo 416bis Cp) facenti capo, una a tale P. Brunetto (fatto ascritto al capo 1 dell'imputazione) e l'altra a tali G. Scavo e B. La Motta (fatto ascritto al capo 11 dell'imputazione). Il tribunale distrettuale de libertate di Catania, in sede di riesame sulla misura custodiale, con provvedimento del 20 luglio 1999, confermò l'ordinanza di cautela solo in relazione al delitto associativo contestato al capo 11, esclusa l'aggravante di cui al comma 2 dell'articolo 416bis Cp, e annullò la detta ordinanza in relazione al delitto contestato al capo 1) dell'imputazione, non avendo ravvisato sufficienti indizi di reato. Avverso questa decisione, il Finocchiaro, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo tre mezzi di annullamento per violazione, rispettivamente, dell'articolo 273, degli articoli 274 e 275 e dell'articolo 414 Cpp. 2. In particolare, con il terzo motivo di ricorso, ribadito anche con «motivi nuovi» e con nota di udienza, il difensore del ricorrente evidenzia come l'ordinanza dei giudice per le indagini preliminari e, di conseguenza, quella impugnata, pongono a loro fondamento fatti già oggetto di una precedente investigazione conclusa con provvedimento di archiviazione emesso dalla medesima autorità nei confronti della stessa persona. L'ordinanza custodiale, precisa il deducente, è stata adottata nonostante manchi agli atti l'autorizzazione alla riapertura delle indagini ex articolo 414 Cpp., unico provvedimento idoneo a superare la preclusione veniente dal decreto di archiviazione. Secondo il deducente, il giudice, a fronte della richiesta del pubblico ministero e alla luce del principi espressi nella sentenza della Corte costituzionale 27/1995 e nella giurisprudenza di legittimità, avrebbe dovuto dichiarare l'improcedibilità dell'azione penale, rigettando, quindi, la richiesta di misura cautelare. 3. La seconda sezione della Corte, alla quale ratione materiae fu assegnata la decisione sul ricorso, ha rilevato l'esistenza di un contrasto di indirizzi, nell'ambito della giurisprudenza della Corte, sulla questione relativa agli effetti della carenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari, ex articolo 414 Cpp, quando si proceda per i medesimi fatti oggetto di un precedente provvedimento di archiviazione; pertanto, al fine di comporre il contrasto, ha rimesso la decisione alle Sezioni unite. Il Primo Presidente, con decreto del 21 febbraio 2000, ha fissato per la trattazione in camera di consiglio per l'odierna udienza. 4. Della ordinanza impugnata risulta che i fatti posti a base dell'ordinanza cautelare sono gli stessi che sostennero un precedente provvedimento di archiviazione disposto il 23 dicembre 1998 dallo stesso giudice per le indagini preliminari, su conforme richiesta del pubblico ministero formulata il precedente 1° dicembre. Il provvedimento impugnato, infatti, dato atto dell'intervenuta archiviazione, evidenzia che: «[…] in epoca immediatamente successiva, senza che fosse intervenuta alcuna novità, è stata avanzata richiesta di applicazione di misura cautelare per gli stessi fatti e sulla scorta dei medesimi elementi indiziari […]». Secondo il giudice a quo, «[…] effettivamente la vicenda è singolare (e probabilmente risponde a scelte investigative non note) ma di per sé non è causa di nullità dell'impugnata ordinanza» custodiale oggetto del giudizio di riesame. Da quanto avanti riassunto emerge: (a) che il pubblico ministero, il 1° dicembre 1998, formulò richiesta di archiviazione, e, ottenuto il provvedimento, in relazione ai medesimi fatti e nel confronti dello stesso soggetto, subito dopo (immediatamente dopo, secondo l'ordinanza del tribunale del riesame) chiese l'applicazione della misura cautelare; (b) che lo stesso giudice sulla fattispecie e nei confronti dello stesso soggetto, con decreto del 23 dicembre 1998, ordinò l'archiviazione, e con ordinanza dei 7 giugno 1999, applicò la misura cautelare detentiva; (c) che il pubblico ministero non aveva chiesto l'autorizzazione alla riapertura delle indagini; (a) che lo stesso materiale indiziario fu posto a fondamento prima dell'archiviazione e poi dell'applicazione della misura cautelare. Così definita la situazione in fatto quale ritenuta dal giudice del merito, può ritenersi che la questione al vaglio del Collegio è centrata sul se, nella permanente validità dei decreto di archiviazione, sia illegittima l'adozione di un provvedimento cautelare personale per lo stesso fatto sulla base dei medesimi elementi indiziari già oggetto della (precedente) archiviazione e, quindi, in assenza dell'autorizzazione prevista dall'articolo 414 Cpp. 5. Prima di passare alla disamina della specifica questione sottoposta al giudizio del Collegio, giova riassumere i termini del contrasto giurisprudenziale quale emerge delle motivazioni delle decisioni della Corte che si sono occupate della problematica, spesso connessa ad altri risvolti propri alle singole fattispecie, non sempre separabili senza pregiudizio per la comprensione del significato razionale dell'apparato motivazionale fornito da ciascuna decisione. Intanto, appare opportuno evidenziare la non coincidenza del problema da risolvere rispetto a quello affrontato e deciso dalla recente decisione di queste Sezioni unite all'udienza del 23 febbraio u.s. su ricorso Romeo (37239/99 r.g.); là dove si discusse sul se possa essere posto a fondamento di una misura di cautela personale, seppure previa coeva revoca della sentenza di non luogo a procedere, il [nuovo] materiale indiziario emerso [o raccolto] dopo la sentenza e prima della revoca, con i propedeutici problemi sul se siffatto provvedimento possa essere adottato anche prima della revoca della sentenza di non luogo a procedere e sul limite di operatività della disposizione di cui all'articolo 300.5 Cpp in tema di riapplicazione di misura restrittiva nei confronti del prescritto. Tutti quesiti che scontano la modificazione, all'evidenza in pejus, dell'apparato indiziario a carico del soggetto (prima) inquisito. Nella fattispecie all'odierno esame del Collegio, invece, come si è detto, a fronte dell'elemento positivo «decreto di archiviazione», si evidenzia, in negativo, sia la mancanza del provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, sia l'insussistenza di nuovi (ed ulteriori) elementi indizianti. Sicché l'attuale situazione procedimentale scaturisce, all'evidenza, da una diversa (più severa) lettura (o rilettura) degli elementi preesistenti in carenza del provvedimento ex articolo 414 Cpp. 6. Preliminarmente, va ricordata la giurisprudenza della Corte costituzionale sul tema. Con la sentenza 19 gennaio 1995, n. 27, la Corte delle leggi affrontò la questione, sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale, concernente la dedotta violazione del diritto di difesa (articolo 24 Costituzione) a causa dell'articolazione dell'articolo 555 Cpp (nella formulazione all'epoca vigente), in relazione all'articolo 414 stesso codice, laddove «[…] non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari»; nella misura in cui, cioè, la disposizione risulta[va] sfornita di sanzione processuale per il caso in cui il pubblico ministero avesse esercitato l'azione penale senza autorizzazione ex articolo 414 Cpp, dovendosi, secondo il remittente, ritenere insufficiente la sanzione dell'inutilizzabilità degli atti di indagini, posto che un tanto non potrebbe esplicare effetto paralizzante sull'atto di esercizio dell'azione penale in mancanza di una esplicita previsione di nullità (articolo 177 Cpp.). A fronte di questa prospettazione, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione come dedotta, evidenziò che proprio l'articolo 414 Cpp., subordinando la riapertura del procedimento concernente un fatto in precedenza oggetto di archiviazione al placet del giudice, ha attribuito un'efficacia [limitatamente] preclusiva al provvedimento di archiviazione, nella misura in cui, in difetto del provvedimento del giudice, l'eventuale esercizio dell'azione penale è impedito. La Corte costituzionale, dunque, fu dell'avviso che in detta ipotesi, come in ogni ipotesi di preclusione, è la instaurabilità di un nuovo procedimento (la procedibilità) ad essere impedita, secondo un meccanismo riferibile all'istituto del ne bis in idem (articolo 649 Cpp), mutuabile anche, quanto ad effetti, alla sentenza di non luogo a procedere, in assenza della revoca di cui agli articoli 434 e seguenti Cpp; principio condiviso dalla richiamata sentenza di queste Sezioni unite sul ricorso Romeo. Conclusivamente, nel pensiero della Corte delle leggi, in presenza di provvedimento di archiviazione, l'articolo 414 Cpp esprime un duplice comando scaturenti dalla preclusione endoprocedimentale: il divieto di agire e, quindi, il divieto di indagare sullo stesso fatto e nei riguardi della stessa persona. 7. Molte decisioni della Cassazione si sono mosse nell'ambito della ratio decidendi sottesa alla sentenza appena avanti riassunta precisandone non pochi risvolti ed affinando i concetti di valore suggeriti della Corte delle leggi. 7.1. Nella prospettiva dell'inquadramento sistematico dell'effetto del provvedimento (decreto od ordinanza) di archiviazione sul procedimento, come causa di preclusione all'esercizio, dell'azione penale e, anche, all'attivazione di un atto inquadrabile come atto del procedimento - quale potrebbe definirsi, con il massimo di ampiezza, la richiesta di applicazione di misura di cautela -, come delineato dalla Corte costituzionale, e così valorizzando il meccanismo del ne bis in idem, Sez. I, 30 aprile 1996, Zara, in C.E.D. n. 205283, in fattispecie di ordinanza di custodia cautelare emessa da un giudice per le indagini preliminari diverso da quello che aveva reso il provvedimento di archiviazione, ha affermato il principio per cui «[…] deve ritenersi precluso, in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, l'esercizio dell'azione penale, riguardante un fatto già oggetto di archiviazione atteso che, in tal caso, è l'instaurabilità di un nuovo procedimento ad essere impedito. Con la conseguenza che, qualora il pubblico ministero non abbia dato dimostrazione di aver ottenuto l'autorizzazione predetta, il giudice deve prendere atto della mancanza del presupposto per procedere». 7.2. Sez. VI, 12 dicembre 1996, Teglieri, C.E.D. n. 205902 in fattispecie di abuso d'ufficio (articolo 323 Cp), ha ribadito tale scelta ermeneutica correttamente limitando, però, l'effetto preclusivo del decreto di archiviazione solo nei confronti dell'autorità giudiziaria che l'aveva emesso. Ciò in quanto, secondo detta decisione, l'autorizzazione ex articolo 414 Cpp, preordinata a rimuovere gli effetti della precedente valutazione di infondatezza della notizia di reato, si pone come atto equipollente alla revoca, sicché non può provenire se non dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento ed inerire ad un sindacato sul potere di esercizio dell'azione penale riferibile al pubblico ministero titolare delle relative funzioni presso lo stesso ufficio giudiziario. La riapertura delle indagini sarebbe da definire come atto incidentale di quel dato procedimento e, per questo, non potrebbe che riguardare il «medesimo fatto», nella specificità degli elementi apprezzati al momento della prima iscrizione nel registro di cui all'articolo 335 Cpp e valutati allorquando fu consentita l'archiviazione. Così inteso, prosegue la decisione, il concetto di «medesimo fatto» non potrebbe prescindere dalle condizioni di luogo, di tempo e di persona che lo contraddistinguono in quel dato procedimento. Ne seguirebbe che se un elemento identificativo del fatto, ai fini che interessano, è il luogo in cui si è verificato, la preclusione non potrebbe avere carattere vagante essendo radicata al fatto quale apprezzato dal giudice dell'archiviazione, con quelle date connotazioni irripetibili in altro fatto altrove considerato e valutato. La preclusione, sempre secondo la decisione in disamina, postulerebbe l'esaurimento del potere decisionale come conseguenza del suo esercizio ovvero del compimento di un atto incompatibile, così generando l'effetto preclusivo. Ma proprio per questo limitato effetto, conclude la decisione in commento, nessuna preclusione potrebbe produrre nei confronti dell'autorità che non abbia esercitato quel potere. La ricostruzione dell'Istituto, così operata, risulta ancorata al testo letterale dell'articolo 414 comma 2 Cpp. Il quale dispone che «quando è autorizzata la riapertura delle indagini, il pubblico ministero procede a nuova iscrizione a norma nell'articolo 335», sicché l'aggettivazione nuova, secondo la plausibile interpretazione fornita dalla sentenza: «[…] postula non solo la successione cronologica delle iscrizioni sullo stesso registro, ma - anche e conseguentemente - l'identità dell'ufficio del pubblico ministero procedente, che abbia iscritto sia la prima che la nuova notizia di reato». 7.3. Sulla stessa linea si muove, ai fini dell'operatività della preclusione dedotta dal contesto dell'articolo 414 Cpp, Sez. IV, 18 dicembre 1998, Bruno, Ced n. 213140, la quale afferma esplicitamente che detta disposizione, per coordinarsi con il concetto di «stesso fatto» è da interpretarsi in stretto collegamento con le regole sulla competenza territoriale. Infatti, l'esattezza della regole, secondo la quale la competenza a disporre la riapertura appartiene allo stesso giudice che ha emesso il decreto di archiviazione, emerge dalla considerazione che un Pubblico ministero, territorialmente diverso, non potrebbe richiedere al giudice delle indagini preliminari di altra sede giudiziaria, che ha emesso il decreto, il provvedimento di riapertura delle indagini, stante lo stretto ed esclusivo collegamento funzionale tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari operanti nella stessa sede. Da ciò l'epifonema che l'autorizzazione di cui all'articolo 414 Cpp, non è necessaria allorquando le nuove indagini (sullo stesso imputato e per lo «stesso fatto») siano attivate da pubblico ministero territorialmente diverso. 7.4. Sez. I, 11 giugno 1996, Morici, Ced n. 205157, si intrattiene, particolarmente, sulla nozione di «stesso fatto» quale presupposto dell'efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, in assenza della autorizzazione ex articolo 414 Cpp. E' ivi affermato il principio per cui, in caso di disposta archiviazione, la necessità dell'autorizzazione alla riapertura delle indagini può essere esclusa soltanto quando si sia in presenza di un fatto da qualificare come oggettivamente diverso rispetto a quello cui si riferiva il provvedimento di archiviazione, e non, quindi, quando vi sia una nuova notizia di reato riguardante il «medesimo fatto». La decisione precisa, nella specificitá della fattispecie molto somigliante a quella dell'odierno esame del Collegio, che quando il decreto di archiviazione, pur investendo astrattamente la medesima imputazione (nel caso, di associazione di tipo mafioso ex articolo 416bis Cp), concerna fatti storici materialmente diversi, sia sotto il profilo spazio-temporale delle condotte di partecipazione al reato che sotto quello delle persone coinvolte, l'autorizzazione giudiziale (per riattivare l'investigazione) non è necessaria, trattandosi, sostanzialmente, di una diversa notitia criminis, in relazione alla quale il pubblico ministero ha autonomo dovere di procedere alle indagini. Tale conclusione è sorretta da un'attenta analisi della nozione di «fatto diverso», che parte dalla premessa del rilievo attribuibile al nuovo procedimento per gli effetti che ne derivano sia sul piano della utilizzabilità delle acquisizioni investigative, ex articolo 191 Cpp., che sulla procedibilità dell'azione penale. L'essenzialità sta non nel dato, di ordine meramente formale, della iscrizione come nuova di una notizia di reato nell'apposito registro, ma nelle implicazioni sull'elusione del controllo giurisdizionale e sull'aggiramento della disciplina dei termini finali dell'investigazione. Centrato il problema sul contenuto della notitia criminis vale a dire, sull'identità, o meno, delle componenti oggettive (condotta, evento, nesso causale) del fatto di reato, e non sull'identità della notitia di reato, il «fatto diverso», che esclude la necessità dell'autorizzazione a riaprire l'investigazione, deve essere identificato, prosegue la decisione, proprio attraverso l'analisi delle componenti sostanziali della notizia di reato, vale a dire, appunto, sul suo contenuto. Con la conseguenza che, ove non sussistano i requisiti di «medesimezza del fatto», acquista piena operatività la regola del favor actionis, secondo la regola di obbligatorietà dell'azione penale, a mente dell'articolo 112 Costituzione; sicché il subordinare la prosecuzione dell'investigazione ad un atto autorizzatorio del giudice costituirebbe un'ingiustificata imitazione all'esercizio dell'azione penale. La decisione opportunamente precisa, per quanto possa appare ovvio, che il concetto di «stesso fatto» è ancorato non solo alla «medesimezza del fatto» ma, altresì, all'identità dei soggetti, facendo rilevare che, in caso di archiviazione ai sensi dell'articolo 415 Cpp, per esser ignoti gli autori del reato, la giurisprudenza più recente si è ormai consolidata nel ritenere non necessaria l’autorizzazione di cui all'articolo 414 stesso codice, sulla base della considerazione che le garanzie di cui alla detta disposizione operano solo con riguardo al soggetto noto, diverso da quello ignoto, con ciò valorizzandosi la funzione garantista del provvedimento di archiviazione. 7.5. Negli stessi ambiti ermeneutici si colloca Sez.I, 2 maggio 1996, Carfora, Ced n. 205136, la quale, in fattispecie procedimentale alquanto complessa, nel respingere il ricorso avverso una [seconda] ordinanza del tribunale distrettuale de liberate - che aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare personale sul rilievo che esso era fondato sugli stessi fatti, oggetto di archiviazione e nella mancanza del decreto ex articolo 414 Cpp - ha affermato, il principio per cui la riapertura delle indagini in base ad una nuova notizia di reato, riguardante il «medesimo fatto», in precedenza archiviato, postula la necessità del decreto autorizzativo del giudice, su richiesta motivata dei pubblico ministero. Con condivisibile puntualità, la sentenza precisa che: «[...] è fin troppo evidente che la riapertura delle indagini, successiva ad un provvedimento di archiviazione, non può che avvenire sulla base di nuove acquisizioni pervenute in un secondo momento a seguito di nuovi apporti provenienti da fonti diverse rispetto a quelle […] valutate nel procedimento archiviato; apporti normalmente provenienti da una nuova notitia criminis [ed] è altrettanto ovvio che qualora le nuove acquisizioni riguardino il medesimo fatto, oggetto del procedimento archiviato, la riapertura delle indagini non potrà che avvenire previa autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari […]», mentre tale autorizzazione non è necessaria «[…] se la notitia criminis riguardi fatti diversi o, al limite, un soggetto diverso». Questa decisione, poi, riprende il concetto già espresso dalla sentenza Morici (§ 7.4.), ribadendo la irrilevanza, in sé per sé, della formalità di una nuova iscrizione al registro di cui all'articolo 355 Cpp, perché, pure in presenza di tale formalità, se la notizia di reato concerna lo «stesso fatto», occorre pur sempre l'autorizzazione ex articolo 414 Cpp, poiché, in contrario, da un lato, significherebbe approdare alla violazione sistematica dell'articolo 414 Cpp e, dall'altro si incorrerebbe in «[…] una affermazione di per sé contraddittoria ed ambigua, certamente contraria a principi di correttezza processuale». Dal che consegue, ulteriormente, che la riapertura delle indagini non potrebbe essere supportata solo da una (nuova e diversa) valutazione degli elementi di accusa già acquisiti nel corso della precedente fase procedimentale, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente una violazione delle norme caducative di cui all'articolo 407 Cpp. 7.6. Sez. I, 24 ottobre 1996, Romeo, Ced n. 206380, affronta il problema del rapporto tra decreto di riapertura delle indagini e ordinanza di custodia cautelare, escludendo espressamente che l'applicazione della misura possa svolgere funzione surrogatoria del decreto ex articolo 414 Cpp, implicitamente comprendendolo. Ciò in quanto l'adozione della misura cautelare deve ritenersi conseguente alle nuove indagini compiute dopo l'avvenuta archiviazione e, pertanto, precluse dal difetto della prescritta prevista autorizzazione giudiziale con seguente inutilizzabilità dei risultati accusatori degli atti compiuti, la decisione razionalizza l'assunto considerando che: «[…] l'applicazione di misura cautelare […] non può ritenersi surrogatoria della predetta autorizzazione o implicitamente comprensiva della medesima, sol che si rilevi come l'adozione della misura sia, di norma, consequenziale all'esito, delle nuove indagini compiute dopo l'intervenuta archiviazione e come proprio l'espletamento di dette indagini sia precluso in assenza della prescritta autorizzazione giudiziale, con correlativa inutilizzabilità degli atti compiuti in difetto della stessa, ex articolo 343 comma 4 Cpp., da ritenersi generalmente applicabile a tutte le ipotesi di autorizzazione a procedere e, dunque, anche a quella prevista dell'articolo 414 Cpp». 7.7. Più centrata sul problema della esercitabilità, o meno, dell'azione penale in presenza di archiviazione non rimossa, che di quella che direttamente interessa l'odierna decisione, ma utile a considerarsi per le ragioni fondanti ivi espresse, appare Sez. VI, 28 gennaio 1997, Cappello Ced n. 207360, la quale precisa che senza la prescritta autorizzazione del giudice il pubblico ministero non è legittimato alla riapertura delle indagini, di tal che il giudice, investito della richiesta di rinvio a giudizio, o di qualsiasi altra richiesta correlata ad una siffatta non autorizzata riapertura, rilevata la mancanza del relativo decreto e, cioè, di una condizione di procedibilità, deve, ai sensi dell'articolo 425 Cpp, emettere sentenza di non luogo a procedere. Il sostegno razionale parte dalla considerazione che il principio del no bis in idem ha carattere e valenza generale, in quanto tale applicabile alle procedure di cognizione e di esecuzione, sia pure con le limitazioni riguardanti i procedimenti incidentali de libertate sfociati in provvedimenti validi allo stato degli atti, per i quali riveste la più modesta portata di una preclusione endoprocedimentale; tale, comunque, da rendere inammissibile la reiterazione di provvedimenti che possano porsi in contrasto con altri, aventi medesimo oggetto e definitivi, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta e base del primo provvedimento. Da ciò se ne deduce, secondo questa decisione, che l'irrevocabilità, pur non essendo parificabile all'autorità della cosa giudicata, parimenti porta seco il limite negativo della preclusione, nel senso di non consentire il bis in idem, salvo che siano cambiate le condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione. Da ciò la Corte deduce che la ratio sottesa all'articolo 414 Cpp, è quella di evitare reiterazioni del procedimento fino a quando non intervengano esigenze di nuove investigazioni; il che si traduce nella produzione di una preclusione processuale ispirata al principio del ne bis in idem, superabile soltanto in virtù della richiesta dei pubblico ministero, che vi diede causa, e dell'autorizzazione del giudice, che con il decreto di archiviazione vi diede luogo; l’una e l'altra, imprescindibilmente, vincolate all'accertata e oggettiva sussistenza di esigenza di nuove investigazioni, 7.8. Sez. VI, 5 agosto 1997, Audino Ced n. 208863, nel richiamare esplicitamente i principi affermati dalla sentenza Zara, in coerenza con il dictum estraibile dalla richiamata decisione della Corte costituzionale (n. 27 del 1995), ha riaffermato che in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, devono ritenersi preclusi sia l'esercizio dell'azione penale sia l'instaurazione di un nuovo procedimento riguardante un fatto già oggetto di archiviazione. Ne consegue che l'inutilizzabilità degli atti acquisiti in violazione dell'articolo 414 Cpp, colpisce sia la loro valutazione quali prove per l'affermazione di responsabilità che il loro apprezzamento quali indizi per giustificare una misura di cautela personale. Secondo la decisione - che, all'evidenza, si fa carico di contraddire le diverse ragioni espresse dalla sentenza su ricorso Greco, di cui appresso § 8.1 -, limitare la sanzione al solo profilo probatorio (in senso stretto) equivarrebbe a non tenere nel dovuto conto l'aspetto funzionale dell'effetto preclusivo derivante dal decreto di archiviazione, come provvedimento volto ad istituire un controllo sull'attività dei pubblico ministero, non solo al fatto della richiesta (rinvio e giudizio, misura di cautela) ma anche in relazione all'attività prodromica alla richiesta stessa ed a quella successiva, eventualmente, in sede di riapertura delle indagini. Per questo, la preclusione processuale non può essere rimossa che tramite il prescritto atto autorizzatorio ex articolo 414 Cpp, con esclusione di equipollenti, come l'applicazione della misura cautelare, l'adozione della quale, trovando fondamento nelle nuove indagini compiute dopo l'avvenuta archiviazione, minate però da inutilizzabilità seguente il difetto della prescritta autorizzazione giudiziale, risulterebbe irrilevante ai fini autorizzatori. Anche questa decisione, come le sentenze Taglieri, Carfora e Morici sopra riassunte, precisa che, affinché la preclusione processuale operi, è necessario che le nuove indagini siano avviate dalla medesima autorità, nei confronti della medesima persona e per lo «stesso fatto». In proposito la sentenza in commento, partendo dalla considerazione che la riapertura delle indagini non può essere giustificata dalla semplice rivalutazione dello stesso materiale già acquisito al procedimento, poiché ciò comprometterebbe la regola caducatoria di cui all'articolo 407 Cpp., evidenzia come a questo meccanismo rimane estranea l'ipotesi di notitia criminis e di nuove acquisizioni riquardanti fatti diversi o un rigetto diverso. E ciò anche, esplicita la decisione, qualora il pubblico ministero svolga indagini che pure coinvolgano il soggetto nei cui confronti era stato adottato il provvedimento di archiviazione, ma che si assumono diverse, o per la differenziazione di circostanze di fatto che rivestano comunque valore significante, oppure perché il quadro, plurisoggettivo risulti radicalmente diversificato. Anche in tale ipotesi prevale il principio del favor actionis, come aveva rilevato la decisione su ricorso Morici (avanti $7.4), perché, il subordinare la prosecuzione degli atti di investigazione all'autorizzazione del giudice, verrebbe a costituire un'ingiustificata limitazione all'esercizio dell'azione penale, con intuibili riverberi anche sul principio di cui all'articolo 112 Costituzione. Nella stessa scia dell'ora richiamata decisione, la sentenza precisa che la «diversità» del provvedimento va riferita al contenuto della notizia di reato, vale a dire «[…] al fatto-reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, con la conseguenza che ove il pubblico ministero, autorizzato alla riapertura delle indagini, provveda ad una nuova iscrizione ai sensi degli articoli 414 comma 2 e 335 Cpp, non si instaura un procedimento diverso e possono essere utilizzati i risultati delle indagini già svolte», richiamando, sul punto, il dictum di Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, Ced n. 203741. 7.9 Le regole enunciate delle decisioni sopra esposte, sono state ribadite da Sez. I, 6 luglio 1999, Montalbano, Ced n. 214099, la quale, in fattispecie di indiziato per omicidio, colpito da misura cautelare sulla base di dichiarazioni assunte della polizia giudiziaria prima dell'autorizzazione alla riapertura delle indagini, ha riaffermato il principio che la pronuncia del decreto di archiviazione determina una preclusione processuale all'autorizzazione degli elementi acquisiti successivamente ad esso e prima dell'adozione del decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini ex articolo 414 Cpp, la cui emissione funge da condizione di procedibilità per la ripresa delle investigazioni in ordine allo stesso fatto e nei confronti delle stesse persone, nonché per l'adozione di ogni consequenziale provvedimento, compresa l'applicazione di misure cautelari. 7.10. Nello stesso filone si inseriscono Sez. IV, 20 marzo 1997, Saltannecchi, Ced n. 208528, per la quale l'autorizzazione del giudice delle indagini preliminari alla riapertura delle indagini vale a rimuovere una condizione di improcedibilità dell'azione penale costituita dai provvedimento di archiviazione, e a consentire la riproposizione dell'azione penale con la nuova iscrizione della medesima notizia di reato a carico della medesima persona, e Sez. VII 14 febbraio 1997, Zagari, Ced n. 208122, la quale insiste sulla regola per cui a norma dell'articolo 414 Cpp., dopo il provvedimento di archiviazione il pubblico ministero non può compiere nuove indagini, a pena di inutilizzabilità dei relativi risultati, se il giudice non abbia autorizzato la riapertura. Quest'ultima decisione si premura di evidenziare che l'autorizzazione non è richiesta ove si tratti di fatti successivi a quelli considerati nel provvedimento di archiviazione. 8. Analoga rassegna si impone quanto alle pronunce di legittimità che hanno seguito indirizzi diversi centrati intorno alla riflessione che l'oggetto dell'autorizzazione giudiziale alla riapertura delle investigazioni riguarda lo svolgimento di attività di indagine e non il potere-dovere di esercitare l'azione penale, sicché la violazione dell'articolo 414 Cpp, colpendo l'utilizzabilità degli atti «abusivi», analogamente a quanto disposto dall'articolo 407 s.c, non pregiudicherebbe l'esercizio dell'azione penale. Con l'ulteriore conseguenza che la richiesta di applicazione di misura cautelare, restando fuori - e prima - dell'esercizio dell'azione penale ben potrebbe essere formulata, e l'ordinanza emessa, anche in presenza di non rimosso decreto di archiviazione. 8.1 Così Sez. I, 30 novembre 1995, Greco, Ced n. 203871, afferma che il decreto del giudice delle indagini preliminari che autorizza il pubblico ministero, su sua richiesta, a riaprire indagini già oggetto di archiviazione, si concretizza in un provvedimento giurisdizionale la cui carenza ha unicamente l'effetto di rendere inutilizzabili gli atti compiuti dal pubblico ministero, in mancanza di detta autorizzazione, all'atto della loro valutazione come “prova” in ordine alla responsabilità dell'imputato e non al momento del loro apprezzamento come “indizio” a carico dell'indagato ex articolo 191 comma 2 Cpp. Tesi fortemente resistita, poi, dalla sentenza Audino, come si è avanti evidenziato (cfr.: § 7.8.). Secondo questa decisione, l'eventuale carenza di motivazione in ordine all'eccepita mancata produzione da parte dell'autorità giudiziaria procedente del decreto di autorizzazione, non inficierebbe l'ordinanza del giudice del riesame di uno dei vizi deducibili a mente dell'articolo 606 comma 1, lett. c) Cpp, non essendovi obbligo di motivare sul punto che esula dal thema decidendum sottoposto al giudice de libertate con la procedura di cui all'articolo 309 del codice di rito penale, concernente la legittimità e la fondatezza nel merito della misura di cautela. 8.2. Sez. I, 1° ottobre 1996, Palumbo, Ced n. 206004, mantiene distinte le conseguenze scaturenti dalla conduzione di indagini in presenza di archiviazione non rimossa rispetto alle condizioni di esercibilità dell'azione penale. Infatti, dopo avere affermato che sono colpiti da sanzione di inutilizzabilità gli atti assunti successivamente ad un provvedimento di archiviazione pronunciato sia ai sensi dell'articolo 414 Cpp che dell'articolo 415 s.c. precisa che tale sanzione va rapportata alla prescrizione dell'articolo 191, in riferimento al comma 3 dell'articolo 407, Cpp, senza implicazioni sulla legittimità dell'esercizio del potere di attivazione dell'azione penale, ex articolo 178 comma 1 lett b) Cpc., in quanto, in siffatte ipotesi, l'azione penale è comunque iniziata dal pubblico ministero; e ciò a prescindere dalla eventualità che la mancanza del provvedimento autorizzatorio del giudice possa configurarsi come difetto di una condizione di procedibilità. 8.3 Nella stessa scia si muove Sez. II, 12 novembre 1996, Palazzo, Ced n. 206362. Si afferma, invero, che il pubblico ministero anche in costanza di decreto di archiviazione conserva il potere di agire in quanto «[…] non vi sono previsioni ad hoc di decadenza, né potrebbero esservene perché contrastanti con l'articolo 112 Costituzione»; tuttavia, quando l'organo dell'accusa riconsidera casi archiviati deve chiedere al giudice il permesso di indagare, essendo altrimenti gli atti, tardivamente compiuti, sterili in sede istruttoria». Con l'ulteriore precisazione che quando «[…] l'atto sia stato assunto nell'ambito di indagini diverse, volte ad individuare gli autori di altri reati», non scatta la sanzione di inutilizzabilità, affermando un principio poi condiviso dalla sopra richiamata decisione di queste Sezioni unite su ricorso Romeo. 8.4. Ancor più esplicita appare Sez. VI, 21 gennaio 1998, Cusoni, Ced n. 210032, la quale, dopo aver premesso che «[…] il decreto di archiviazione ha per oggetto la notizia di reato, non il fatto, e impedisce l'avvio di un procedimento, non il giudizio su un'imputazione», afferma il principio per cui «[…] l'intervenuta archiviazione non può prescindere l'integrazione nel dibattimento, a norma degli articoli 516, 517 e 518 Cpp, dell'oggetto di un'azione penale già esercitata e di un processo già instaurato, quando e nei limiti in cui una tale integrazione sia in quel processo consentita». Il principio è affermato in relazione alla specifica fattispecie di contestazione integrativa nel dibattimento, ai sensi dell'articolo 517 Cpp, di addebito oggetto di indagine precedentemente archiviata. Infatti, in prosieguo, la motivazione esplicita che «[…] l'articolo 414 Cpp preclude l'esercizio ex novo dell'azione penale, anche quando non siano necessarie nuove indagini, ma non preclude […] l'integrazione dell'oggetto di un'azione penale già esercitata e di un processo già instaurato». 8.5. Nel filone in esame si inserisce anche la sentenza Sez. VI, 24 giugno 1998, Migliaccio, Ced n. 212910, per la quale la mancata osservanza della norma dell'articolo 414 Cpp non comporta nullità del procedimento, ma determina solamente inutilizzabilità dei risultati degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero. Nella specie il ricorrente era stato indagato, nella sua qualità di dirigente del settore tecnico regionale della pianificazione urbanistica, per aver tra l'altro, concorso al rilascio di una concessione edilizia in violazione della normativa urbanistica, fatto per il quale era intervenuta archiviazione. Successivamente, lo stesso soggetto fu indagato e condannato per il reato di abuso d'ufficio; in sede di legittimità oppose, tra altro, la forza preclusiva dell'intervenuta archiviazione instando per la dichiarazione di nullità del procedimento a causa della violazione dell'articolo 414 Cpp. Il motivo di annullamento fu rigettato sull'affermazione del principio secondo il quale «[…] dalla violazione dell'articolo 414 non scaturisce l'improcedibilità dell'azione penale, essendo la stessa collegata ai presupposti di cui al titolo III del libro V del Cpp» sicché detta violazione «[…] non inficia la validità della richiesta di rinvio a giudizio ma determina solo la inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dal Pm». 8.6. Seppure all'esito di un ampio discorso giustificativo, centrato su problemi connessi all'utilizzo di atti di indagine compiuti, in costanza di un provvedimento di archiviazione, riguardanti fatti costituenti il sostrato di non omogenei addebiti in materia urbanistica e sfociati in un provvedimento di sequestro preventivo, Sez. V, 12 febbraio 1999, Rubino, Ced n. 212881, ha evidenziato che la sanzione dell'inutilizzabilità degli atti, conseguente ad investigazioni espletate prima che sia intervenuta la formale autorizzazione del giudice alla riapertura delle indagini, non colpisce quegli atti che, sia pure prima della predetta autorizzazione, siano stati regolarmente raccolti nell'ambito di un diverso procedimento, in quanto essi sono stati assunti nel corso di separate indagini, volte ad individuare la sussistenza di altri reati. Inoltre, secondo questa decisione, colui che assume che il provvedimento impugnato sia stato adottato a seguito di indagini condotte prima del decreto autorizzativo ex articolo 414 Cpp, ha l'onere di dimostrare che il convincimento del giudice del merito si sia fondato su atti acquisiti al di fuori delle regole codicistiche e di specificare quali essi siano. 8.7. Su diverso ordine di argomenti fu fondata la decisione resa da Sez. V, 25 ottobre 1994, Carbone, Ced n. 199874, la quale ravvisò abnormità nel provvedimento del giudice che, investito della richiesta di rinvio a giudizio, ne dichiarò l'inammissibilità sulla base della considerazione che il pubblico ministero avrebbe dovuto prima chiedere l'autorizzazione alla riapertura delle indagini, essendo intervenuto decreto di archiviazione per gli stessi fatti e nei confronti degli stessi indagati. Secondo la decisione, a mente dell'articolo 424.1, Cpp, il giudice - all'esito dell'udienza preliminare - deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio. Ergo, tertium non datur. Ne seguirebbe che un siffatto provvedimento del giudice violerebbe il principio di irretrattabilità dell'azione penale, posto che l'inosservanza della disposizione dell'articolo 414 Cpp potrebbe comportare, ex articolo 407 Cpp, l'inutilizzabilità di quegli atti di indagine eventualmente compiuti dal pubblico ministero dopo la scadenza del termini, ma non potrebbe sostenere la dichiarazione di inammissibilità della richiesta di rinvio a giudizio. Invero, prosegue la sentenza, la richiesta di rinvio a giudizio fa assumere la qualità di imputato alla persona alla quale è attribuito il reato e, ai sensi dell'articolo 405.1 Cpp, la formulazione della richiesta medesima segna l'inizio dell'azione penale con passaggio dalla fase del procedimento a quella del processo. Inoltre, al sensi dell'articolo 50.3 Cpp, l'esercizio dell'azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nel casi espressamente previsti dalla legge, mentre, in forza dell'articolo 60 comma 2 s.c., la qualità di imputato, una volta assunta, si conserva fino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, o sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna 8.8. Opera piuttosto sul piano processuale Sez. I, 24 giugno 1998, Coppola, Ced n. 211291, la quale afferma il principio per il quale l'inutilizzabilitá degli atti di indagine compiuti dopo l'archiviazione e senza l'autorizzazione alla riapertura da parte del giudice per le indagini preliminari non è rilevabile di ufficio ma solo su eccezione di parte, giacché quest'ultima potrebbe avere anche un interesse opposto all'inutilizzabilità. 9. Prospettato, con la opportuna ampiezza, il quadro della giurisprudenza sulle tematiche connesse al quesito cui deve darsi risposta, resta in evidenza che, pur nella varietà delle fattispecie in giudizio, un contrasto di indirizzi esiste nella giurisprudenza della Corte a riguardo dello specifico quesito cui deve darsi risposta, secondo quanto argomentato dall'ordinanza di remissione a queste Sezioni unite del ricorso proposto dal Finocchiaro. Per le decisioni riassunte sotto il § 7, esplicitamente o implicitamente, è da escludersi che, in assenza del provvedimento di cui all'articolo 414 Cpp., possano condursi utili investigazioni e possa legittimamente esercitarsi il potere dell'organo dell'accusa di chiedere l'emissione di un provvedimento di cautela e persino, per talune decisioni, un qualsiasi provvedimento che implichi l'attualità delle fase investigazione. Con la conseguenza, in talune decisioni esplicitata in termini, che una rilettura degli elementi indizianti, ritenuti inidonei dal giudice delle indagini preliminari a sostenere l'accusa e, per questo, fatti oggetto di provvedimento di archiviazione, possa poi giustificare, rimosso o no il provvedimento di archiviazione, l'adozione di una misura di cautela; evenienza che, invece, non risulta scartata della maggior parte delle decisioni raggruppate nel § 8. Per dare ordine alla razionalizzazione della decisione appare opportuno partire dalla lettura dell'articolo 414 comma 1 Cpp. Detto disposizione codicistica, sotto la rubrica «Riapertura delle indagini» stabilisce: «Dopo il provvedimento di archiviazione […] il giudice autorizza con decreto motivato la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dalla esigenza di nuove investigazioni». Dalla struttura logica del testo normativo si può dedurre, con evidenza, che, se la richiesta di apertura deve essere giustificata dalla esigenza di nuove investigazioni (da prospettare al giudice), queste non possono essere attivate se non dopo avere chiesto ed ottenuto il provvedimento giudiziale. La stringatezza della disposizione e la mancata esplicita indicazione di sanzioni ha provocato in giurisprudenza diversità di indirizzi (come si è visto), sia quanto ai presupposti che all'ampiezza dell'effetto invalidante su eventuali acquisizioni investigative conseguenti alla mancata autorizzazione. Del che, sia pure incidenter tantum, si è occupato la recente sentenza di queste Sezioni unite su ricorso Romeo, sopra richiamata ed alla quale, per il risvolto colà esaminato, giova rinviare. 10. Ai fini che interessano la odierna decisione, che concerne non il destino delle investigazioni realizzate in presenza di provvedimento di archiviazione non rimosso ma piuttosto gli effetti, eventualmente paralizzanti, di tale provvedimento sull'attività del pubblico ministero e, di riverbero, sulla legittimitá del provvedimento assunto dal giudice a seguito di richiesta formulata nella data situazione procedimentale (di presenza di archiviazione non rimossa), si pone in termini ineludibili il problema sulla risposta da dare al quesito sul se il provvedimento di archiviazione produca una preclusione endoprocedimentale idonea a paralizzare, prima della sua rimozione, l'attività del pubblico ministero, come definita dagli articoli 326 e seguenti Cpp, e pur dominata dalla prescrizione costituzionale di cui all'articolo 112. Non solo, dunque, a impedire l'esercizio dell'azione penale (articolo 405 e seguenti Cpp), né solo il compimento di specifici atti investigativi, che pure costituisce l'essenzialità dell'attività d'indagine, ma ostacolo in radice a ogni attività, ivi compresa qualsivoglia richiesta al giudice (applicazione di misura di cautela, intercettazioni telefoniche, ecc.). E' appena il caso di avvertire che restano estranee alla presente tematica le ipotesi di cui all'articolo 345 Cpp., laddove è la stessa legge che prevede un meccanismo operativo automatico. Pur fermando l'attenzione sull'ultimo profilo della questione, che è quello che specificamente concerne l'odierna decisione, vale e dire sul se sia attribuibile un effetto preclusivo al provvedimento di archiviazione incidente sull'attività di richiesta, da parte del pubblico ministero, di ordinanza cautelare, non va sottaciuto come l'esito della decisione sulla specifica questione si estenda logicamente e consequenzialmente: a qualsiasi richiesta; vale a dire, definisce ab imis la questione sull'effetto endoprocedimentale dell'archiviazione quale conseguenza della riconoscibilità di efficacia preclusiva generale dell'archiviazione (non rimossa). 11. Valutati gli esiti argomentativi della giurisprudenza della Corte sul tema, come sopra esposti, ritiene il Collegio, optando per l'indirizzo espresso dalla decisioni riassunte sotto il § 7, che deve essere affermata la regola secondo la quale, una volta disposta l'archiviazione in ordine a una data notizia di reato, senza il preventivo provvedimento di cui all'articolo 414 Cpp, lo stesso pubblico ministero, da intendersi come medesimo ufficio, non può legittimamente chiedere, e lo stesso giudice delle indagini preliminari, sempre da intendersi come ufficio, non può valutare, accogliendola o rigettandola, la domanda di emissione di un provvedimento di cautela (o altro provvedimento che implichi l'attualità di un procedimento investigativo); sia che tale richiesta sia fondata su una semplice rilettura degli elementi presenti negli atti archiviati, sia che ponga a base atti compiuti dopo l'archiviazione ed in relazione allo stesso fatto e, persino, occasionalmente conosciuti, senza che prima non sia stato chiesto e pronunciato il decreto di riapertura delle indagini preliminari ex articolo 414 Cpp. Invero, va condiviso e valorizzato quell'indirizzo giurisprudenziale che, nella scia della più volte richiamata sentenza 27/1995 della Corte costituzionale, ravvisa un effetto (limitatamente, perché subordinato all'assenza del decreto ex articolo 414 Cpp) preclusivo del provvedimento di archiviazione. Tale guadagno ermeneutico è sostenuto dalla corretta interpretazione logico-sistematica dell'apparato normativo che disciplina l'istituto, sia con riferimento al momento dichiarativo della carenza di elementi idonei a giustificare il prosieguo delle indagini, riassumibile nella formula «infondatezza della notizia di reato» (articoli 408, 409 Cpp), sia nel momento della riapertura, condizionato dal presupposto, in fatto, dell'esigenza di nuove (altre, cioè, rispetto alle preesistenti) investigazioni ed assoggettato alla valutazione del giudice che deve provvedere con decreto motivato il quale, pare ovvio, deve dare conto della valutazione effettuata sulla richiesta, pur essa motivata, del pubblico ministero (articolo 414 Cpp). Né la richiesta può essere formulata sulla base di una semplice rilettura del materiale indiziario utilizzato per la declaratoria di infondatezza della notizia di reato, né il relativo decreto autorizzativo può limitarsi ad assentire una diverse valutazione di quel materiale, poiché l'articolo 414 prescrive una motivazione tipizzata, centrata sull'esigenza di nuove investigazioni. Le quali possono esitare anche in modesti risultati che, però, valutati unitamente al materiale preesistente - certamente utilizzabile - ben possono giustificare un sostanziale ribaltamento del quadro indiziario, secondo la regola propria al regime della prova indiretta espresso nell'antico brocardo quae singula non probant et unita probant. 12. Il primo effetto di tale meccanismo è che, una volta autorizzata la riapertura, il pubblico ministero provvede, ex articolo 414.2 Cpp, a nuova iscrizione nel registro degli indagati di cui all'articolo 335 s.c., sicché da tale momento iniziano a decorrere i termini indicati dall'articolo 405. Già questa condizione, fondata sul dato testuale, dimostra la valenza garantista che deve essere riconosciuta al provvedimento di archiviazione, come conseguenza operativa del sistema dei termini di chiusura delle indagini (articoli 405 commi 2 e 4 Cpp), di durata massima delle indagini (articolo 407 Cpp) con connessa normativa quanto a proroga (articoli 406 s.c.) e a sanzione d'inutilizzabilità dei risultati di indagini compiute al di là del tempo massimo (articolo 407.3). Siffatto, sistema sarebbe facilmente eluso se fosse rituale riesumare dall'archivio, in qualsiasi tempo, una data “pratica” e, senza passare attraverso il controllo del giudice (a sua volta “controllato” dall'obbligo di motivazione sull'esigenza d'ulteriore indagine), rimettere in moto il meccanismo investigativo colpendo la persona direttamente nel suo bene primario della libertà, com'è accaduto nella fattispecie all'esame della Corte; scavalcando, altresì, tutto il sistema di termini massimi (articolo 407) che resterebbe obliterato nella sua funzione. Non giova eccepire che il legislatore confida, nel disegnare il sistema procedimentale, sulla lealtà istituzionale e nella deontologia professionale degli operatori preposti alla gestione del processo, poiché ciò che qui rileva è l'argomento ermeneutico che deve trarsi dall'imprescindibile presupposto di coerenza logica del sistema processuale. Non è, all'evidenza, logico ritenere che il legislatore abbia predisposto un articolato e compiuto sistema di garanzie a difesa del cittadino e, poi, abbia lasciato sì ampi varchi attraverso i quali quelle garanzie potrebbero essere vanificate; ed anzi, collegando il dovere di azione investigativa alla regola di cui all'articolo 112 Costituzione, come qualche decisione tra quelle commentante avanti al § 8 ha evidenziato, persino dovrebbe accadere. 13. Quanto al meccanismo paralizzante, va accolta la nozione della preclusione endoprocedimentale quale fornita dalla prevalente giurisprudenza della Corte (ad es., Sez. VI, 28 gennaio 1997, Cappello, cit.) e formatesi, specialmente, in materia di procedimenti incidentali de libertate sfocianti in provvedimenti resi allo stato degli atti, di tal che l'effetto preclusivo, sempre di natura processuale, rende inammissibile la reiterazione di istanze tese a provocare un nuovo provvedimento che possa porsi in contrasto con altro già pronunciato sul medesimo oggetto, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta a base del primo provvedimento. Dal che si deduce che la delineata situazione processuale, pur non essendo parificabile a quella derivante dall'autorità della cosa giudicata, tuttavia esprime il dato negativo dell'impedimento all'esercizio di una facoltà, in costanza delle condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione; in sostanza, in una decadenza. Applicando tale regola all'archiviazione della notizia criminis si costituisce il sostegno sistematico alla regola sopra enunciata, con la precisazione che la modificazione della situazione sulla base della quale il provvedimento fu adottato deve essere certificata dalla decisione del giudice competente ad emettere il provvedimento motivato di cui all'articolo 414 Cpp su, ugualmente motivata, richiesta dei pubblico ministero che aveva sollecitato l'archiviazione. 14. Stabilito, dunque, che dal provvedimento di archiviazione consegue, per logica di sistema, una preclusione endoprocedimentale a qualsiasi iniziativa del pubblico ministero specificamente diretta ad attivare (riattivare) le indagini, in assenza delle sopra descritte condizioni modificative, si pone l'esigenza di ben delimitare l'ambito di operatività di tele preclusione. Tale delimitazione viene, essenzialmente, dall'analisi del concetto racchiuso nell'espressione «stesso fatto» in correlazione alla reciproca «fatto diverso», analisi appropriatamente sviluppata in plurime decisioni della Corte, sopra menzionate al § 7 (in particolare le sentenze su ricorso Taglieri, Bruno, Morici e Audino). La prima delimitazione che viene in immediata evidenza è quella connessa alla soggettività dell'ufficio d'accusa investito delle indagini e del suo referente giudice per le indagini preliminari. E' stato, infatti, evidenziato come l'interpretazione del sistema codicistico porta necessariamente alla conclusione secondo la quale non può definirsi «stesso fatto» quello in accertamento da parte di autorità investigativa diversa rispetto a quella operante presso il giudice che pronunciò il provvedimento di archiviazione. Come condivisibilmente esplicitano le sentenze sopra ricordate, la nozione di «stesso fatto», ai fini che qui interessano, comprende sia le componenti oggettive dell'addebito (condotta, evento, nesso di condizionamento eziologico), vale a dire il contenuto della notitia criminis sia gli aspetti esterni al fatto di reato, per tali intendendosi l'autorità che procede (o procedette) alla investigazione, essendo chiaro che l'effetto preclusivo, di cui si è parlato, condiziona solo la condotta dell'ufficio investigativo che chiese ed ottenne il decreto (o l'ordinanza) di archiviazione di quella notizia di reato e che, sopravvenendo ragioni di approfondimento delle indagini, può rivolgersi al suo giudice referente per chiedere ed ottenere il decreto di cui all'articolo 414 Cpp. Certo, ciò non potrebbe essere chiesto da un pubblico ministero diverso, per territorio, rispetto a quello che fu investito della richiesta di declaratoria della infondatezza della notizia di reato. E ciò a prescindere anche dalla considerazione, di puro fatto, che difficilmente un ufficio è in grado di conoscere l'attività svolta da un altro operante in diverso territorio. Sul punto, pertanto, può affermarsi che è estraneo al concetto di «stesso fatto» l'ipotesi di investigazioni condotte, ancorché specificamente, da altro ufficio di procura della Repubblica perché la preclusione procedimentale non può svolgere funzione impeditiva oltre l'ambito del rapporto pubblico ministero-giudice della data indagine preliminari. 15. Scendendo più in particolare, viene in evidenza il contenuto della notitia criminis, nelle sue già ricordate componenti oggettive dell'addebito (condotta, evento, nesso di casualità) ed in quelle soggettive, quindi, occorre verificare, da una canto, la identità del soggetto (o dei soggetti) nei cui riguardi fu già condotta investigazione conclusa con l'archiviazione, essendo chiaro che, non ricorrendo tale requisito, l'obbligo (dovere-potere) del pubblico ministero di procedere non subisce condizionamento alcuno; la stessa funzione garantista dell'istituto non ha ragione di esplicarsi. Occorre verificare, poi - il che può presentare aspetti più delicati e complessi - il contenuto della notizia di reato per saggiarne la medesimezza a confronto degli essenziali elementi costitutivi del reato: la condotta nei suoi risvolti di azione o omissione e connessi risvolti sull'elemento psichico; l'evento, nella sua essenzialità modificativa del mondo esterno (evento in senso naturalistico o di messa in pericolo) e, oppure o, secondo le teorie accettate, nella offesa (effettiva o esposizione a pericolo) dell'interesse protetto dalla norma; il rapporto di condizionamento tra la condotta (quella data condotta) e la produzione dell'evento, nel senso che questo non si sarebbe verificato senza quella. In mancanza di omogeneità tra uno o più dei descritti elementi, è chiaro che tra uno e più dei descritti elementi, è chiaro che trattasi non dello «stesso fatto» ma di «stesso diverso» e anche in tale ipotesi il potere dovere del pubblico ministero di investigare e poi di esercitare l'azione penale rimane integro e in nulla condizionato.Conclusivamente, dunque, deve affermarsi il principio per il quale è illegittima l'ordinanza impositiva di misura cautelare adottata nei confronti della stessa persona e fondata sullo «stesso fatto» contemplati da non rimosso (precedente) provvedimento di archiviazione, resa dallo stesso giudice della indagini preliminari che decretò l'archiviazione e su richiesta dello stesso pubblico ministero che la sollecitò.Alla luce di tale principio appare evidente l'errore di diritto nel quale il tribunale distrettuale de libertate di Catania incorse nel rendere la sua decisione di riesame in data 20 luglio 1999, come sopra impugnata, e, quindi, nel confermare l'ordinanza custodiale adottata dal giudice delle indagini preliminari del tribunale di Catania del 7 giugno 1999, che, invece, doveva essere giudicata illegittima e perciò annullata. Questa Corte, pertanto, per le spiegate ragioni, nell'accogliere il ricorso - assorbiti gli altri profili di denunzia di illegittimità - deve annullare, senza rinvio, l'ordinanza impugnata e l'ordinanza impositiva della cautela e ordinare l'immediata scarcerazione del ricorrente Finocchiaro Giuseppe Alfio se non detenuto per altra causa. Infine, la Cancelleria provvederà alle comunicazioni di cui all'articolo 626 Cpp. PTM la Corte, visti gli articoli 611, 615, 620, 626; annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e l'ordinanza impositiva della misura di cautela personale nei riguardi del ricorrente resa dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catania il 7 giugno 1999 e, per l'effetto dispone l'immediata scarcerazione del ricorrente Finocchiaro Giuseppe Alfio se non detenuto per altra causa; manda alla Cancelleria per le comunicazioni di cui all'articolo 626 Cp
|