Penale

Sfruttare una persona debole equivale a ridurre in schiavitù – CASSAZIONE PENALE, Sezione III, Sentenza n 3368 del 02/02/2005

Chi riduce o mantiene
una persona più debole in uno stato di soggezione continua, costringendola a
prestazioni lavorative o sessuali, all’accattonaggio o a prestazioni che ne
comportino lo sfruttamento rischia una condanna per il reato di riduzione in schiavitù.
Questo il principio stabilito dalla Terza Sezione Penale della Corte di
Cassazione, che ha delineato gli elementi costitutivi della nuova figura
criminosa, introdotta, modificando l’art.600 del codice penale, da una legge
del 2003 che richiama la Convenzione di Ginevra del 1926; tale convenzione
definisce come schiavitù il fatto di "esercitare su una persona i poteri
spettanti al proprietario", e quindi in sostanza il fatto di considerare
un essere umano come un oggetto di proprietà. La Suprema Corte ha in proposito
chiarito che il reato in questione si realizza anche approfittando dello stato
di necessità della vittima, da intendersi come ogni situazione di debolezza
materiale o morale.

 

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza
Penale, sentenza n.3368/2005

(Presidente: G. Savignano; Relatore: P: Onorato)

LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO

Con ordinanza del 6/10/2004 il Tribunale di
Milano ha confermato la misura cautelare della custodia in carcere disposta il
2/9/2004 dal gip dello stesso tribunale contro
F. C. G. per i seguenti reati:
reclutamento, induzione e agevolazione della prostituzione, commesso con
violenza (artt. 3, nn. 4 e 5, e 4 n. 1legge 75/1958); riduzione in stato di
schiavitù e servitù, commessa in danno di minore di anni diciotto e a scopo
di sfruttamento della prostituzione (art. 600, comma 1, 2 e 3, c.p.);
favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, commesso con violenza e
minaccia in danno di più persone (artt. 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 legge 75/1958).

Ha osservato il Tribunale che risultavano
gravi indizi di colpevolezza sulla base delle precise e coerenti dichiarazioni
delle persone offese, che si confermavano a vicenda ed erano riscontrate anche
dai risultati dei servizi di osservazione svolti dalla polizia giudiziaria e
dalle dichiarazioni rese da tale D. S., che aveva aiutato le giovani
M. e P. a sottrarsi al controllo
dei loro sfruttatori.

In particolare, per quanto riguarda il delitto di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p.,
recentemente riformulato ad opera della legge 11/8/2003 n. 228 [1]
, il
giudice del riesame ha messo in evidenza che la riduzione i uno stato di
soggezione continuativa, prevista e punita dalla norma, emergeva chiaramente
dalle dichiarazioni rese dalle suddette M. e P., le quali avevano descritto la
sistematica attività di violenza e di minaccia perpetrata dal G. al fine di
costringerle ad esercitare la prostituzione e approfittando del loro stato di
necessità, derivante dall’essere clandestine in Italia e senza passaporto,
sottratto loro dal medesimo G. appena erano giunte in territorio italiano.

Il G. ha proposto personalmente ricorso per
cassazione, deducendo due motivi a sostegno.

Col primo motivo lamenta una motivazione
apparente in ordine alla sussistenza del delitto di cui all’art. 600 c.p.,
giacchè il Tribunale sul punto ha omesso di indicare gli elementi fattuali in
base ai quali ha ritenuto integrato il delitto medesimo; con il secondo motivo
denuncia inosservanza o erronea applicazione dell’art. 600 c.p.

Premesso che la norma richiede una
interpretazione rigorosa, sostiene che lo stato di necessità previsto dal
secondo comma del predetto articolo va inteso nel senso indicato dall’art. 54
c.p., mentre il Tribunale lo ha fatto scorrettamente coincidere con lo stato di
straniero clandestino.

MOTIVI
DELLA DECISIONE

La legge 11/8/2003 n. 228, recante misure
contro la tratta delle persone, col suo art. 1, ha integralmente
ridefinito il reato di riduzione in schiavitù, sostituendo il previgente art.
600 c.p. con il seguente art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o in
servitù): chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del
diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno
stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o
sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo
sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.

La riduzione o il mantenimento nello stato di
soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia,
inganno abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità
fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o
la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla
persona.

La pena è aumentata da un terzo alla metà se
i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni
diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di
sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.

Il legislatore, nell’evidente intento di
conferire determinatezza alla fattispecie abrogata, che puniva genericamente
chiunque riduceva una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla
schiavitù, ha descritto analiticamente la condotta materiale del reato,
configurando un delitto a fattispecie plurima, che è integrato
alternativamente: dalla condotta di chi esercita su una persona poteri
corrispondenti a quelli spettanti al proprietario: è questo un reato di mera
condotta, parametrato sulla nozione di schiavitù prevista dall’art. 1 della
Convenzione di Ginevra del 25/10/1926, ratificata con r.d. 26/4/1928 n. 1723,
secondo il quale la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sui
quali si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi;
dalla condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione
continuativa, costringendola a prestazioni lavorative (es. servitù per debiti)
o a prestazioni sessuali, o all’accattonaggio o comunque prestazioni che ne
comportino lo sfruttamento (es. servitù della gleba): si tratta in questo caso
di un reato di evento a forma vincolata, in cui l’evento, consistente nello
stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate
prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante
violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento di una
situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità.

Il legislatore del 2003, nel definire
l’evento, riprende in parte la nozione di servitù per debiti quella di
servaggio o servitù della gleba definite rispettivamente nelle lettere a) e b)
dell’art. 1 della Convenzione supplementare di Ginevra del 7/9/1965, ratificata
con lege 20/12/1957 n. 1304.

Aggiunge pero’ l’accattonaggio e le
prestazioni sessuali.

Ma soprattutto richiede una condotta del
soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno, abuso di autorità,
o approfittamento di situazione di inferiorità o di necessità.

Lo stato di necessità come sopra previsto non
è una causa di giustificazione del reato, bensi’ un elemento della
fattispecie, e più precisamente un presupposto della condotta approfittatrice
dell’agente.

Percio’, contrariamente a quanto sostiene il
ricorrente, la nozione di necessità non corrisponde a quella precisata
nell’art. 54 c.p., ma è piuttosto paragonabile con la nozione di bisogno di
cui all’art. 1448 cod. civ. e va intesa come qualsiasi situazione di debolezza
o di mancanza materiale o morale, adatta a condizionare la volontà della
persona.

Infatti, come nel caso di rescissione del
contratto per lesione, nell’ipotesi di riduzione in schiavitù di cui si tratta
si verifica una sproporzione tra la prestazione della vittima e quella del
soggetto attivo, che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il
secondo approfitti per trarne vantaggio (si pensi proprio al caso di specie in
cui l’imputato ospitava nella sua casa le donne immigrate clandestinamente e,
approfittando del loro stato di precarietà, le costringeva a prostituirsi per
il suo vantaggio).

Tanto premesso, va respinto il secondo motivo
di ricorso (n. 2.2), giacchè correttamente il tribunale del riesame ha
ritenuto che le straniere M. e P.
versavano in uno stato di necessità, in quanto immigrate clandestine, private
per giunta del passaporto.

Di qui i gravi indizi di colpevolezza a carico
del G., il quale le costringeva alla prostituzione approfittando appunto del
loro stato di necessità, ma anche sistematicamente percuotendole e
minacciandole (anche di morte).

Anche la prima censura appare chiaramente
infondata, giacchè l’ordinanza impugnata ha puntualmente richiamato le
dichiarazioni delle persone offese, i risultati dei servizi di osservazione
della polizia giudiziaria e infine le dichiarazioni di tale D. S., da cui
risultavano in linea di fatto i comportamenti, di minaccia e violenza, tenuti
dal G. per costringere le donne alla prostituzione.

Il ricorso va quindi respinto.

Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Considerato il contenuto dell’impugnazione,
non si ritiene di comminare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa
delle ammende.

PQM

La Corte Suprema di cassazione rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att.
c.p.p. manda alla cancelleria per trasmettere copia della sentenza al direttore
dell’istituto penitenziario territorialmente competente.

Roma, 20/12/2004.

Depositata in Cancelleria il 2 febbraio 2005.

 

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