Amministrativa

Chi costituisce l’unico punto di riferimento per il malato ha diritto al riavvicinamento per assistere l’invalido – TAR LAZIO, Sezione I Quater, Sentenza n. 2387 del 01/04/2005

Il dipendente,
sia pubblico che privato, puo’ chiedere di essere trasferito per assistere un
parente portatore di handicap. Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio
ha accolto il ricorso di una agente della polizia penitenziaria contro il
Ministero della Giustizia- Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che
aveva respinto l’istanza di trasferimento che la donna aveva presentato per
poter prestare assistenza al genitore disabile. Secondo i giudici amministrativi
il ricorso è fondato in quanto l’amministrazione non ha valutato in modo
adeguato la documentazione allegata alla domanda di trasferimento. Il Tar ha
anche chiarito che il trasferimento in una sede più vicina alla residenza del
familiare invalido puo’ essere chiesto non solo quando il familiare presti
un’assistenza diretta, medica e morale (che , peraltro una persona che lavora
difficilmente potrebbe prestare con continuità), ma anche quando il familiare
svolga in modo costante l’attività di supervisione e di organizzazione delle
cure necessarie al parente malato, cosi’ da costituire per lui l’unico punto di
riferimento.

 


Tribunale
Amministrativo Regionale per il Lazio , Sezione I Quater, sentenza n. 2387/2005

Il Tribunale
Amministrativo regionale per il Lazio

Sez.I Quater

ha pronunciato la
seguente

SENTENZA

sul ricorso n.
9273/04, proposto dall’agente di polizia penitenziaria A. R., rappresentata e
difesa dagli Avvocati E. Tanno e A. D’Andrea ed elettivamente domiciliata presso
gli stessi in Roma, via Crescenzio, 9;

contro

IL MINISTERO
DELLA GIUSTIZIA ” DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, costituitosi
in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato,
domiciliataria ex lege presso la sede di roma, via dei Portoghesi, 12;

per
l’annullamento

del provvedimento
n. GDAP-0257347-2004 del 7.7.2004, notificato il 26.7.2004, con cui veniva
rigettata l’istanza di trasferimento, presentata ai sensi dell’art. 33 della
legge 5.2.1992, n. 104 ;

Visto il ricorso
con i relativi allegati;

Visto l’atto di
costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata;

Visti gli atti
tutti della causa;

Relatore, alla
pubblica udienza in data 10 gennaio 2005, il Consigliere G. De Michele, uditi
altresi’ gli Avvocati delle parti, come da verbale di udienza in data odierna;

FATTO

Attraverso il
ricorso in esame, notificato il 21.9.2004, si contesta il diniego opposto
dall’Amministrazione ad una istanza di trasferimento, presentata ai sensi
dell’art. 33, comma 5, della legge 5.2.1992, n. 104 .

Nel caso di
specie, l’istanza risulta respinta, in quanto "l’oggettiva lontananza, che
intercorre tra la sede di servizio ed il domicilio del disabile è considerata
ostativa, in senso sia spaziale che temporale, con riguardo alla continuità
dell’assistenza prestata".

Avverso la
predetta determinazione, nell’impugnativa vengono prospettati i seguenti motivi
di gravame:

violazione o
falsa applicazione

dell’art. 33 della legge n. 104/92[1]
,
nonchè delle circolari del Ministero della Giustizia nn. 12855/1.1 del
6.10.2000 e 0213520-2003 del 16.5.2003; violazione

dell’art. 3 della legge n.241/90 [2]
;
eccesso di potere per carenza di istruttoria, illogicità e contraddittorietà,
in quanto la lontananza fra la sede di lavoro del dipendente e il domicilio del
disabile non potrebbe essere ritenuta, in assoluto, ostativa per il
riconoscimento della continuità dell’assistenza, prestata al disabile stesso,
quanto meno sotto il profilo morale, ovvero psicologico e affettivo.

L’Amministrazione
intimata, costituitasi in giudizio, ribadisce l’avvenuto accertamento dei
requisiti di legge, nei termini di cui alla circolare n. 021352-2003 del
16.5.2003 e la rilevata assenza, nel caso di specie, dei requisiti della
continuità ed esclusività dell’assistenza. La continuità dell’assistenza,
infatti, implicherebbe "una effettiva e regolare presenza del dipendente presso
l’abitazione del familiare disabile, per attendere alle necessità quotidiane di
quest’ultimo".

DIRITTO

La questione
sottoposta all’esame del Collegio concerne i presupposti applicativi dell’art.
33, quinto comma, della legge 5.2.1992, n. 104, secondo cui "il genitore o il
familiare lavoratore, pubblico o privato, che assista con continuità un parente
o affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto a scegliere, ove
possibile, la sede più vicina al proprio domicilio e non puo’ essere trasferito
senza il suo consenso ad altra sede".

La norma in
questione ha come scopo primario quello di ampliare la sfera di tutela del
portatore di handicap, salvaguardando situazioni di assistenza in atto,
accettate dal disabile, "al fine di evitare rotture traumatiche e dannose",
entro limiti rimessi alla discrezionalità del legislatore, che puo’ ampliare o
restringere i limiti delle situazioni, considerate meritevoli della tutela in
questione (Corte Cost., 29.7.1996, n. 325).

Detta
discrezionalità è stata esercitata, in un primo tempo, riconoscendo il diritto
di cui si discute solo in caso di convivenza del dipendente con il portatore di
handicap, poi (nel testo della norma, modificato con legge 8.3.2000, n. 53)
anche al di fuori di tale circostanza, purchè comunque sussista il requisito
attuale della continuità dell’assistenza.

Giova
sottolineare, peraltro, che nella circolare n. 213520/2003 del 16.5.2003 si
indica come "termine tollerabile" di distanza, tale da non pregiudicare
l’espletamento del dovere di assistere il disabile, una lontananza di 90 Km. tra
la sede richiesta ed il luogo di residenza del disabile stesso (fatte salve,
ovviamente, possibilità di avvicinamento anche maggiori).

In tale contesto,
l’Amministrazione ha dettagliatamente indicato i presupposti soggettivi ed
oggettivi, richiesti per l’istruzione delle pratiche di cui trattasi, nei
termini di seguito riportati:

1) Riconoscimento
” da parte della competente Azienda Sanitaria Locale ” dell’handicap in
situazione di gravità dell’assistito;

2) insussistenza
di ricovero a tempo pieno di quest’ultimo presso strutture ospedaliere o simili;

3) relazione di
parentela o affinità entro il terzo grado con il dipendente;

4) continuità
dell’assistenza;

5) – 6)
inesistenza di altri parenti o affini che abbiano usufruito della medesima
normativa o siano comunque in grado di sopperire alle esigenze del portatore di
handicap;

6) gradimento del
disabile all’assistenza da parte del richiedente.

In presenza di
tutti i requisiti sopra indicati (che l’interessato deve attestare con idonea
documentazione), la legge attribuisce al dipendente un diritto condizionato –
ovvero, più propriamente, un interesse legittimo – ad ottenere in via di prima
assegnazione, o per trasferimento, una sede che consenta la prosecuzione del
rapporto di assistenza, purchè non ostino a tale assegnazione superiori
esigenze organizzative dell’Amministrazione (esigenze, per lo più
identificabili con la disponibilità di posti in organico nelle sedi richieste).

In base alla
disciplina legislativa, nonchè alle norme interne emanate per la relativa
attuazione, non puo’ in effetti ritenersi che "l’assistenza continuativa" ”
recepita dalla norma come presupposto per l’assegnazione di sedi di servizio, il
più possibile vicine alla residenza del disabile ” debba avere carattere
quotidiano ed esclusivo: è difficilmente immaginabile, infatti, che soggetti
impegnati in una attività lavorativa, non conviventi con il disabile ed
assegnati ad una sede di servizio distante 90 Km. dalla residenza del medesimo
possano fornire un’assistenza del tipo sopra indicato. Deve ritenersi, pertanto,
che la legge in via generale, e l’Amministrazione con disposizioni di dettaglio
(conformi, queste ultime, alla "ratio legis", ove si tenga conto dell’ampia
accezione del concetto di assistenza) abbiano preso a riferimento situazioni, in
cui il dipendente sia il fondamentale punto di riferimento per l’assistenza del
disabile, quanto meno sotto il profilo della costante organizzazione e
supervisione delle cure necessarie, delle buone condizioni di vita e delle
relazioni affettive, anche senza assumere necessariamente in proprio l’intera
effettuazione materiale dell’assistenza stessa.

La situazione
sopra descritta non puo’, comunque, prescindere da una frequente presenza fisica
del dipendente, a fianco del congiunto portatore di handicap, e da un suo attivo
coinvolgimento in ogni esigenza di vita del medesimo, di modo che non puo’
ritenersi sufficiente la mera intenzione di instaurare il rapporto di
assistenza, una volta ottenuto il trasferimento (con terminologia che non lascia
adito ad equivoci, infatti, il legislatore ” esercitando una discrezionalità
conforme al dettato costituzionale, nei termini di cui alla citata sentenza
della Suprema Corte n. 325/96 ” ha accordato la tutela in questione a chi già
"assista con continuità" e non anche chi inoltri la domanda a futuri fini
assistenzali).

Premesso quanto
sopra, appare anche evidente la necessità di valutazioni caso per caso, sulla
base della documentazione fornita dall’interessato e di considerazioni anche
presuntive, circa la consistenza degli elementi probatori da ritenere necessari.

In via generale,
di più agevole accertamento appare la situazione di chi abbia dovuto
interrompere una documentata situazione di assistenza, in atto al momento

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