Penale

Pubblicazione a mezzo stampa di fotografie raccapriccianti della scena di un delitto. – Cass. Sentenza Sezione III Penale n. 23356 dell’8 giugno 2001:


Corte
Suprema di Cassazione
Giurisprudenza Civile e Penale




Sentenza
n.23356 dell’8 giugno 2001

PUBBLICAZIONE A MEZZO STAMPA DI
FOTOGRAFIE RACCAPRICCIANTI DELLA SCENA DI UN DELITTO.

(Sezione Terza Penale –
Presidente A. Malinconico – Relatore A. Postiglione)

FATTO E DIRITTO

La Corte di Appello di Roma, con
sentenza in data 25/5/1998, in parziale riforma di quella del Tribunale
di Roma del 3/2/1995, condannava M. M., C. L.e L. C. a mesi tre di
reclusione L. 300 mila di multa per il reato di cui all’art. 15 legge n.
47/48.

La Corte riteneva manifestamente
infondata la questione di legittimità  costituzionale dell’art. 15 della
legge 8.2.1948 n. 47 – disposizioni sulla stampa -in relazione all’art.
25 della Costituzione, escludendo che la norma penale violi i principi
di tassatività  e determinatezza.

Nel merito la Corte riteneva che
tutti gli imputati (il Minerbi nella qualità  dí direttore del
Settimanale "Visto", il C. e C. L., quali autori
dell’articolo) si erano resi responsabili del reato, perchè, in
concorso tra loro e con un pubblico ufficiale non identificato, avevano
redatto e pubblicato un articolo sul n. 35, anno 3 del predetto
settimanale , intitolato "Nella villa del delitto",
corredandolo con tre fotografie a colori riproducenti le immagini del
cadavere della contessa A. F. D. T., cosí come era stata rinvenuta
nella casa all’Olgiata nella immediatezza dell’omicidio, perpetrato il
10/7/1991 con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce
sul corpo e sugli indumenti, delle nudità  del cadavere e delle modalità 
di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della
morale e l’ordine familiare.

Seconda la Corte l’elemento
oggettivo del reato sarebbe stato integrato dalla peculiarità  del caso,
considerata la natura delle immagini ed il carattere insistito e quasi
martellato dell’intero articolo, foto più testo", non giustificato
dal normale esercizio del diritto di cronaca.

Secondo la Corte il reato era
ascrivibile a tutti gli imputati, perchè le foto erano state certamente
viste anche dagli autori dell’articolo, per il preciso e puntuale
riferimento ad esse nel contenuto dell’articolo pubblicato sul
settimanale.

Contro questa sentenza gli
imputati hanno proposto ricorso per Cassazione, deducendo violazione di
legge, omessa ad erronea motivazione sotto vari profili:

a) la questione di legittimità 
costituzionale dell’art. 15 l. 47/48, in relazione agli artt. 3 e 25, 2°
comma Costituzione può porsi, perchè la norma penale opera un rinvio
cosi generico e vago al concetto di comune sentimento della morale da
rendere non solo difficile, ma impossibile definire l’oggetto giuridico
che la norma intende tutelare;

b) nel caso in esame trattavasi di
esercizio del diritto di cronaca e le immagini riproducevano un evento
reale ed andavano valutate nel contesto dell’articolo pubblicato e non
isolatamente, considerando anche l’elemento soggettivo degli autori
della pubblicazione, che intendevano esecrare il delitto e
rappresentarlo senza voler offendere il sentimento morale del pubblico;

C) doveva essere escluso il
concorso nel reato dei due giornalisti (L. C. e C. L.), perchè estranei
alla condotta di fabbricazione, pubblicazione e diffusione, imputabili
all’editore, che aveva fornito le foto incriminate.

Rileva la Corte che i ricorsi non
possono essere accolti. Occorre premettere che con la sentenza n.
293/2000 la Corte Costituzionale ha già  dichiarato non fondata la
questione di legittimità  costituzionale dell’art. 15 della legge 8
febbraio 1948 n. 47 (disposizione sulla Stampa), sollevato, in
riferimento agli artt. 3,21 sesto comma e 25 della Costituzione.

La Corte di Cassazione condivide
le argomentazioni della sentenza sopra indicata:

"L’art. 15 della legge n. 47
del 1948 dispone che si applichi l’art. 528 del codice penale ai fatti
riguardanti gli "stampati i quali descrivano o illustrino, con
particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente
verificatisi o anche soltanto immaginari .

La previsione penale esige, come
elemento della fattispecie legale, che tali stampati siano formati in
modo "da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine
familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o
delitti". Essa è all’esame di questa Corte per indeterminatezza,
violazione del principio di uguaglianza e indebita limitazione della
libertà  di stampa, ma soltanto nella parte in cui dispone che questi
stampati siano idonei a "turbare il comune sentimento della
morale".

L’art. 15 della legge sulla stampa
del 1948, esteso anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato
dall’art. 30, comma 2, della legge 6 agosto 1990, n. 223, non intende
andare al di là  del tenore letterale della formula quando vieta gli
stampati idonei a "turbare il comune sentimento della morale".
Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del
nostro tempo, ma anche alla pluralità  delle concezioni etiche che
convivono nella società  contemporanea. Tale contenuto minimo altro non
è se non in rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2
della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione
incriminatrice denunciata.

Solo quando la soglia
dell’attenzione della comunità  civile è colpita negativamente. e
offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari
impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità  di ogni essere
umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività , scatta la
reazione dell’ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell’uso
prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità  di un’attenta
valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non
possono ignorare il valore cardine della libertà  di manifestazione del
pensiero. Non per questo la libertà  di pensiero è tale da inficiare la
norma sotto il profilo della legittimità  costituzionale, poichè essa
è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità 
umana."

Non possono essere, perciò,
accolte le pur pregevoli osservazioni sollevate dalla difesa di M. M.,
perchè è bensí vero che la descrizione dell’elemento materiale del
fatto reato e della condotta è caratterizzata dal riferimento a
concetti elastici affidati alla prudente valutazione del giudice nel
caso concreto, ma non si può negare che nel nostro – come in altri
ordinamenti – il legislatore possa rinviare a concetti, che evolvono
secondo il costume sociale, ma attengono ad un bene giuridico reale,
ossia il comune sentimento della morale e della dignità  umana tutelata
dall’art. 2 della Costituzione che l’esercizio del diritto di cronaca,
pur pienamente legittimo in una società  democratica ed aperta, deve
salvaguardare come valore comune, non solo per un dovere di deontologia
professionale ma – in casi estremi – per un dovere giuridico.

Nel merito la sentenza impugnata
ha motivato in modo corretto e coerente in relazione al caso:

Le immagini della vittima
dell’omicidio sono infatti tali da destare impressione e raccapriccio
nell’osservatore di normale emotività , improntato ad impulsi di
solidarietà  umana, pietà  per la defunta, rispetto per la sua spoglia,
repulsione istintiva verso le ferite efferatamente impresse, senso di
dignità  della persona già  uccisa in quel modo ed ulteriormente
oltraggiata dalla pubblica ostensione del suo corpo, naturale esigenza
di riservatezza verso l’intimità  fisica personale rinforzata dalla
condizione mortale del soggetto: insomma tutto quel complesso dí valori
spirituali e sociali che, avvertiti come tali dalla comunità  con
immediatezza di consenso, costituiscono quello che secondo l’art. 15
cit. è il comune sentimento della morale ed intende salvaguardare dal
pericolo di turbamento insito in un particolare modo eccessivo e
socialmente inadeguato dell’informazione, cosi rispecchiando valori
costituzionali che controbilanciano il diritto alla libera
manifestazione del pensiero e perciò costituiscono limiti interni
all’esercizio del diritto medesimo. Ciò posto non hanno alcun
fondamento due specifiche argomentazioni del gravame: non quella che
secondo l’interpretazione fatta propria dal Tribunale per l’integrazione
del reato basterebbe la semplice fotografia di un cadavere, perchè,
mentre nessun raccapriccio può indurre la visione di una persona
deceduta per cause naturali, qui si versa in una ipotesi ben diversa – e
neppure quella secondo cui l’attuale bombardamento mediatico avrebbe
indotto una tale assuefazione da far mutare il comune sentimento della
morale, perchè tale affermazione deve comunque misurarsi con la
peculiarità  del caso, e cioè con il carattere insistito e quasi
martellato che presenta l’intero articolo (foto più testo)."

Trattasi di valutazione – sullo
specifico caso concreto – che esulano dalla sfera del giudice di
legittimità .

Egualmente incensurabile, perchè
correttamente motivata, è la decisione della Corte di Appello di Milano
in ordine alla piena consapevolezza e volontarietà  di tutti gli
imputati (Direttori e giornalisti) di pubblicare un articolo integrato
da fotografie estremamente crude sulla persona uccisa, fotografie che
anche gli autori dell’articolo avevano visto.

Per la configurabilità  del reato
in oggetto non è necessario un dolo specifico, essendo sufficiente la
consapevolezza e volontarietà  della condotta.

Come è stato precisato nella
sentenza impugnata per quanto riguarda la configurabilità  dell’esimente
di cui all’art. 51 cod. pen. in relazione all’art. 21 Costituzione è
noto che il diritto di cronaca, come ogni diritto, si definisce per
mezzo dei suoi stessi limiti, che consentono di precisarne il contenuto
e di determinare l’ambito di esercizio. Tali limiti secondo il costante
insegnamento della giurisprudenza di legittimità  (ad es. Cass. V, n.
7632 del 6/7/92, Melchiorre) sono costituiti tra l’altro dalla
pertinenza del fatto narrato, e cioè dall’oggettivo interesse che il
fatto riveste per l’opinione pubblica e dalla correttezza con cui il
fatto viene esposto (cosiddetta continenza), essendo estraneo
all’interesse sociale, che giustifica la discriminante in parola, ogni
inutile eccesso.

Poichè dalla sentenza impugnata
non emergono in modo evidente cause di non punibilità  ex art. 129 cod.
pen. , ma anzi è stata motivata la penale responsabilità  degli
imputati, la Corte deve dichiarare estinto il reato perchè è decorso
il termine massimo di prescrizione (a partire dalla pubblicazione
dell’articolo nell’agosto 1991).

Vanno, invece, confermate le
statuizioni civili.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte

Annulla senza rinvio la sentenza
impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

Conferma le statuizioni civili.

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