GiurisprudenzaPenale

Non viola gli obblighi di assitenza il genitore che non versa gli alimenti perchè in stato di indigenza – Cassazione penale, Sentenza n. 6597/2011

Il legislatore, attraverso la tutela penale apprestata dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., ha inteso garantire al minore di età una ragionevole e sostanziale costanza temporale e quantitativa delle necessarie risorse atte a assicurargli i mezzi di sussistenza, ovvero di ciò che è strettamente indispensabile per vivere nel momento storico in cui il fatto avviene (quali il vitto, l’abitazione, i canoni per le ordinarie utenze, i medicinali, il vestiario, le spese per l’istruzione). Pertanto, non sussiste alcuna interdipendenza tra l’obbligazione tutelata in sede penale e l’assegno liquidato dal giudice civile, che mira invece ad un più ampio soddisfacimento delle esigenze del figlio minore.
Presupposto del reato in esame è comunque lo stato di bisogno del soggetto passivo, che nel caso di figli minori sussiste in via fondatamente presuntiva in re ipsa, stante la naturale impossibilità di costoro provvedere autonomamente al proprio sostentamento. É inoltre principio consolidato che, anche quando alla somministrazione dei mezzi di sussistenza provveda l’altro genitore, lo stato di bisogno del minore non venga meno.
Sotto altro verso, va aggiunto però che l’ipotesi di reato in esame si realizza solo se sussista la concreta capacità economica dell’obbligato a fornire i mezzi d sussistenza (Nella specie la Cassazione ha escluso la responsabilità penale del genitore il quale aveva dimostrato la pendenza in suo danno di un pignormaneto dello stipendio che aveva ridotto la sua effettiva capacità economica. Inoltre e la compresenza di analoghi obblighi di mantenimento verso altri figli poneva l’imputato nella impossibilità di far fronte ai propri impegni)

(Litis.it, 25 Febbraio 2011)

Cassazione Penale, Sezione Sesta, Sentenza n. 6597 del 22/02/2011
(Presidente, De Roberto – Relatore, Calvanese)

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 14 maggio 2009, la Corte di appello di Ancona confermava la sentenza del Tribunale di Macerata, sez. dist. di Civitanova Marche, con la quale era stato dichiarato [OMISSIS] colpevole del reato di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., per aver fatto mancare al figlio minore i mezzi di sussistenza, e condannato alla pena di mesi quattro di reclusione e ed Euro 600 di multa, con i benefici di legge.

Esponevano in fatto in giudici di merito che, con sentenza del 30 dicembre 2000, il Tribunale per i minorenni aveva dichiarato l’imputato padre naturale di [OMISSIS], nato nel XXXX, ponendo a suo carico il versamento in favore del minore di un assegno mensile di mantenimento di 500.000 lire. L’imputato non aveva versato la somma stabilita e la madre del minore aveva avviato nei suoi confronti una procedura esecutiva presso il datore di lavoro conclusasi con la cessazione del rapporto di lavoro, mentre i successivi pignoramenti eseguiti presso la nuova ditta datrice di lavoro non avevano soddisfatto il credito vantato dal minore.

La Corte di appello riteneva pacifico che l’imputato si fosse sottratto all’obbligo di mantenimento del figlio minore, tenuto conto che le parate esecuzioni mobiliari presso terzi non avevano soddisfatto che parzialmente il credito derivante dalla sentenza del Tribunale per i minorenni, passata in giudicato perché non appellata dal [OMISSIS]. Giudicava a tal fine irrilevanti per l’esclusione della responsabilità penale le circostanze addotte da quest’ultimo per giustificare il mancato versamento, quali in particolare le difficoltà economiche in cui si era venuto a trovare per il pagamento dei notevoli arretrati derivati dalla durata del procedimento di riconoscimento della paternità e per il contemporaneo mantenimento di altri due figli nati da matrimonio.

Quanto all’accumulo degli arretrati, i Giudici di appello sottolineavano che l’imputato non poteva dolersene in quanto vi aveva dato causa, opponendosi al riconoscimento e obbligando la madre del minore a costose procedure esecutive per ottenere la soddisfazione di quanto attribuitole con la sentenza del Tribunale per i minorenni. Il totale inadempimento dimostrava inoltre – ad avviso dei giudici – la pervicacia di non voler neppure parzialmente adempiere ad una obbligazione riconosciuta con sentenza definitiva, dall’imputato mai contestata.

La Corte di appello infine considerava sussistente in re ipsa lo stato di bisogno del minore, essendo ininfluente la eventuale somministrazione dei mezzi di sussistenza da parte della madre.

2. Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo:
– la totale carenza di motivazione in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dalla testimonianza della madre della parte civile in ordine allo stato di bisogno in cui versava il minore;
– la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui esclude l’incapacità economica dell’imputato di provvedere a contribuire, nei limiti indicati dal giudice civile, al mantenimento del figlio minore, essendo emerso nel corso del giudizio di merito che costui si era trovato a dover far fronte con il solo stipendio di mille Euro ad una azione esecutiva per il pagamento di una esorbitante somma per arretrati e al mantenimento per Euro 619,75 di altre due figli, come stabilito da distinto giudizio civile dal Tribunale di Ancona;
– la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui definisce l’impossibilità di adempiere l’obbligo di mantenimento come “pervicacia di non voler neppure parzialmente adempiere”;
– la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine al requisito dello stato di bisogno del minore, difettando ogni accertamento al riguardo.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito precisati.

2. Con l’atto di appello, l’imputato aveva censurato la sentenza in prime cure per non aver preso in considerazione la sua situazione economica, essendosi limitata a sostenere la sua capacità economica solo in considerazione del reddito percepito quale dipendente di una ditta di appalti e non valutando affatto la situazione di grave difficoltà economica in cui si era venuto a trovare. In particolare, aveva evidenziato che, appena emessa la sentenza dichiarativa del riconoscimento di paternità, la madre del minore aveva avviato nei suoi confronti un’azione esecutiva per l’ottenimento dell’intera cifra degli arretrati riconosciuti dal giudice (nella specie, oltre 52 milioni di lire); che tale azione aveva portato al pignoramento del suo stipendio (all’epoca di circa 1.500.000 lire); che a tale azione si erano poi innestate altre azioni di pignoramento della madre del minore per l’ottenimento del pagamento dell’assegno mensile di mantenimento; che infine, a seguito di separazione dalla moglie a causa del riconoscimento del figlio naturale, doveva corrispondere anche ad altri due figli l’assegno di mantenimento.
Orbene, questa prospettazione difensiva non risulta correttamente apprezzata dalla Corte di merito.

3. Deve premettersi che il legislatore, attraverso la tutela penale apprestata dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., ha inteso garantire al minore di età una ragionevole e sostanziale costanza temporale e quantitativa delle necessarie risorse atte a assicurargli i mezzi di sussistenza, ovvero di ciò che è strettamente indispensabile per vivere nel momento storico in cui il fatto avviene (quali il vitto, l’abitazione, i canoni per le ordinarie utenze, i medicinali, il vestiario, le spese per l’istruzione). Pertanto, non sussiste alcuna interdipendenza tra l’obbligazione tutelata in sede penale e l’assegno liquidato dal giudice civile, che mira invece ad un più ampio soddisfacimento delle esigenze del figlio minore.
Presupposto del reato in esame è comunque lo stato di bisogno del soggetto passivo, che nel caso di figli minori sussiste in via fondatamente presuntiva in re ipsa, stante la naturale impossibilità di costoro provvedere autonomamente al proprio sostentamento. É inoltre principio consolidato che, anche quando alla somministrazione dei mezzi di sussistenza provveda l’altro genitore, lo stato di bisogno del minore non venga meno.
Sotto altro verso, va aggiunto però che l’ipotesi di reato in esame si realizza solo se sussista la concreta capacità economica dell’obbligato a fornire i mezzi d sussistenza.

4. Ciò premesso, non vi è, nella sentenza impugnata, una disamina precisa sul dedotto stato di bisogno in cui si sarebbe trovato il ricorrente già al momento in cui giuridicamente era sorta l’obbligazione del mantenimento del figlio minore.

Risulta invero pacifico che l’imputato disponesse all’epoca dei fatti quale unica fonte di reddito lo stipendio di circa 1.500.000 lire (cfr. la sentenza di primo grado). A fronte di tale dato obiettivo, non poteva essere circostanza ininfluente che, all’insorgenza dell’obbligazione di mantenimento e non – come erroneamente riferisce il giudice di appello – a causa di un pregresso inadempimento, il ricorrente sia stato immediatamente interessato da un’azione esecutiva da parte della madre del minore per ottenere l’integrale pagamento degli arretrati riconosciuti dalla sentenza dichiarativa della paternità naturale, attraverso il pignoramento presso la ditta datrice di lavoro delle retribuzioni, delle indennità di fine rapporto e di altri emolumenti. Né poteva essere del tutto obliterata la circostanza che l’imputato dovesse anche mantenere altri due figli, come disposto dal giudice civile a seguito della separazione dalla moglie, proprio a causa dell’avvenuto riconoscimento.

Se il recupero forzoso della somma non veniva ex se ad elidere l’obbligo dell’imputato nei confronti del figlio minore di somministrazione dei mezzi di sussistenza, tale circostanza, rapportata alla sua effettiva capacità economica e alla compresenza di analoghi obblighi di mantenimento, avrebbe imposto un accurato e serio accertamento sulla concreta possibilità dell’imputato di far fronte ai propri impegni.

Appare invero del tutto illogica la motivazione della sentenza impugnata là dove considera colpevole e non meritevole di considerazione la esposizione debitoria del ricorrente per il solo fatto di essersi opposto al riconoscimento giudiziale di paternità, non valutando né il suo comportamento processuale (l’imputato si era sottoposto al test del DNA per l’accertamento della paternità e una volta avuto l’esito di tale esame non aveva neppure impugnato la sentenza dichiarativa del riconoscimento) né la sua disponibilità a concordare con la madre del minore la cessazione della più gravosa azione esecutiva con il versamento al minore di un assegno confacente ai suoi bisogni di vita.

Non risulta tra l’altro neppure quantificato l’ammontare effettivo della somma degli arretrati recuperata dalla madre del minore attraverso il pignoramento dello stipendio del ricorrente (che la stessa afferma ancora persistere nella forma del prelievo mensile alla data del dibattimento), al fine di accertare se tale introito avesse comunque consentito al minore di ottenere dal padre naturale – quant’anche forzosamente – i mezzi indispensabili per vivere (si legge nella sentenza che le parate esecuzioni mobiliari avrebbero soddisfatto “parzialmente” il credito derivante dalla sentenza del Tribunale per i minorenni).

5. Le considerazioni sin qui svolte, che assorbono le restanti doglianze, impongono l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Perugia per nuovo giudizio.
Il Giudice del rinvio dovrà nuovamente valutare, alla luce dei rilievi sopra formulati, la sussistenza del reato ascritto all’imputato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Perugia per nuovo giudizio.

Depositata in cancelleria il 25 febbraio 2011

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