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Regime giuridico del materiale di scavo preordinato ad opere pubbliche – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3603/2011

Consiglio di Stato, Sezione Quinta, Sentenza n. 3603 del 14/06/2011

Il Comune di Ferno impugnava dinanzi al TAR per la Lombardia i provvedimenti regionali che, sottraendo al regime autorizzatorio di cui all’art. 52 della L.R. n. 18 del 1982 il materiale inerte proveniente dagli scavi effettuati nell’ambito dei lavori diretti ad attuare il progetto “Malpensa 2000”, avrebbero precluso all’Amministrazione comunale ricorrente la possibilità di pretendere il pagamento delle somme corrispondenti agli oneri connessi al predetto regime autorizzatorio.

Si costituivano in giudizio in resistenza al gravame la Regione Lombardia e la S.E.A..

Con la sentenza n. 140 del 1999 il T.A.R. respingeva il ricorso.

Avverso tale pronuncia il Comune proponeva il presente appello, insistendo nelle proprie censure e criticando le argomentazioni con cui la sentenza appellata le aveva disattese.

Si costituivano in resistenza all’impugnativa anche in questo grado la Regione Lombardia e la S.E.A., oltre che, con memoria di stile, la società p.a. Garboli Conicos.

Le resistenti difese, ed in particolare quella della S.E.A., eccepivano la inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, e soprattutto la sua infondatezza nel merito, ribadita anche in sede di replica.

Le tesi dell’appellante venivano a loro volta approfondite, anche mediante controdeduzioni alle obiezioni avversarie, con successive memorie, con le quali si insisteva per l’accoglimento dell’appello.

Alla pubblica udienza del 5 aprile 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

Si può prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse opposta dalla difesa della S.E.A. in quanto l’appello è chiaramente infondato.

1 Giova preliminarmente ricordare il ragionamento seguito dal primo giudice con la sentenza appellata.

La controversia richiede di verificare il regime giuridico del materiale di scavo preordinato ad opere pubbliche, a seguito del succedersi in materia di varie disposizioni normative.

Il presupposto del regime autorizzatorio regionale (e, conseguentemente, del diritto dei Comuni interessati di riscuotere gli oneri allo stesso regime connessi), ha rilevato il Tribunale, è costituito dalla possibilità di mantenere la classificazione del materiale inerte proveniente dagli scavi tra i c.d. residui. E questa possibilità va valutata, naturalmente, al momento delle determinazioni regionali impugnate.

Nell’originario impianto normativo, in assenza di una specifica classificazione e disciplina nazionale che lo riguardasse, il materiale inerte di scavo rientrava in una generica nozione di residui, che era soggetta, in forza della L.R. n. 181982 (come modificata dalla L.R. n. 31990), a regime autorizzatorio, con conseguenti oneri a favore del Comune.

In seguito, tuttavia, per effetto delle nuove norme statali subentrate (la sequenza dei dd.ll. a partire dal n. 443 del 1993, e passando per il n. 2791994, con effetti fatti da ultimo salvi con la legge n. 575 del 1996) si è instaurato un regime giuridico nazionale innovativo e compiuto in materia di residui.

La nuova disciplina ha esplicitamente escluso dall’ambito della disciplina dei residui i materiali quotati in listini e mercuriali ufficiali, sottraendo pertanto il riutilizzo di simili beni, come gli inerti commerciali in questione, al regime dei residui.

Il D.M. 5 settembre 1994 ha poi confermato l’esclusione dal regime comune dei residui (e dal campo di applicazione degli obblighi recati dal d.l. n. 4381994) dei materiali contenuti nell’elenco di cui al proprio Allegato 1, tra cui figurano appunto gli inerti in discussione.

Per effetto del nuovo quadro normativo, gli inerti di cui si controverte non possono più essere considerati dei residui, e devono per ciò stesso considerarsi sottratti al previgente regime autorizzatorio regionale che ai residui, appunto, si riferiva.

Né può accedersi alla tesi (concludeva il T.A.R.) che l’esclusione degli inerti da scavo dal nuovo regime dei residui determinerebbe la reviviscenza della previgente disciplina regionale, la quale, per il fatto di prevedere un regime autorizzatorio, sarebbe irragionevolmente più gravosa di quella delineata come generale dalla nuova normativa, per la quale è prevista una semplice comunicazione (art. 5 d.l. n. 2791994).

2 L’itinerario logico tracciato dalla sentenza impugnata può essere nella sostanza condiviso, tenuto anche nel debito conto il fatto che la presente controversia verte sulla verifica di fondatezza della pretesa del Comune ricorrente di continuare a vedere applicato, in materia, il disposto dell’art. 52, comma 3, della L.R. n. 181982, esito che invece è stato comunque escluso, pur all’esito di ricostruzioni non del tutto coincidenti, sia dalla Regione Lombardia, attraverso gli atti originariamente impugnati, sia dal primo giudice, con la pronuncia che li ha confermati.

Secondo le esatte considerazioni svolte a suo tempo dall’Amministrazione regionale, la commercializzazione dei materiali di risulta da grandi opere di cui all’art. 52, comma 3, della L.R. n. 181982 era stata investita dall’impatto dei decreti legge susseguitisi in materia di residui, i quali assoggettavano le diverse fasi di utilizzo –tra gli altri, – dei residui riconducibili al punto 6 dell’Allegato 1 al D.M. Ambiente 2611990 (inclusivo dei residui provenienti da scavi, costruzioni e demolizioni) al nuovo regime dell’autodenuncia, in luogo della comune autorizzazione amministrativa.

La nuova e compiuta disciplina statale così introdotta per gli inerti dalla decretazione d’urgenza non poteva quindi non impedire con immediatezza ogni ulteriore applicazione dell’art. 52 della L.R. n. 181982, che subordinava invece la commercializzazione dei materiali in discorso all’autorizzazione prevista dalle procedure relative all’attività di cava. Anche perché tale articolo era stato aggiunto alla L.R. n. 18 dalla L.R. n. 31990 per regolare l’utilizzo dei materiali di scavo destinati (alle discariche o) alla commercializzazione proprio in attesa di una disciplina statale della materia.

Più articolatamente, infatti, come ha osservato la difesa di SEA, sia che agli inerti da scavo si applicasse la disciplina ordinaria dei residui destinati al riutilizzo, sia che li si sottoponesse alla disciplina speciale dettata per gli inerti commerciali (discipline entrambe introdotte per la prima volta con il d.l. n. 4431993, che lasciava invece sottoposto al d.P.R. n. 9151982 il trattamento dei residui non destinati al riutilizzo), per i medesimi era previsto nel primo caso solo una peculiare procedura semplificata di autodenuncia, addirittura nel secondo caso anch’essa abolita, e quindi, in definitiva, l’uno e l’altro regime si rivelavano incompatibili con il regime autorizzatorio previgente delineato dalla L.R. n. 181982.

In seguito è intervenuto il D.M. 591994, che, in attuazione degli artt. 2 e 5 del d.l. n. 4381994, ha identificato i materiali esclusi dall’applicazione del d.l. in materia di residui. Esso ha incluso gli inerti in discussione, che sono tra i materiali quotati in borse merci o listini mercuriali ufficiali, fra gli elementi di cui al proprio Allegato 1.

Già prima, peraltro, lo stesso d.l. n. 443 del 1993 escludeva dal proprio ambito di applicazione (come ha ricordato il primo Giudice) il riutilizzo degli inerti quotati con precise specifiche merceologiche, salvo rimettere ad un successivo decreto ministeriale l’individuazione di quelli che sarebbero rimasti definitivamente esclusi, e di quelli, invece, la cui esclusione sarebbe venuta meno.

L’avvento del D.M., pertanto, non ha apportato alcuna radicale modifica alla nuova disciplina statale che era intervenuta sulla materia oggetto di controversia. In forza di questa disciplina gli inerti provenienti da scavi di opere, a seguito della loro individuazione quali materiali quotati in appositi listini, non sono più stati considerati residui, nel senso che sono stati esclusi dall’applicabilità della comune normativa concernente questi ultimi.

Il legislatore nazionale ha invero operato un’univoca scelta intesa a sottrarre il riutilizzo di inerti commerciali ad ogni forma di controllo preventivo, vuoi nella forma ordinaria dell’autorizzazione, vuoi in quella semplificata del mero obbligo di comunicazione, valida solo per gli ordinari inerti destinati al riuso (ma privi del predetto carattere spiccatamente commerciale discendente dall’essere quotati), prevedendo per i prim una completa liberalizzazione.

Una volta sottratti al campo di applicazione del d.l. in materia di residui, non sarebbe allora più possibile tornare a ritenere i materiali in discorso soggetti, come se nulla fosse, alla procedura autorizzatoria che era stata precedentemente prevista per i residui dal legislatore regionale (cui il precedente legislatore statale del 1988 aveva affidato la disciplina delle loro modalità di utilizzo).

3 Orbene, l’impostazione seguita dall’appellante è conforme alla prima parte del ragionamento fin qui esposto, convergendo, segnatamente, con l’opinione regionale della prevalenza, sull’art. 52 della L.R. n. 181982, delle disposizioni della decretazione d’urgenza sull’applicabilità agli inerti della procedura semplificata di autocertificazione (cfr. le pagg. 7 e 11 e dell’atto di appello).

La divergenza tra le parti nasce invece da ciò, che ad avviso del Comune di Ferno sarebbe stato privo di fondamento mantenere tale valutazione di prevalenza in danno dell’art. 52 cit. una volta che, con l’emanazione del D.M. 591994, gli inerti provenienti da scavi erano stati espressamente esclusi dalla disciplina di riuso dei residui.

L’avvento di quest’ultimo D.M. avrebbe, dunque, comportato la rimozione di ogni ostacolo all’applicazione, per reviviscenza, dell’art. 52 della L.R. n. 181982.

Il regime autorizzatorio da questo contemplato rinverrebbe, difatti, il proprio fondamento nella potestà legislativa regionale in materia di attività estrattive di cava, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, stanti il contenuto della relativa norma e la sua collocazione nell’ambito di una legge dedicata, appunto, alla disciplina delle cave.

In via subordinata, il Comune appellante deduce che l’art. 52 cit., ove non riferibile alla competenza legislativa regionale in materia di cave, potrebbe alternativamente legittimarsi sul fondamento costituito dall’art. 2 del d.l. n. 3971988, convertito con la legge n. 4751988, che demandava alla legislazione regionale la disciplina delle modalità per il controllo dell’utilizzazione delle materie prime secondarie e per il loro trattamento.

4 Questa impostazione, come si è anticipato, non può però essere condivisa.

Osserva la Sezione che l’art. 52 cit., immesso nella L.R. n. 181982 solo con la L.R. n. 31990, non evidenzia nel suo comma 3 alcuna specifica connessione con la materia delle cave. Esso, limitandosi a disporre che “Qualora i materiali di risulta di grandi opere non vengano trasportati a pubbliche discariche ma vengano commercializzati, tale procedura deve essere autorizzata dalla Giunta regionale ai sensi del presente comma”, adopera, sì, una procedura autorizzatoria prevista in tema di cave, ma lo fa per una finalità e una materia che trascendono il relativo ambito.

A riprova di ciò, pochi mesi dopo, la L.R. n. 511990, all’art. 9, perseguendo il fine di dettare indirizzi per il controllo dell’utilizzo delle materie prime secondarie in applicazione dell’art. 2, comma 6, della legge statale n. 475 del 1988 (che affidava appunto alle Regioni la disciplina delle modalità di controllo dell’utilizzo delle materie prime secondarie), ha stabilito che, qualora la materia prima secondaria sostituisca materiali inerti provenienti da attività estrattiva di cava o miniera, “le procedure autorizzative per il riutilizzo sono quelle previste dall’art. 18 della legge Regionale 2 gennaio 1990 n. 3” (alias, l’art. 52 L.R. n. 181982).

Con questa innovazione, la cui importanza non è sfuggita alla difesa regionale, la regola dell’art. 52 comma 3, quale che fosse la sua originaria natura, è stata in ogni caso riqualificata quale norma regionale sul riutilizzo di materie prime secondarie.

Questa considerazione induce a guardare alla procedura autorizzatoria di cui si discute come ad un aspetto della normativa regionale sui residui, come tale inevitabilmente poi superato dalle dinamiche successive della legislazione statale concernenti i medesimi Il rilievo varrebbe quindi a superare la tesi del Comune secondo cui, invece, l’art. 52 sarebbe stato espressione della potestà legislativa regionale in materia di cave.

Ma quand’anche ci si muovesse in aderenza a quest’ultima configurazione, quella privilegiata dall’appellante, il risultato ai fini di causa non cambierebbe.

Una volta varata la nuova disciplina statale che includeva anche gli inerti in questione nel perimetro concettuale dei rifiuti, sia pure per sottoporli ad un regime liberalizzato, sembra chiaro come i primi non potessero, nel contempo, tornare ad essere regolati anche sub specie di risultati ordinari di un’attività estrattiva di cava.

Questa, tra l’altro, come è stato ben puntualizzato da SEA, ha una tipicità sua propria quale specifica attività di impresa. E mette conto ricordare che questo Consiglio, in una coeva vicenda simile, in presenza di lavori di escavazione compiuti per la realizzazione di un’opera pubblica, ha già avuto modo di escludere che la relativa attività estrattiva potesse essere soggetta al prelievo previsto dagli artt. 1, 12 e 31 della L.R. n. 181982, proprio in ragione della sua non riconducibilità all’attività di coltivazione di cave prevista dalla stessa fonte regionale (C.d.S., VI, 15 dicembre 2009, n. 7929).

La soluzione anticipata tanto più si impone se si ha riguardo al chiaro conflitto esistente tra la volontà liberalizzatrice espressa, in attuazione dei principi della decretazione d’urgenza, dal D.M. 591994, ed il generalizzato regime autorizzatorio previsto invece dalla legge regionale n. 18.

Donde la non condivisibilità dell’idea che per effetto del D.M. testé citato potesse risorgere una disciplina regionale previgente che riguardava effettivamente gli stessi materiali, ma in un contesto normativo affatto diverso e contingente.

La ricorrente senza fondamento pretende, quindi, di vedere nuovamente sottoposti alla primitiva disciplina regionale sui residui dei materiali che, per espressa previsione normativa nazionale, erano stati ormai esclusi dall’applicabilità delle comuni regole in materia di residui, e liberalizzati.

Merita invero di essere ribadito che la tesi, del Comune di Ferno, che l’esclusione degli inerti da scavo dal nuovo regime dei residui avrebbe determinato la reviviscenza della previgente disciplina regionale, porterebbe all’assurdo che in forza di quest’ultima, che prevedeva un regime autorizzatorio, gli inerti commerciali sarebbero stati sottoposti ad un regime irragionevolmente più gravoso di quello delineato come generale dalla nuova normativa, che prevedeva una semplice comunicazione.

Una conclusiva indicazione ermeneutica che depone anch’essa, benché da un’angolazione del tutto diversa, per la non condivisibilità del ragionamento proposto dalla ricorrente si riallaccia, infine, alla nozione comunitaria di “rifiuto” e al principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Come questo Consiglio ha avuto modo di ricordare (Sez. VI, 5 dicembre 2002, n. 6657), “E’ ius receptum nel diritto comunitario che la nozione di rifiuto ai sensi delle direttive 75/442 e 78/319 non deve intendersi nel senso che escluda le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (Corte Giustizia CE 28/3/1990 cause riunite 206/88 e 207/88 Vessoso-Zanetti nonché Corte di Giustizia CE 18/4/1992 causa 9/00 Palin Granit e Vehmassalonkansanterveyon).

Di recente, confermando tale orientamento, si è statuito che: “la nozione di «rifiuti» figurante all’art.1 della direttiva del consiglio 15 luglio 1975 n.75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del consiglio 18 marzo 1991 n.91/156/CEE, cui rinviano l’art.1 n.3, della direttiva del consiglio 12 dicembre 1991 n.91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e l’art.2, lett. a), del regolamento (CEE) del consiglio 1º febbraio 1993 n.259, relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all’interno della comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio, non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati; … ” (Corte giustizia Comunità europee, 25.6.1997, nn.304, 330, 342/94, 224/95 Tombesi). …

Il Governo italiano, per diversi anni, attraverso l’emanazione di successivi decreti legge, oltre che aver fatto ricorso all’espediente terminologico di definire i rifiuti riutilizzabili e/o recuperabili residui ha disposto una blanda disciplina per la loro regolamentazione ed il riutilizzo, disciplina sostanzialmente derogatoria rispetto alla disciplina interna (d.p.r. n.915/1982) di recepimento delle prime direttive comunitarie in materia di rifiuti e difforme rispetto alle ulteriori direttive non ancora trasposte (91/156 e 91/689). …

Infatti la sentenza Tombesi è chiara nell’affermare che “una normativa nazionale che adotti una definizione della nozione di rifiuti che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con la direttiva 74/442 nella sua versione originale e con la direttiva 78/319 (sentenze 28/3/1990 causa C- 359/88 Zanetti; 10/5/1995 causa 422/92 Commissione c. Germania). Tale interpretazione non è messa in discussione né dalla direttiva 91/156, che ha apportato modifiche alla prima delle due direttive, né dalla direttiva 91/689 che ha abrogato la seconda (cfr. la precitata sentenza Commissione c. Germania).”

5 L’appello, per tutte le considerazioni esposte, deve essere respinto.

Le spese processuali possono essere tuttavia equitativamente compensate tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 5 aprile 2011 con l’intervento dei magistrati:

Calogero Piscitello, Presidente
Aldo Scola, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 14/06/2011

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