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Scambi artefatti infragruppo: il credito Iva va “screditato” – Cassazione 22135/2013

hqdefaultSi considerano fittizie le cessioni infragruppo se non c’è proporzione tra prestazioni indicate e importi fatturati della propria “attività”. A maggior ragione, se nell’intera holding mancano uomini e mezzi sufficienti per mettere in campo, realmente, le attività indicate in contabilità con fatturazioni di importo molto rilevante. E’ quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 22135 del 27 settembre.

Il fatto
Il dato processuale riguarda una verifica fiscale eseguita nei confronti di una Srl e delle sue collegate appartenenti al medesimo gruppo societario, cui ha fatto seguito la rettifica della dichiarazione annuale Iva, motivata dalla circostanza che le attività di cessione di beni e prestazioni di servizi tra le società del gruppo dovevano ritenersi fittizie e inesistenti, stante la mancanza di strutture idonee e la sproporzione tra prestazioni rese e importi fatturati.

Il ricorso della società veniva rigettato dalla Commissione tributaria provinciale, con esito confermato anche nel giudizio di secondo grado.
Ne seguiva il ricorso in Cassazione, con il quale la società lamenta violazione di legge (articoli 19, 21, 55 e 56 del Dpr 633/1972) in quanto la Commissione regionale:

  1. ha dato rilievo al metodo con il quale l’ente impositore ha proceduto all’accertamento, basato su presunzioni e ragionamento induttivo, contestando la natura fittizia delle operazioni e la loro esclusiva finalità di creare crediti d’imposta attraverso compensazioni fittizie tra le società del gruppo, tutte facenti capo alle medesime persone fisiche, nonostante la mancanza dei presupposti necessari
  2. ha considerato che erano stati praticati prezzi non conformi al valore di mercato e che non era corretto effettuare il pagamento con compensazioni tra debiti e crediti reciproci.

Così delimitato il thema decidendum, si nota che l’investimento del giudice di legittimità, nel caso in esame, afferisce alla delicata questione dell’onere di provare la consapevolezza del cessionario in riferimento alla combinazione negoziale fraudolenta preordinata a uno scambio di fatture tra società dello stesso gruppo.

La decisione
La questione è stata risolta dalla Corte suprema, anche con l’ausilio dei principi comunitari cristallizzati dalla Corte di giustizia in tema di meccanismi fraudolenti in materia di tributi armonizzati, come l’affermazione secondo cui “l’esigenza di assicurare la riscossione dell’imposta e di evitare frodi non può essere attuata in modo tale da mettere in discussione la neutralità dell’Iva secondo principi generali di certezza e proporzionalità del diritto comunitario che vietano all’Amministrazione Finanziaria di addossare le conseguenze del comportamento illecito altrui all’operatore in buona fede secondo l’ordinaria diligenza” (sentenze, cause C-354/03, C- 355/03, C-484/03 e C-110/98).

In particolare, il giudice comunitario ha precisato che il cessionario in buona fede ha diritto a detrarre l’Iva ove non sappia o non possa sapere di essere coinvolto in un meccanismo fraudolento (sentenza, causa C-62/93); viceversa, che la facoltà deve essere negata nel caso in cui l’operatore sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare, con il proprio acquisto, a una operazione che si iscriveva in una frode Iva (sentenza causa C-439/04).
Perciò, nel decidere la vertenza, il giudice di legittimità ha respinto “inevitabilmente” il ricorso societario in relazione a tutti i profili di impugnazione, confermando la ripresa a tassazione dell’atto impositivo.

È vero, sostiene la Corte, che non bastano semplici indizi per presumere l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati e dunque assoggettati a imposizione, ma occorrono invece circostanze gravi, precise e concordanti (ex articolo 2729, codice civile) per le presunzioni semplici (Cassazione n. 15741/2012).
Il punto è che la motivazione della sentenza di merito, congrua e adeguata, regge per tutta una serie di circostanze tali da inchiodare il gruppo imprenditoriale all’accusa di “nero”: i contratti stipulati fra le società che rientrano nella stessa holding hanno natura fittizia, mentre tra le varie compagini sono intervenute consapevolmente operazioni di compensazione attive e passive. Questo perché, continua la motivazione, le prestazioni asseritamente svolte dalle varie società del gruppo non risultano proporzionate agli importi fatturati. E, soprattutto, mancano i relativi movimenti di cassa.

Ma c’è di più: anche a volere considerare il gruppo imprenditoriale nel suo complesso, i fattori della produzione costituiti da capitale e lavoro non risultano sufficienti per mettere in campo attività comparabili agli elevati importi fatturati.
Tanto più che non è stata affatto demolita la “versione” del Fisco (cfr Cassazione n. 8722/2013) circa la natura fittizia delle operazioni e la loro esclusiva finalità di creare crediti di imposta inesistenti potenzialmente rimborsabili, da realizzarsi attraverso l’annullamento di debiti e crediti grazie a compensazioni tra società del gruppo (cfr Cassazione n. 6849/2009).

Salvatore Servidio, nuovofiscooggi.it

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