La parte civile ha sempre il diritto di ricorrere per cassazione contro la condanna alle spese processuali anticipate dallo Stato – CASSAZIONE PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 41476 del 25/10/2005
Risolvendo un
contrasto giurisprudenziale, Le Seziomi Unite Penali hanno affermato che la
parte civile, a norma dell’art. 568 comma 2 c.p.p., ha sempre il diritto di
ricorrere per cassazione contro il capo della sentenza che la condanna, ex art.
592 c.p.p., al pagamento delle spese processuali anticipate dallo Stato.
Inoltre, l’obbligo del giudice di condannare ex art. 592 comma 1 c.p.p., la
parte civile al pagamento delle spese del processo, nel caso di mancato
accoglimento della impugnazione proposta dalla stessa parte civile contro la
sentenza di assoluzione dell’imputato, sussiste, sulla base dei criteri della
causalità e della soccombenza, anche quando analoga impugnazione sia stata
proposta dal pubblico ministero e sia stata parimenti disattesa.
CASSAZIONE
PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 41476 del 25/10/2005
(Sezioni Unite
Penali, Presidente N. Marvulli, Relatore P. Onorato)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 ” Con sentenza del 2.2.1998 il pretore di Reggio Calabria assolveva perchè il
fatto non sussiste, ex art. 530 comma 2 c.p.p., M.M.L. dal reato di truffa in
danno dell’I.N.P.S., contestatole per avere simulato con Vitetta Matteo,
titolare di azienda agricola ” successivamente deceduto ” un rapporto di lavoro
agricolo, inducendo in errore l’istituto previdenziale e determinandolo a
corrisponderle una indennità di disoccupazione agricola da maggio a dicembre
1989 e da giugno a settembre 1990.
2 ” Il pubblico ministero e la parte civile I.N.P.S. proponevano appello e la
corte distrettuale di Reggio Calabria, con sentenza del 27.5.2004, confermava
integralmente la pronuncia di primo grado, condannando altresi’ la parte civile
al pagamento delle spese processuali del grado di appello.
Osservava la corte che le deposizioni dei due testi di accusa non potevano
considerarsi decisive, giacchè i medesimi, dipendenti del Vitetta, avevano ”
si’ ” riferito di non aver mai visto la Misiano lavorare nel fondo del Vitetta,
ma avevano anche precisato di non poter escludere che la medesima si trovasse al
lavoro in una parte dell’esteso fondo agricolo diversa da quella dove lavoravano
essi stessi. Inoltre le deposizioni di altri testi escussi avvaloravano la tesi
difensiva.
L’accusa era quindi fondata su elementi logici non irrilevanti, ma inidonei ad
assurgere alla dignità di prove dotate di tranquillante certezza.
3 ” Contro tale decisione hanno proposto ricorso il Procuratore Generale di
Reggio Calabria e l’I.N.P.S.
3.1 ” Il Procuratore Generale denuncia con un solo motivo violazione dell’art.192
comma 2 c.p.p., nonchè manifesta illogicità della motivazione risultante dal
testo della sentenza impugnata.
Lamenta che la corte territoriale ha completamente trascurato la valutazione di
numerosi indizi precisi, gravi e concordanti: in particolare la circostanza che
la Misiano era proprietaria di un proprio fondo agricolo di oltre quaranta
ettari, per la coltivazione del quale assumeva mano d’opera bracciantile e
colonica; il fatto che era compartecipe all’impresa familiare nella gestione
della farmacia del marito, con un reddito mensile di circa dieci milioni di
lire; l’ulteriore significativa circostanza che il rapporto di lavoro
bracciantile de quo era durato il numero di giornate minimo per conseguire il
requisito contributivo.
3.2 ” Dal canto suo il difensore della parte civile, regolarmente munito di
procura speciale, deduce:
3.2.1 – mancanza di motivazione risultante dal provvedimento impugnato, laddove
la corte si è limitata alla esposizione acritica e parziaria delle risultanze
testimoniali, senza prendere in considerazione i numerosi e gravi elementi
indiziari che pure aveva menzionato nella parte narrativa;
3.2.2 – inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità (art.
125, comma 3, c.p.p.), laddove la corte di merito ha omesso di prendere in
considerazione le precise doglianze formulate nell’atto di appello;
3.2.3 – nullità del capo concernente la condanna alle spese processuali per
violazione dell’art. 592, comma 1, c.p.p., giacchè questa norma consente la
condanna della parte civile per le spese del processo di impugnazione soltanto
nel caso che l’impugnazione stessa sia stata proposta dalla sola parte civile, e
non ” come nel caso presente ” anche dal pubblico ministero. Aggiunge che la
censura è ammissibile, se non altro per il carattere abnorme della statuizione;
e in via gradata eccepisce la illegittimità costituzionale della predetta
norma, laddove non prevede la facoltà della parte civile di impugnare la
propria condanna alle spese.
4 ” Il processo è stato assegnato alla settima sezione di questa corte ai sensi
dell’art. 610, comma 1, c.p.p. sul presupposto della inammissibilità dei
ricorsi.
Con memoria ritualmente depositata il difensore dell’I.N.P.S. ha confutato la
inammissibilità del suo ricorso, chiedendo la rimessione degli atti al
Presidente della corte.
La settima sezione, con ordinanza del 10.5.2005, dopo avere rilevato che, per
quanto concerne la colpevolezza dell’imputata, i ricorsi devono ritenersi
inammissibili in quanto i giudici del merito hanno negato la sussistenza di
elementi idonei a suffragare l’accusa di simulazione del rapporto di lavoro con
motivazione adeguata ed esente da evidenti illogicità, e che, comunque, esula
dai poteri della Corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi
posti a sostegno della decisione, essendone l’apprezzamento riservato al giudice
di merito, ha affrontato la questione relativa alla pretesa abnormità del capo
della sentenza relativo alla condanna alle spese del procedimento.
Sul punto il collegio ha ritenuto irrilevante e comunque assorbita
dall’impugnazione della decisione di assoluzione la questione di legittimità
costituzionale prospettata dalla ricorrente in relazione alla disposizione di
cui all’ art. 592 c.p.p., laddove non prevede in capo alla parte civile la
facoltà di impugnare la propria condanna alle spese, per l’irragionevole
disparità di trattamento con la posizione dell’imputato tutelata dall’ art. 607
comma 2 c.p.p..
Inoltre, ha ritenuto non condivisibile l’assunto della parte civile ricorrente
che, invocando un precedente di questa Corte (Sez. lV, n. 14406 del 16.4.2002,
imp. La Torre e altri), ha eccepito la nullità del capo della sentenza con la
quale era stata condannata al pagamento delle spese processuali benchè
l’impugnazione fosse stata proposta anche dal PM. Tuttavia, trattandosi di una
questione di diritto rilevante e suscettibile di dar luogo a contrasto
giurisprudenziale, il collegio, ai sensi dell’art. 618 c.p.p. ha rimesso il
ricorso alle sezioni unite.
5 ” Il processo è stato fissato per l’udienza del 25.10.2005.
Il Procuratore Generale in sede, nella sua requisitoria scritta, ha concluso
chiedendo di dichiararsi inammissibile il ricorso del Procuratore Generale e
inammissibili i primi due motivi di ricorso della parte civile, nonchè di
rigettarsi il terzo motivo di ricorso della parte civile.
Motivi della decisione
6 ” Va anzitutto ricordato che il sistema del processo penale non prevede la
possibilità che il ricorso sia in parte definito dalla sezione semplice e in
parte dalle sezioni unite, cosi’ come è invece previsto nel diverso sistema
processualcivilistico, in cui è possibile distinguere motivi di ricorso di
competenza delle sezioni semplici e motivi di ricorso di competenza delle
sezioni unite (art. 142 disp. att. c.p.c.).
Per questa ragione, nonchè per la natura sostanzialmente amministrativa e non
giurisdizionale dell’ordinanza con cui la sezione semplice rimette il ricorso
alle sezioni unite, a queste ultime compete la decisione dell’intero ricorso e
non solo del motivo attinente alla questione che ha suscitato il contrasto
giurisprudenziale. (Per l’affermazione secondo cui le sezioni unite non possono
decidere limitatamente ad alcuni motivi di ricorso, riservando gli altri alla
sezione semplice, v. Cass. Sez. Un. Pen. n. 17 del 21.9.2000, Primavera, rv.
216660).
Ne deriva che la valutazione di inammissibilità contenuta nella suddetta
ordinanza di rimessione per i motivi attinenti alla violazione dell’art. 192
c.p.p. (n. 3.1), alla mancanza di motivazione (n. 3.2.1) e alla violazione
dell’art. 125, comma 3, c.p.p. (n. 3.2.2) non ha effetto preclusivo e non
espropria la competenza di questo collegio.
Altrettanto deve dirsi per la valutazione espressa sulla eccezione di
illegittimità costituzionale dell’art. 592 c.p.p..
7 ” Tanto premesso, devono anzitutto essere esaminate le censure formulate sia
dal pubblico ministero, sia dalla parte civile ai sensi dell’art. 576 c.p.p., in
ordine alla responsabilità penale dell’imputata (nn. 3.1, 3.2.1 e 3.2.2).
Si tratta di censure tutte manifestamente infondate, giacchè la corte di merito
ha confermato l’assoluzione della Misiano ex art. 530, comma 2, c.p.p. con una
motivazione adeguata, scevra da vizi logici o giuridici, correttamente centrata
sulla considerazione che gli indizi logici della simulazione del rapporto
bracciantile de quo erano controbilanciati dalle deposizioni testimoniali,
alcune delle quali erano pienamente liberatorie per l’imputata ed altre solo
relativamente potevano definirsi accusatorie.
Conclusivamente, il compendio probatorio risultava contraddittorio, in quanto
non arrivava a dimostrare con sufficiente certezza che il rapporto di lavoro era
simulato, e imponeva pertanto l’assoluzione della imputata ex art. 530, comma 2,
c.p.p..
Non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione di tale
compendio probatorio, sulla base delle prospettazioni dei ricorrenti, avendo
questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una “rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione
è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare
il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il
ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali” (Sez.Un. n.6402
del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv.
203428).
Non puo’ quindi ravvisarsi nella sentenza impugnata nè una errata applicazione
dell’art. 192, comma 2, c.p.p. nè una mancanza di motivazione ai sensi
dell’art. 606 lett. e) c.p.p..
A maggior ragione non puo’ ravvisarsi una violazione dell’art. 125, comma 2,
c.p.p. perchè la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli
appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie. Ma al riguardo si deve
anzitutto osservare che, nella innovativa disciplina dell’art. 606 c.p.p., la
mancanza di motivazione non puo’ essere dedotta in cassazione come inosservanza
di una norma processuale stabilita a pena di nullità (Sez. Un. n. 5 del
24.4.1991, Bruno, rv.186998).
8 ” Deve quindi esaminarsi l’ultima doglianza della parte civile (n. 3.2.3), che
ha causato la rimessione del ricorso a queste sezioni unite.
A questo proposito, il primo e più delicato problema è quello dell’ammissibilità
del motivo di ricorso, ovverosia della facoltà della parte civile di impugnare
la sentenza nella parte in cui la condanna al pagamento delle spese processuali
anticipate dallo Stato.
Il problema resta immutato pure nel caso ” com’è quello di specie ” in cui la
parte civile impugna la sentenza anche nella parte in cui assolve l’imputato. E’
infatti evidente che il potere della parte civile di impugnare il giudizio di
assoluzione ai sensi dell’art. 576 c.p.p. non la legittima, di per sè, anche a
impugnare la sua condanna alle spese processuali, sicchè, in mancanza di uno
specifico fondamento giuridico, il motivo formulato al riguardo sarebbe
inammissibile per difetto di legittimazione.
Sul tema, poco visitato dalla dottrina, un chiaro Autore ritiene sottinteso
nell’art. 576, comma 1, c.p.p. (e risultante dal caso simmetrico, relativo al
querelante, previsto nel comma 2 dello stesso articolo) che la parte civile puo’
impugnare anche le condanne alle spese e danni da lite temeraria.
Al riguardo, occorre invero osservare che dal combinato disposto degli artt.
576, comma 2, 542 e 427, commi 1 e 3, c.p.p. risulta la seguente disciplina: a)
quando si tratta di reato perseguibile a querela, nel caso in cui il giudice di
primo grado emetta sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste o
perchè l’imputato non l’ha commesso, il querelante in quanto tale è condannato
al pagamento delle spese anticipate dallo Stato; b) nello stesso caso, il
querelante è condannato alla rifusione delle spese e al risarcimento del danno
in favore dell’imputato che ne abbia fatto domanda (anche a favore del
responsabile civile citato o intervenuto, solo se il querelante si è costituito
parte civile); b) contro il capo della sentenza assolutoria che decide in tal
modo sulla sua responsabilità per le spese processuali e per i danni, il
querelante puo’ proporre impugnazione.
La disciplina si spiega razionalmente perchè, nei reati perseguibili a querela,
è solo il querelante in quanto tale a dare causa al processo penale, sicchè è
giusto (se è ravvisabile una colpa a suo carico) che gli vengano accollate le
spese sopportate dallo Stato nei casi in cui l’esercizio della giurisdizione si
rivela inutile; cosi’ come è giusto (sempre se ricorra una sua colpa, più o
meno grave) che egli debba rimborsare all’imputato le spese processuali e i
danni da questi sopportati per fronteggiare le conseguenze della querela.
La disciplina prevista per la parte civile è analoga, ma non identica.
Secondo l’art. 541, comma 2, c.p.p., che attiene alla decisione di primo grado,
con la sentenza che assolve l’imputato per cause diverse dal difetto di
imputabilità, se ne è fatta richiesta, il giudice condanna la parte civile
alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’imputato e dal
responsabile civile per effetto dell’azione civile esercitata nel processo
penale; se la parte è incorsa in colpa grave, il giudice la condanna altresi’
al risarcimento dei danni causati all’imputato e al responsabile civile.
In tal caso, sempre secondo i criteri della causalità e della soccombenza, la
parte civile deve rifondere le spese e i danni cagionati alle controparti
private con l’infondato esercizio dell’azione civile nella sede penale; non deve
invece rifondere le spese del processo anticipate dallo Stato, perchè, n