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La responsabilità del medico per omessa informazione – Articolo di Elena Pompeo

Lo stesso dicasi nel caso di nascita indesiderata a seguito di intervento di sterilizzazione, a seguito del quale con l’incollaggio delle tube si provoca l’infertilità permanente. La giurisprudenza ha ritenuto risarcibili i danni patrimoniali consistenti negli oneri di mantenimento del figlio nato inaspettatamente quantificabili nelle spese di vitto, alloggio, educazione e istruzione fino al raggiungimento della indipendenza economica del figlio.

Altra casistica riguarda l’omessa diagnosi di un processo morboso terminale ( sentenza di Cassazione n. 23846 del 2008) , allorchè abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che per effetto del ritardo sia andata perduta dal paziente la chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita, nonché la chance di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti. Il paziente ha diritto al risarcimento del danno per la perdita della doppia chance di vivere meglio durante il decorso della malattia e di vivere più a lungo. Il risarcimento è dovuto perchè la mancata informazione nega al paziente, oltre che di essere messo in condizione di cosa fare, nell’ambito delle soluzioni possibili prospettate dalla scienza medica, ma anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psicofisiche, in vista e fino a quell’esito.

L’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo nella possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze. La cura palliativa, da latino palliare (coprire con l’antico pallio, che, com’è noto, era un velo) è quell’intervento di vario genere diretto a sopprimere i vari sintomi di una malattia, soprattutto il dolore, senza eliminare le cause veramente responsabili del processo morboso.

Altra sentenza di Cassazione, la n. 2847 del 2010 ha affrontato il caso di un intervento di  cataratta dal quale sono derivate delle lesioni all’occhio destro per il paziente. La sentenza ha enunciato una serie di principi in materia di consenso informato. Il medico si è difeso sostenendo la correttezza dell’intervento. La Cassazione sul caso ha enunciato una serie di principi importanti: il risarcimento del danno, in ogni caso, è dovuto sempre e comunque se il paziente, dimostra che se correttamente informato circa i rischi dell’intervento avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvi ed è il paziente che ha l’onere della prova. La mancanza del consenso informato determina la lesione del diritto all’autodeterminazione da parte del paziente in violazione degli art. 13 e 32 della Costituzione. Il danno non patrimoniale deriva sia dalla privazione della possibilità di scelta spettante al paziente tra interessi configgenti facenti capo al paziente, sia al turbamento e alla sofferenza provocati dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate. Ma deve sempre provare che se correttamente informato il paziente avrebbe rifiutato. In difetto del consenso informato, l’intervento terapeutico costituisce un illecito, sicchè il medico risponde delle conseguenze negative che ne siano derivate quand’anche abbia correttamente eseguito quella prestazione. Resta ovvio che il danno non deve essere futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi ma deve superare la soglia minima di tollerabilità. La prova deve essere data dal paziente, anche con presunzioni ed il medico potrà sempre provare di aver adempiuto correttamente all’obbligazione. Altro caso simile è quello affrontato dalla Cassazione nel 2009 n.20806 dove a causa di un duplice intervento di cataratta il paziente aveva perso quasi totalmente la vista. Tra il primo ed il secondo intervento il paziente non era stato informato delle possibili conseguenze negative, anzi gli veniva assicurato l’esito positivo. Se fosse stato correttamente informato avrebbe potuto rivolgersi ad altro specialista. La Cassazione ha enununciato il seguente principio: il consenso del paziente non è presunto e deve essere manifesto previa completa informazione diretta. L’obbligo di rendere edotto il paziente anche di rischi minimi sussiste se è in gioco un bene delicatissimo quale la vista e l’onere di provare l’adempimento spetta al medico.

Altro caso molto famoso è quello del testimone di Geova che aveva dato il proprio dissenso alla trasfusione di sangue e i medici in corso di intervento chirurgico vi hanno disatteso. Nella specie, un testimone di Geova, traumatizzato aveva rifiutato all’atto del ricovero in ospedale, eventuali trasfusioni di sangue, ma i medici, stante l’aggravamento delle sue condizioni, rilevatosi nel corso dell’intervento chirurgico, essendo il paziente anestetizzato e mancando la possibilità di interpellare altri soggetti legittimati in sua vece, hanno ugualmente praticato una trasfusione indispensabile per salvargli la vita, ritenendo altamente probabile che l’originario rifiuto non fosse più valido. La suprema Corte ha confermato la sentenza dei giudici di merito, ritenendo legittimo tale comportamento. La Cassazione con la sentenza n. 4211 del 2007, pur consapevole dell’importanza morale e culturale, prima ancora che giuridica della questione, ha statuito che l’originario dissenso alla trasfusione inizialmente formulato dal paziente con una valutazione altamente probabilistica prima dell’intervento chirurgico da lui accettato non può considerarsi più operante in un momento successivo allorchè, nel corso di un intervento, davanti ad un quadro clinico fortemente immutato, si sia prospettato un imminente pericolo di vita, senza più possibilità d’interpello al paziente, non rilevandosi praticabili altri mezzi per salvarlo. E’ pertanto invalido il rifiuto alle trasfusioni di sangue, espresso da un paziente, Testimone di Geova, in un momento in cui le sue condizioni di salute non facevano temere un imminente pericolo di vita. Non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente.

Ultima sentenza che merita un commento è la sentenza della Cassazione n. 2468 del 2009 che tratta il caso di un paziente che ricoverato presso un ospedale per un forte attacco febbrile era stato sottoposto al test anti hiv, senza che gli fosse chiesto il consenso. Il test, eseguito senza rispettare l’anonimato, aveva dato esito positivo e la cartella clinica, contenente la registrazione di dati sensibili, quali la sua omosessualità era stata custodita senza riservatezza, tanto che la sua condizione si era diffusa fuori e dentro l’ospedale. In riferimento alla mancanza di consenso informato la L.135 del 1990 statuisce che nessuno può essere sottoposto a test anti hiv senza il suo consenso, “ se non per motivi di necessità clinica, nel suo interesse”, va interpretato nel senso che si può prescindere dal consenso del paziente solo nei casi in cui egli sia del tutto impossibilitato a prestarlo. Questo articolo va interpretato alla luce dell’articolo 32 comma 2 della Costituzione, nel senso che il paziente ha il diritto di dare o negare il suo consenso, in tutti i casi in cui sia in grado di decidere liberamente e consapevolmente. Dal consenso si può prescindere solo nei casi di obiettiva e indifferibile urgenza del trattamento sanitario, o per specifiche esigenze di interesse pubblico ( rischi di contagio per terzi, o altro). Ne consegue che l’esecuzione delle suddette analisi senza il consenso del paziente, sebbene questi fosse pienamente in grado di esprimerlo, costituisce un fatto illecito ed obbliga il sanitario che l’ha eseguito al risarcimento del danno.
Ultimo esempio di consenso informato è il caso dei trapianti di organi dove ai sensi della legge n. 91 del 1999 all’articolo 4 è disciplinata la dichiarazione di volontà in ordine alla donazione.

In conclusione: oggi spetta al paziente decidere cosa fare, il medico ha il dovere di informare e di comportarsi con la diligenza professionale richiesta ed il paziente, salvo taluni casi eccezionali, come sopra commentati, ha sempre il diritto, una volta informato, di dare il proprio consenso ad un intervento chirurgico e/o ad una cura specifica tenuto conto del suo diritto all’autodeterminazione, alla libertà personale ed alla salute, diritti fondamentali e inviolabili tutelati dalla Nostra Costituzione. Quando il consenso non è informato ha sempre diritto al risarcimento dei danni patrimoniale e non patrimoniali.

Avv. Elena Pompeo

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