Diritto Privato

La Corte di Cassazione alla ricerca dell’attuazione dei diritti fondamentali di Mariabice Schiavi

La Suprema Corte di Cassazione – chiamata a decidere in merito al ricorso proposto da una coppia di coniugi che, a seguito dell’accoglimento della domanda di rettificazione di sesso formulata da uno dei componenti il nucleo familiare ha subito, quale conseguenza non voluta, lo scioglimento del matrimonio in via automatica – si interroga ed esamina quali siano gli effetti prodotti sul vincolo coniugale da una pronuncia giudiziale di rettificazione di sesso.

Il Collegio sostiene che la legge n° 164/1982 stabilisce lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quale conseguenza legale della adozione di una pronuncia di rettificazione di sesso adottata nei riguardi di uno dei componenti della coppia regolarmente coniugata. L’opzione adottata dal legislatore pertanto impone l’operatività – ope legis – della causa di scioglimento del vincolo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. Tale scelta è stata confermata anche dal d.lgs. 150/2011 che regola attualmente il procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso, laddove la novella stabilisce che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio in modo automatico. Il legislatore ha dunque, nella sua discrezionalità, introdotto una fattispecie di divorzio imposto ex lege che non richiede – in deroga ai criteri generali dettati dalla legge n°898/1970 – al fine di produrre i suoi effetti, una pronuncia giudiziale ad hoc, ma discende incontestabilmente quale effetto della pronuncia di rettificazione. Pertanto – argomenta il Collegio – si deve procedere a verificare la conformità di tale specifica previsione ai principi costituzionali e convenzionali.

La Cassazione ritiene che, al proposito, sussistano fondati dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla soluzione adottata dal nostro legislatore. Introdurre una norma che impone, quale conseguenza automatica della pronuncia di rettificazione, lo scioglimento del vincolo coniugale preesistente lede i diritti fondamentali dei coniugi. Risulta vulnerato il diritto all’autodeterminazione del soggetto che intende procedere alla rettificazione di attribuzione di sesso, a causa delle conseguenze non eliminabili che tale determinazione produce nella sua sfera giuridica, incidendo l’ingerenza legislativa anche sul diritto alla vita privata e familiare protetta dagli artt. 8 e 12 della CEDU. Il pregiudizio – sostiene ancora il Collegio- è ancor più significativo nei riguardi dell’altro componente che, a causa di scelte non proprie, si vede privato del proprio status di coniuge con gravi conseguenze per la propria sfera emotiva.

L’esercizio del diritto individuale al riconoscimento della propria effettiva identità di genere rispetto a quella determinata dal corredo cromosomico non è garantito se il giudizio di bilanciamento fra il diritto in questione e l’interesse dell’ordinamento a non modificare i modelli familiari tradizionali si traduce nella compressione e nel sacrificio di altri diritti della persona legati alla sua sfera relazionale. Il diritto alla piena esplicazione della propria dimensione relazionale è dotato di copertura costituzionale – secondo quanto stabilito dalla pronuncia n° 138/2010 del giudice delle leggi – anche nell’ipotesi in cui tale dimensione relazionale non sia riconducibile al modello matrimoniale e, dunque, a fortiori, tale dimensione, in cui si esplica la personalità del singolo, ha diritto ad essere assicurata e protetta se si sostanzia in un preesistente matrimonio. Lo scioglimento del vincolo coniugale disposto ex lege come conseguenza automatica della rettificazione dell’attribuzione di sesso determina l’eliminazione chirurgica – dice il Collegio – di una relazione che ha dato vita a un nucleo familiare costituzionalmente protetto dall’art. 29 e dall’art. 2 della Carta. L’automatismo determina inoltre un evidente pregiudizio all’art. 24 della Costituzione essendo precluso – per effetto della disciplina normativa vigente – l’esercizio del diritto alla difesa tanto al destinatario del provvedimento di rettificazione quanto all’altro coniuge che, subiscono irreparabilmente le conseguenze di tale pronuncia, senza disporre di strumenti idonei a consentire di conservare per comune accordo l’originario vincolo. Si cagiona inoltre una violazione dell’art. 3 della Carta, creando il legislatore un’irragionevole disparità fra la coppia destinataria di un provvedimento di rettificazione e le coppie non destinatarie del medesimo per le quali non opera la clausola di scioglimento automatico del vincolo coniugale.

Nelle more del pronunciamento della Corte Costituzionale cui la Cassazione ha rimesso la questione di costituzionalità della normativa vigente pare opportuno formulare alcune riflessioni. La questione sottoposta all’esame del giudice della nomofilachia e del giudice delle leggi lascia spazio a un delicato dibattito in cui vengono in rilievo profili non solo strettamente giuridici. La legislazione vigente, nel prevedere quale automatica e non eliminabile conseguenza del passaggio in giudicato della pronuncia di rettificazione, lo scioglimento del vincolo coniugale lede realmente il diritto alla piena esplicazione della libertà dell’individuo che si declina anche attraverso la propria effettiva identità di genere e pone in discussione il principio del consenso che costituisce il requisito fondante dell’istituto del matrimonio.

Le ragioni che potrebbero giustificare l’orientamento restrittivo del legislatore nel regolare la materia, non trovano riscontro e supporto in alcune recenti pronunce capaci di percepire l’evoluzione sociale e la duttilità dei principi costituzionali. La Corte di Cassazione infatti già nella pronuncia n° 4184/2012 chiamata a pronunciarsi sulla trascrivibilità del matrimonio omosessuale celebrato all’estero si determina ad affermare che il divieto di trascrizione non discende dalla contrarietà di tale unione all’ordine pubblico, ma dipende dall’inidoneità – per il nostro ordinamento – di tale atto a produrre effetti.

Il giudice rammenta inoltre che il diritto a contrarre matrimonio è un diritto fondamentale appartenente al patrimonio giuridico costitutivo e irretrattabile della persona umana anche se il suo riconoscimento e la sua garanzia spettano alla discrezionalità dell’azione legislativa. Non stupisce né sorprende pertanto che lo stesso giudice, attento e sensibile interprete di un quadro normativo arricchito dalla “felice contaminazione delle fonti costituzionali, europee, convenzionali, internazionali” ravvisi una incapacità – da parte della disciplina vigente- a dare attuazione ai diritti fondamentali che concorrono a costruire la personalità dell’individuo nel suo complesso e che devono realizzarsi al di fuori dell’ingerenza statale.

Nelle more del pronunciamento della Corte è forse non del tutto erroneo ritenere che il giudice delle leggi tornerà ad evocare prudentemente la discrezionalità del legislatore, pur ribadendo i principi e i criteri orientativi delineati nella sentenza n° 138/2010 in cui rammentava la duttilità dei principi costituzionali che vanno interpretati tenendo conto delle trasformazioni dell’ordinamento e dell’evoluzione della società e dei costumi. Se il giudice delle leggi perverrà a tale soluzione compromissoria, non seguendo il percorso della Corte tedesca che ha dichiarato illegittimo l’automatismo legislativo in oggetto, ciò sarà la dimostrazione del fatto che la questione non involge solo profili strettamente giuridici ma anche etici e proverà la difficoltà del nostro ordinamento a predisporre le tutele necessarie alla affermazione di una “nuova stagione dei diritti” la cui attuazione è la più grande sfida, ma anche la più grande conquista di civiltà cui le Istituzioni sono chiamate.

Mariabice Schiavi, Dottore di ricerca in Diritto Costituzionale, Università di Milano

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