Come garantire l’effettività dei diritti fondamentali in attesa del Legislatore
Commento a La Corte Europea dei Diritti umani (Oliari e altri, c. Italia) e la Corte Suprema Americana ( Obergefell v. Hodges) di Mariabice Schiavi
La Corte Europea di Strasburgo ha recentemente sanzionato ( decisione 21 luglio 2015) l’Italia per violazione dell’art.8 della CEDU. La perdurante carenza di una disciplina che regolamenti e assicuri tutela giuridica alle unioni fra persone del medesimo sesso determina infatti – secondo la giurisprudenza sovranazionale- la violazione dell’obbligo di garantire il rispetto della vita privata e familiare dei ricorrenti quale diritto fondamentale di ciascun individuo, declinazione del principio di autodeterminazione del singolo all’interno della comunità.
Il margine di apprezzamento riconosciuto e riservato dalla giurisprudenza di Strasburgo a ciascuno Stato membro per garantire, modulando secondo la propria determinazione, tempi e modalità per l’attuazione dei diritti fondamentali di nuova emersione, quali quelli che vengono in considerazione nel caso di specie, è stato disatteso reiteratamente e convintamente dal legislatore italiano che ha assunto una condotta inerte e passiva in materia.
Neppure le sollecitazioni provenienti dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione hanno convinto Governo e Parlamento della necessità improcrastinabile di intervenire a dettare una disciplina specifica per la regolamentazione delle unioni omosessuali.
Già la Corte Costituzionale nella pronuncia 138/2010 attribuisce infatti alle unioni fra persone del medesimo sesso il valore formale di formazioni sociali meritevoli di protezione e riconoscimento ai sensi dell’art. 2 Cost. e esorta il Parlamento, nella sua discrezionalità, a individuare forme di tutela e garanzia appropriate per le suddette unioni .
La formazione sociale è infatti qualificata , dal giudice delle leggi, come comunità, semplice o complessa, idonea a consentire il libero sviluppo della personalità individuale nella vita di relazione. In tale nozione è da annoverare anche l’unione fra persone dello stesso sesso cui spetta di vivere la propria condizione di coppia ottenendo, nei modi e tempi stabiliti dalla legge, le dovute tutele.
Analogamente la Suprema Corte di Cassazione ( decisione sez. I civ. n° 4184/2012) sostiene che i componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione, pur non potendo far valere né il diritto a contrarre matrimonio, né il diritto a trascrivere il matrimonio celebrato all’estero, sono tuttavia titolari del diritto alla vita privata e familiare, diritto fondamentale che appartiene al patrimonio giuridico dell’individuo, non in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano e ciascuno, in quanto titolare del fondamentale diritto a vivere la propria condizione di coppia, può adire il giudice nazionale per ottenere, in rapporto a specifiche situazioni, la medesima tutela che è accordata alla coppia eterosessuale.
La Corte Europea dunque, costretta dalla condotta del legislatore italiano che ha ecceduto, omettendo di regolamentare la materia, il margine di apprezzamento o la discrezionalità riservatagli dai giudici nazionali e sovranazionali , in ragione della delicatezza della fattispecie e della molteplicità dei profili anche di ordine etico che essa coinvolge, ha condannato l’Italia per violazione della Convenzione, riproponendo in modo palese all’attenzione della cronaca una questione oggetto di ampio dibattito non solo nel panorama europeo.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti affrontato, e lo ha fatto oggi in modo più coraggioso di quanto non abbia fatto l’Europa, il problema del riconoscimento giuridico di coppie dello stesso sesso, andando ben oltre l’orizzonte e la prospettiva europea.
La Corte Suprema ha infatti attribuito la consistenza di diritto costituzionale al diritto al matrimonio fra persone del medesimo sesso. Anche le coppie dello stesso sesso possono infatti esercitare il diritto al matrimonio e il XIV Emendamento della Costituzione americana impone agli Stati di concedere il permesso di sposarsi perché ciascuno dei componenti della coppia è titolare, sulla base dei principi costituzionali, di un diritto fondamentale. Il diritto al matrimonio attiene infatti l’autonomia individuale e è espressione della libertà dell’individuo di compiere scelte essenziali per la propria vita personale.
Il diritto al matrimonio è fondamentale perché lega in una perdurante unione due soggetti e garantisce ai figli, grazie alla stabilità che permette di conseguire sul piano giuridico, l’integrità e l’intimità del vincolo familiare. La pronuncia segna una svolta davvero significativa rispetto agli esiti raggiunti dalla giurisprudenza europea, anche e soprattutto nella parte in cui rilegge il ruolo delle Corti costituzionali nazionali nei confronti del legislatore e afferma che “le Corti sono aperte verso i soggetti lesi che vengono di fronte a loro per rivendicare il sostegno della nostra Carta fondamentale. L’idea della Costituzione è quella di sottrarre certi temi alle vicissitudini della lotta politica e di porli oltre la portata delle maggioranze e dei funzionari pubblici”… . Essa ci dice dunque che le Corti non debbono aspettare il legislatore, soprattutto se esso è così intempestivo come quello italiano: la discrezionalità tanto evocata dalla Corte Costituzionale e la dichiarata impossibilità di superare i dubbi di conformità della vigente disciplina alle norme costituzionali e convenzionali in via ermeneutica, per evitare l’interpretazione creativa, soprattutto se è accompagnata da un Parlamento che abdica al suo ruolo e si ritrae sul terreno che gli dovrebbe essere proprio, sono un alibi che finisce per depotenziare anche il ruolo della magistratura e la sua funzione di garante dei diritti.
Appare particolarmente appropriato al proposito parlare, in relazione al potere Esecutivo e al potere Legislativo di uno “Stato indifferente” come sostiene Stefano Rodotà nell’articolo apparso su “La Repubblica” del 22 luglio scorso; uno Stato indifferente che non ha né saputo, né voluto assumersi la responsabilità di rispondere alle istanze sociali emergenti e all’affiorare di una stagione di nuovi diritti perchè ha piegato e asservito la cultura delle garanzie a interessi di parte e a equilibri e alleanze strategiche. Auspichiamo che la magistratura seguendo il solco tracciato dalla Corte Suprema americana sappia essere davvero portavoce coraggiosa di una “cultura delle garanzie” che dia ingresso e compiuta dimora a principi costituzionalmente non derogabili e non negoziabili.
Mariabice Schiavi, dottore di ricerca in Diritto Costituzionale , Università di Milano.