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Inammissibile l’impugnazione dell’avviso di inizio del procedimento disciplinare – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3232/2011

E’ inammisibile l’impugnazione avverso l’avviso di inizio del procedimento disciplinare ex art. 18 DM 406/1998, non avendo questo natura provvedimentale,  ed essendo atto privo di capacità lesiva sua propria, come tale insuscettibile di autonoma impugnativa

(© Litis.it, 31 Maggio 2011 – Riproduzione riservata)

Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 3232 del 30/05/2011

1. In data 21 settembre 2010 la Sezione Regionale della Camera di commercio di Venezia, Albo Nazionale Gestori Ambientali, comunicava alla Società Antares Ambiente S.r.l. il rigetto dell’istanza d’iscrizione all’Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti. Si comunicava altresì, contestualmente, l’inizio del procedimento disciplinare ex art. 18 DM 406/1998, deciso nella riunione del 16 settembre 2010.

Tale provvedimento veniva adottato in quanto dalle risultanze del casellario giudiziario, emergeva che i Sigg. [OMISSIS] e [OMISSIS], rispettivamente Amministratore Unico e Responsabile Tecnico dell’impresa, avevano subito condanna irrevocabile, facendo venir meno in tal modo i requisiti richiesti dall’art. 10 del DM n. 406/1998 per l’iscrizione all’Albo delle imprese in questione.

Parte ricorrente non negava tali risultanze, ma eccepiva che, essendo previsto dalle stesse norme come esimente la “riabilitazione” e la “sospensione della pena”, l’iscrizione non poteva essere negata, in quanto la parte stessa risultava aver usufruito dell’indulto.

1.1 Il TAR adito, ritenuto in premessa inammissibile l’impugnazione avverso l’avviso di inizio del procedimento disciplinare non avendo questo natura provvedimentale, prescindeva dalle altre eccezioni di inammissibilità, ritenendo il ricorso infondato nel merito.

Veniva infatti ribadita la non equiparabilità dell’indulto alle altre ipotesi derogatorie che avrebbero consentito l’accoglimento della domanda del ricorrente.

Contro tale sentenza, pronunciata il 9 dicembre 2010, veniva proposto appello, con contestuale istanza di sospensiva.

2. Nella Camera di Consiglio della VI Sezione del Consiglio di Stato, il 15 marzo 2011, il Collegio ha ritenuto sussistere i presupposti per la definizione del giudizio in forma semplificata.

2.1 Si condivide anzitutto l’orientamento espresso dal giudice di primo grado per quanto riguarda l’avvio del procedimento disciplinare ex art. 18 DM 406/1998: trattandosi di atto non avente natura provvedimentale, non può che confermarsi la inammissibilità della relativa impugnazione.

Su tale punto è opportuno ricordare la sentenza del TAR Lazio, Sezione III, del 24/2/2003, n. 1377, che ha ritenuto essere “inammissibile il ricorso giurisdizionale che venga proposto avverso un atto privo di capacità lesiva sua propria, come tale insuscettibile di autonoma impugnativa”.

Tale sentenza è stata confermata dal Consiglio di Stato, Sezione VI, del 6/6/2008, n. 2736, che ha condiviso le conclusioni del TAR Lazio nel punto relativo alla mancanza di capacità lesiva propria, e come tale non suscettibile di autonoma impegnativa, dell’atto di inizio del procedimento disciplinare.

Le sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione nn. 29294/2008 e 22624/2010, richiamate nel ricorso in appello, manifestano un diverso orientamento, ma sembrano fondate sulla specialità del caso allora in esame.

D’altro canto, le stesse Sezioni Unite nella sentenza 20771/2010 hanno assunto un atteggiamento difforme da quello sopra ricordato, affermando che “nel procedimento disciplinare a carico di un avvocato, l’atto di citazione dell’incolpato, anche nell’ipotesi di citazione contenente la riformulazione dell’incolpazione, non è direttamente ricorribile”.

Il Collegio ritiene pertanto di non discostarsi dalla giurisprudenza amministrativa sopra ricordata e l’appello sul punto va pertanto respinto.

3. Quanto alla impugnazione del rigetto di iscrizione all’albo, viene in evidenza il problema della assimilabilità degli istituti della riabilitazione e della sospensione condizionale della pena a quello dell’indulto. Se fosse vero tale assunto, la richiesta di iscrizione all’albo sarebbe infatti legittima, ai sensi dell’art. 10 del citato DM 406/1998.

Non si può però convenire con tale ricostruzione.

Come è noto, anche secondo le più recenti pronunce della Cassazione penale, l’indulto è visto come uno dei presupposti di una successiva riabilitazione (Cassaz. Penale, Sez. I, 2/12/2010, n. 306). Inoltre, la stessa Cassazione penale, Sez. II, 21/12/2010, n. 5394, ribadisce ancora una volta la distinzione fra indulto (causa estintiva della pena) e sospensione condizionale della pena (causa estintiva del reato).

Casi tutti ben lontani, quindi, dall’indulto.

Pur a mente della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, del 5 novembre 2007, n. 5695, la conclusione non potrebbe essere diversa. Ritiene infatti la citata sentenza essere irragionevole la mancata equiparazione dei tre istituti di cui stiamo trattando, nel disciplinare l’iscrizione all’albo delle imprese gestione rifiuti. Sarebbe irragionevole, cioè, ove interpretata in senso preclusivo dell’iscrizione “anche a coloro che abbiano riportato condanna, con il beneficio dell’indulto, per pene la cui entità sia comunque rientrante nei limiti di concedibilità della sospensione condizionale di cui all’articolo 163 c.p., allorchè siano decorsi i periodi massimi di applicabilità delle pene accessorie rispetto al momento in cui la condanna fu pronunciata”.

Il limite di cui all’articolo 163 c.p. citato è di due anni; il termine massimo di applicabilità delle pene accessorie, ai sensi dell’articolo 30, secondo comma, c.p., è di cinque anni.

Ora, il ricorrente risulta condannato, con sentenza del Tribunale di Padova del 7/2/2007 (successivamente indultata), a pena complessiva di tre anni di reclusione. Mancano quindi entrambi i presupposti di cui alla citata sentenza n. 5695/2007.

La non equiparabilità dell’indulto alle due ipotesi derogatorie di cui all’articolo 10 del DM 406/1998, dichiarata dal giudice di primo grado, risulta pertanto, anche nel caso di specie, condivisibile.

4. Sull’ulteriore punto dedotto nel ricorso in appello, relativo alla assimilabilità del patteggiamento alla sentenza di condanna, si ritiene comunque utile ricordare che il Consiglio di Stato, Sezione V, nella sentenza n. 5832/2001 ha avuto modo di precisare “che la sentenza c.d. patteggiata è equiparabile ad una sentenza di condanna, per quanto concerne l’accertamento delle responsabilità”.

Tale orientamento va ancora oggi condiviso.

5. Per quanto riguarda tutti gli altri motivi richiamati nell’appello, essi possono ritenersi non pertinenti o non rilevanti, nello sviluppo logico del provvedimento adottato come sopra motivato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione VI, definitivamente pronunciandosi sulla questione, respinge il ricorso, confermando l’appellata sentenza.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite nella misura di euro 3.000,00 (tremila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 marzo 2011 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Coraggio, Presidente
Roberto Garofoli, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Antonio Malaschini, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 30/05/2011

 

 

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