Amministrativa

Recupero coattivo dell’alloggio di servizio – Consiglio di Stato Sentenza n. 6187/2012

sul ricorso numero di registro generale 7866 del 2005, proposto da:
XX, rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Stara, con domicilio eletto presso Omnia Service Srl Agenzia in Roma, via Duilio 22;
contro
Ministero della Difesa in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. SARDEGNA – Cagliari – Sezione I n. 01851/2005, resa tra le parti, concernente il recupero coattivo dell’alloggio di servizio

Consiglio di Stato, Sezione Quarta, Sentenza n.6187/2012 del 04.12.2012

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 ottobre 2012 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Stara Salvatore e Giulio Bacosi, avvocato dello Stato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
E’ appellata la sentenza n. 1851 del 2005 con la quale il TAR Sardegna ha respinto il ricorso proposto dal sig. Giuseppe Gigi per l’annullamento dell’ordinanza del Comando Militare Marittimo Autonomo della Sardegna del 31 marzo 2003 n. CA/1343, avente ad oggetto il recupero coattivo n. 3/2003 dell’alloggio di servizio n. 158 della sede di Cagliari, nonché per l’annullamento della determinazione del Sottosegretario di Stato alla Difesa del 5 marzo 2003.
L’appellante si duole, in particolare, dell’omessa pronuncia in relazione alla censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 9, comma 7 della legge 24 dicembre 1993, n. 537: ai sensi della norma citata, il personale in quiescenza può mantenere la conduzione di alloggi di servizio ove abbia i requisiti di reddito individuati dal Piano annuale di gestione del patrimonio abitativo della Difesa, approvato, entro il 31marzo di ciascun anno, con decreto del Ministro della Difesa.
Secondo l’appellante, il giudice di prime cure:
a) si sarebbe limitato a verificare semplicemente se l’alloggio era qualificato come ASI (Alloggio di Servizio connesso ad un Incarico) e, una volta accertatolo, avrebbe considerato ostativo il collocamento in quiescenza e la conseguente cessazione dall’incarico, senza valutare se il ricorrente avesse titolo per permanere nella conduzione dell’immobile in forza della norma sopra citata, la quale avrebbe riferimento agli alloggi di servizio senza distinzione tra ASI e AST (alloggi di Sistemazione Temporanea per le famiglie dei militari).
Tale norma inoltre avrebbe trovato esecuzione a mezzo del DM 22 Novembre 2002 il quale, nonostante sia dedicato alla ripartizione del patrimonio abitativo (alloggi di servizio destinati al personale dipendente; alloggi di servizio non più utili alle esigenze della Difesa; alloggi di servizio non ubicati in infrastrutture militari e non più utili), risulterebbe privo degli allegati riportanti la concreta destinazione delle abitazioni, con la conseguenza che non risultando chiaro se l’alloggio di servizio, oggetto di causa, sia o meno ancora utile per le esigenze dell’amministrazione, il provvedimento di sgombero sarebbe privo di concreta giustificazione.
b) avrebbe ancora errato – il Giudice di prime cure – nel ritenere l’alloggio del ricorrente appartenente alla categoria ASI piuttosto che AST, atteso che, alla data del 19 Novembre 2003, l’alloggio in questione risultava identificato come 158/AST; il pregresso mutamento di classificazione da AST in ASI operato con ODG n. 117 del 5 febbraio 1996 sarebbe nullo in quanto costituente una mera proposta mai ratificata né comunicata al ricorrente. In tal senso deporrebbero le modalità con le quali canone di locazione è stato determinato: non in forza dell’art. 43 della legge 724/1994 (decreto del Ministro della Difesa) ma il base alla normativa sull’equo canone.
c) Inoltre il ricorrente avrebbe inoltrato domanda per l’acquisto con prelazione dell’alloggio per cui è causa, nel rispetto di quanto previsto dal DL 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge 326/2003. L’amministrazione, anziché negare in radice la possibilità – come avrebbe dovuto in presenza di un’occupazione sine titulo – ha risposto invitando l’istante a riproporre la medesima domanda all’Ente preposto alla vendita. Anche tale assunto sarebbe stato totalmente ignorato dal Giudice di primo grado.
Nel giudizio si è costituita l’amministrazione per il tramite dell’Avvocatura, chiedendo il rigetto del gravame.
Con ordinanza interlocutoria n. 1748 del 26 marzo 2012, la Sezione ha rilevato la necessità di acquisire dati certi in ordine alla condizione giuridica passata ed attuale dell’immobile in uso al sig. Giuseppe Gigi, nonché notizie in ordine all’eventuale alienabilità dello stesso in quanto dismesso dall’utilizzo militare.
L’amministrazione ha depositato dettagliata e documentata relazione.
In vista dell’udienza di discussione, l’avv. Salvatore Stara, patrocinante dell’appellante, con ricorso depositato il 15 ottobre 2012, ha ricusato i consiglieri Giulio Veltri, Raffaele Potenza e Andrea Migliozzi, componenti del collegio giudicante.
Alla pubblica udienza del 30 ottobre 2012, l’avv. Stara ha dichiarato di non volere discutere il merito del gravame in assenza di una previa pronuncia sull’istanza di ricusazione. L’appello è stato comunque trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Deve preliminarmente esaminarsi l’istanza di ricusazione, proposta dall’avvocato dell’appellante per ragioni che asseritamente attengono all’adozione di pregresse decisioni sfavorevoli emesse all’esito di numerosi giudizi promossi dal medesimo avvocato (difeso da se medesimo), nei quali erano stati parimenti proposte istanze di ricusazione giudicate manifestamente inammissibili contestualmente alla decisione di merito della causa.
Si tratterebbe, secondo il ricusante, di una prassi giudiziaria (quella del decidere la ricusazione contestualmente alla decisione della causa), del tutto in contrasto con il tenore testuale delle norme di rito e con i principi declinati dalla Corte Costituzionale, che denoterebbe un atteggiamento “funzionale” ostile nei confronti dell’istante.
2. Giova precisare che la ricusazione ha in particolare interessato tre componenti del collegio, e costituisce la riproposizione di istanza di ricusazione, a suo tempo presentata per altri componenti del collegio (consiglieri Greco e Forlenza), ed in generale e collettivamente per tutti i magistrati della Sezione, sempre per motivi attinenti alla soluzione data dai collegi a questioni di carattere processuale (cfr., ex multis, dec. nn. 5321, 5324, 5335 del 17/10/2012).
3. All’udienza di discussione il ricusante ha insistito per una preliminare decisione dell’istanza da parte del collegio in diversa composizione, rifiutando espressamente di discutere la causa.
4.1 Ritiene il collegio che la questione, in quei casi come in questo manifestamente inammissibile, possa essere decisa contestualmente alla decisione della causa, essendo – come più volte affermato dalla giurisprudenza della Sezione – l’applicazione dell’art. 18 c.p.a. (ed in particolare l’obbligo, ivi previsto, di sostituzione dei magistrati ricusati e l’adozione, da parte del nuovo collegio, di una decisione specifica sull’istanza di ricusazione) riservata alle sole ipotesi di ricusazione enucleate dall’art. 51 cpc, e non a quelle che, in ragione del loro oggetto, totalmente estraneo all’elenco dell’art. 51 né in alcun modo partecipe della natura delle cause ivi prese in considerazione, costituiscano un anomalo utilizzo dell’istituto processuale, foriero di inutile dispendio di energie processuali o addirittura di effetti paralizzanti per l’attività decisoria dell’organo giurisdizionale.
4.2. L’art. 51 c.p.c., circoscrive i casi di astensione (speculari a quelli di ricusazione) agli interessi personali, familiari o professionali che minano la terzietà del giudice, in un logica di fondo di natura deduttiva, che ricava dalla preesistenza dell’interesse il pericolo di una decisione ingiusta. Ed è proprio la preesistenza dell’interesse del giudice ed il suo coinvolgimento personale che giustifica il principio, recepito dall’art. 18 c.p.a., per il quale il giudice ricusato non può decidere della propria ricusazione.
Non rientrano invece nell’art. 51 c.p.c., costruzioni di natura induttiva che arrivino ad equiparare il tenore negativo, sgradito o anche erroneo delle pregresse decisioni del giudice, a sintomo di un interesse personale idoneo a minare la terzietà del medesimo, secondo un inammissibile sillogismo per cui se il giudice preparato compie un errore processuale reputato grossolano, esso non può che essere dovuto a motivi di ostilità personale (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2003, n. 3658, e 1 febbraio 2001, n. 422).
Se si desse sfogo –come vuole l’istante – anche in questi casi all’operatività dell’automatico meccanismo sospensivo e preclusivo (il processo è sospeso, ed il giudice ricusato è estromesso dalla decisione sulla sua ricusazione) il rischio sarebbe quello di creare la paralisi dell’organo giudicante, risultando del tutto evidente che ove tutti i magistrati che compiano scelte processuali contestate siano ricusabili, la platea dei ricusati si estenderebbe al punto tale da non consentire la celebrazione di alcun processo, salvo diversa volontà del ricusante, con evidente pregiudizio per la controparte del giudizio e per la ragionevole durata del processo.
Evidentemente non è questo l’obiettivo del legislatore e la ratio delle norme processuali di garanzia dello stesso dettate nell’ambito del codice del processo.
Piuttosto esiste, nel disegno del legislatore, uno stretto ed implicito collegamento tra l’art. 51 cpc e l’art. 18 c.p.a., per il quale, solo le cause di ricusazione sussumibili nell’art. 51 cpc o partecipi della medesima natura di quelle, fondate su un interesse personale del giudice, giustificano il sacrificio organizzativo e la dilatazione dei tempi processuali inevitabilmente connessi all’applicazione delle particolari garanzie di cui all’art. 18 c.p.a.
Il principio della ragionevole durata del processo, quello della stretta strumentalità delle norme processuali rispetto alla tutela del diritto di difesa e del corretto svolgersi del contraddittorio, nonché quello della leale cooperazione delle parti per la ragionevole durata del processo, impongono quindi una lettura restrittiva dell’art. 18 cpa in grado di neutralizzare l’utilizzo delle disposizioni per finalità che esulano dalla loro naturale e fisiologica portata sino a piegarle al servizio di una inammissibile scelta avente ad oggetto proprio il giudice chiamato a decidere.
In tale ottica, può affermarsi che il principio per cui il giudice ricusato non può partecipare alla decisione sulla sua ricusazione deve trovare applicazione tutte le volte che la questione abbia un nucleo minimo di consistenza “personale”, ossia realmente riferito alla persona del giudice, e non anche quando sia il solo carattere asseritamente erroneo della giurisprudenza di una Sezione, che i ricusati hanno contribuito a formare, ad essere equiparato a grave inimicizia personale, sulla base del sillogismo sopra descritto.
5. Non può valorizzarsi, per giungere a conclusioni contrarie – come pure fa il ricusante – il tenore letterale dell’art. 18 c.p.a., nella parte in cui, persino in ipotesi di istanze manifestamente inammissibili o infondate sembrerebbe imporre un’autonoma decisione da parte di un giudice diverso, poichè comunque deve trattarsi di istanze di ricusazione che: a) non esondino dai limiti di cui all’art. 51 c.p.c. e dalla ratio che tale norma sorregge; b) non generino, proprio in ragione della loro anomalia, un sovraccarico organizzativo suscettibile di tradursi nella paralisi o nella dilazione processuale, con danno per il principio di ragionevole durata del processo e per la collettività, sulla quali gravano i costi della giustizia.
5.1.L’elemento da ultimo considerato è dirimente poichè esso consente di valorizzare la ratio delle norme processuali, se del caso anche forzandone la lettera apparentemente neutra: è il tema del cd abuso del processo, ormai ampiamente solcato dalla giurisprudenza, a partire dalla nota pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in relazione al frazionamento dei diritti di credito ed alla possibilità di farne valere autonomamente in giudizio i singoli frammenti, (SS.UU.15 novembre 2007, n. 23726), poi seguita da Cass. 10 maggio 2010, n. 11314 per altre ipotesi di utilizzo anomalo o deviato di uno strumento processuale, nonché da decisioni del Consiglio di Stato in relazione a comportamenti processuali tenuti in contrasto con i doveri di correttezza e buona fede (Sez. IV, 2 marzo 2012, n. 1209; Sez. V, 7 febbraio 2012 n. 656, Adunanza Plenaria n. 3 del 23 marzo 2011), o ancora, in sede penale, da Cass. pen. SS.UU., 29 settembre 2011, n. 155, che ritiene ormai acquisita una nozione minima comune dell’abuso del processo riconducibile al paradigma dell’utilizzazione per finalità oggettivamente, non già solo diverse, ma collidenti rispetto all’interesse in funzione del quale la norma processuale è stata dettata.
Nel caso di specie, la valorizzazione della ratio dell’art. 18 (e delle garanzie procedurali ivi dettate), sostenuta anche al fini di evitare abusi del processo, conduce ad una interpretazione che esclude, dal novero delle situazioni garantite, quelle fondate sul mancato gradimento o sulla ritenuta erroneità di pregresse decisioni adottate dal giudice ricusato.
6. Esclusa l’operatività delle garanzie processuali, nulla osta a che l’istanza sia definitivamente decisa direttamente in questa sede, dal medesimo collegio chiamato a decidere sulla causa.
La stessa deve essere dichiarata inammissibile in relazione a tutti e tre i magistrati del collegio, essendo basata, com’anzi detto, sulla presunta valenza sintomatica di alcune decisioni giudiziarie pregresse, id est, su motivi del tutto esulanti dall’art. 51 c.p.c. e persino configgenti rispetto alla logica di fondo che ispira la norma.
Può ora passarsi all’esame della causa.
Nel merito, l’appello è infondato.
7.1 La tesi dell’appellante, asseritamente ignorata dal Primo Giudice, è che il diritto di permanenza nell’immobile non dipende dalla sua destinazione funzionale (ASI o AST), essendo pacifico che il collocamento in quiescenza del concessionario determina la sua decadenza qualunque sia il tipo di alloggio concesso, ma si fonda sul disposto dell’art. 9, comma 7 della legge 537/93, nella misura in cui lo stesso consentirebbe al militare, anche in quiescenza di mantenere la conduzione dell’immobile (sia esso ASI o AST), sempre che 1) non sia proprietario di altro alloggio di certificata abitabilità; 2) rientri nei parametri di reddito stabiliti, entro il 31 marzo di ciascun anno, con decreto del Ministro della Difesa.
Essa non può essere condivisa. L’ordinanza di sgombero è del 31 marzo 2003, ossia immediatamente successiva al DM 22/11/2002 che individua i parametri di reddito e le condizioni per mantenere la conduzione, solo in relazione agli utenti di alloggi AST non aventi più titolo alla concessione.
Dinanzi all’evidenza del dato testuale, l’appellante sostiene che il DM 22/11/2002 sia fonte secondaria, in contrasto con l’espresso disposto dell’art. 9, comma 7 della legge 537/93 che nessuna distinzione fa in ordine alla destinazione funzionale dell’alloggio di servizio, e pertanto deve essere disapplicata.
7.2. A prescindere da ogni considerazione circa la disapplicabilità da parte del Giudice amministrativo di atti amministrativi a contenuto normativo, nessun contrasto può cogliersi fra le fonti in esame.
E’ pur vero che l’art. 9, comma 7 della legge 537/93 parla genericamente di “utenti degli alloggi di servizio”, ma ciò fa nell’ambito di un quadro normativo che ha ad oggetto la dismissione del patrimonio abitativo non più utile e la sua valorizzazione, nonché l’utilizzazione, in via eccezionale, di alloggi di servizio da parte di personale anche in quiescenza, che lo abbia avuto in concessione, sempre che possieda un reddito basso e non abbia altri alloggi in proprietà.
Pur non specificandolo espressamente, la ratio della norma induce a ritenere che essa si riferisca esclusivamente al personale che detenga alloggi AST e non ASI.
7.3. Dirimente appare, in particolare, la finalità sociale che ispira la norma. Essa per non essere obliterata necessita di un’esegesi che ne rispetti la natura anche in relazione al titolo del pregresso godimento dell’immobile ed alle modalità di accesso allo stesso.
In proposito giova osservare che gli alloggi ASI sono notoriamente assegnati al personale dipendente cui sono affidati incarichi che richiedono “l’obbligo” di abitare presso la località di servizio e pertanto il criterio di assegnazione è guidato ed orientato esclusivamente dalle necessità funzionali legate alle peculiarità del servizio (il reddito è solo criterio assolutamente residuale a parità di altre condizioni), mentre gli alloggi AST sono assegnati ai militari che prestano generico servizio (nella località in cui è situato l’alloggio) per la sistemazione temporanee delle proprie famiglie (e dunque non quelle proprie e peculiari del servizio) sulla base, fondamentalmente, del reddito familiare.
Ne deriva che solo chi ottiene un alloggio AST sulla base della necessità proprie e della situazione reddituale familiare presenta delle necessità di carattere sociale che meritano di essere salvaguardate, sia pur in via eccezionale, nella fase successiva alla decadenza. Non così per i titolari di alloggio ASI poichè essi sono ammessi esclusivamente sulla base delle esigenze di servizio che impongono la presenza, a prescindere da considerazioni di carattere mutualistico.
E’ quindi verosimile che il legislatore abbia voluto assicurare protezione a coloro che hanno ottenuto l’alloggio in ragione di un basso reddito, per esigenze legate alla sistemazione delle famiglie per il periodo di svolgimento del servizio, che abbiano, a causa dell’indeterminatezza temporale di tale assegnazione, di fatto localizzato i propri progetti di vita familiare in quella località, trascurando di acquistare un alloggio in quella come in altre località.
7.4. Ciò non significa aver discriminato coloro che hanno un obbligo di abitazione in ragione del servizio, poichè è evidente che essi potevano e possono concorrere ad un alloggio AST , qualora in possesso anche delle condizioni di reddito. E’ tuttavia solo in quanto concessionari di un alloggio AST che essi risultano meritevoli di protezione sociale.
Del resto una diversa interpretazione della norma porterebbe ad un progressivo esaurimento della disponibilità di alloggi in danno del personale che ne ha diritto per esigenze di servizio attuali.
7.5. E’ bene infine precisare che nessuna rilevanza può avere in proposito la circostanza che il DM 22 Novembre 2002 – che ha individuato i parametri di reddito per il permanere degli utenti degli alloggi AST nella conduzione degli alloggi – risulti (secondo quanto dedotto dall’appellante) privo degli allegati riportanti la concreta destinazione delle abitazioni e l’elenco delle abitazioni non più utili all’amministrazione, poichè esso disciplina la permanenza negli alloggi AST a prescindere se si tratti di alloggi ancora utili o non più utili.
8. Ciò chiarito, e venendo all’esame del secondo motivo d’appello, non v’è dubbio che l’alloggio concesso all’appellante appartenesse alla categoria ASI. Ciò emerge non solo dall’ ODG n. 117 del 5 febbraio 1996, non impugnato, ma anche dall’istruttoria condotta dal collegio.
9. Parimenti infondato è l’ultimo motivo d’appello. La circostanza che l’amministrazione abbia consigliato l’istante di rivolgersi all’Ente competente per la vendita, piuttosto che eccepire il difetto di legittimazione, non può essere intesa come un implicito riconoscimento della regolarità della posizione dell’istante, poichè è ben possibile, ed anzi probabile, che l’amministrazione si sia posta preliminarmente solo un problema di competenza che l’ha indotta (correttamente), in ragione del suo esito negativo, a non entrare affatto nel merito dell’istanza o della situazione soggettiva ed oggettiva dell’istante.
10. Non rilevano infine le diverse questioni relative alle concrete determinazioni in ordine alla domanda di acquisto dell’immobile, poichè concernenti tematiche (eventuale cartolarizzazione dell’immobile) cronologicamente successive all’emanazione dell’atto di sgombero e comunque risolte in senso sfavorevole all’appellante dagli esiti dell’istruttoria disposta (l’amministrazione ha specificato che l’immobile in questione non è mai stato incluso in alcun elenco di alloggi erariali da dismettere e non è contenuto nell’elenco di immobili individuati dal Ministero della Difesa per l’alienazione, allegato al DM del 22 novembre 2010, pubbl. su GU n. 70 del 26/3/2011.
11. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo..
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento, in favore dell’amministrazione costituita, delle spese della presente fase di giudizio, che forfettariamente liquida in €. 1.500,00 oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2012 con l’intervento dei magistrati:
Anna Leoni, Presidente FF
Fabio Taormina, Consigliere
Raffaele Potenza, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/12/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *