AmministrativaGiurisprudenza

Il bene espropriato illegittimamente deve sempre essere restituito anche se l’opera è ultimata – Consiglio di Stato, Sentenza n. 3331/2011

L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di un superamento dell’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato operata in relazione al diritto comune europeo. Partendo dall’esame della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve ritenersi che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera). Nella sentenza citata, la Corte ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non fosse impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità – occupazione acquisitiva o usurpativa – di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.

La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.

Ne discende che è obbligo primario dell’amministrazione  procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.

(© Litis.it, 4 Giugno 2011 – Riproduzione riservata)

Consiglio di Stato, Sezione Quarta, Sentenza n. 3331 del 01/06/2011

FATTO

Con ricorso iscritto al n. 8750 del 2009, il Comune di Rodi Garganico propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione terza, n. 2023 del 17 agosto 2009 con la quale è stato accolto il ricorso proposto da Olivieri costruzioni s.r.l., inizialmente rivolto a conseguire il risarcimento del danno patito in relazione alla procedura espropriativa originata dall’approvazione, con delibera del 24 marzo 1988, del progetto per la realizzazione di un parco giochi per l’infanzia e successivamente, a seguito dell’atto di motivi aggiunti depositato in data 14 gennaio 2009, mirato anche ad ottenere la restituzione del fondo, a titolo di risarcimento in forma specifica.

Dinanzi al giudice di prime cure, con atto notificato e depositato rispettivamente il 16 ed il 30 novembre del 2007, la società ricorrente comproprietaria con eredi Antonio Saccia di suoli della particella n. 680 del foglio 7 in agro del Comune di Rodi Garganico, oltre che proprietaria di altri suoli sempre al fg. 7 particelle 219 e 1004, tutti ricadenti nella perimetrazione della zona omogenea C2, aveva proposto azione risarcitoria. Aveva fatto presente che i suoli della particella 680 ad essa ricorrente pervenuti a seguito della messa in liquidazione della soc. Immobiliare Viridiana Srl furono oggetto di occupazione d’urgenza giusto decreto sindacale n. 2535 dell’8 marzo 1989 e per la intera estensione di mq. 12.244 per la costruzione di parco giochi per l’infanzia (il verbale di consistenza e la immissione in possesso avveniva il 28 aprile 1989). Al tempo il sig. Olivieri quale amministratore unico della società Viridiana, con comunicazione del 27 aprile 1989 prot. n. 3497 indirizzata al Sindaco dichiarava la disponibilità alla cessione volontaria, bonaria e gratuita dei suoli “a condizione che la volumetria rinveniente dalla estensione dell’area di proprietà possa essere comunque realizzata attraverso la formazione di comparti, in modo cioè che gli oneri degli standards urbanistici non ricada unicamente sulla società Veridiana”. “Pertanto <si continuava nella proposta> nella formazione dei futuri strumenti urbanistici attuativi devono essere individuate le volumetrie spettanti alla stessa società”. La proposta veniva accettata dal Comune con delibera di Consiglio comunale n. 159 del 13 luglio 1989, ma successivamente l’amministrazione non provvedeva mai alla stipula formale del negozio di cessione, né alla emanazione del decreto di esproprio, anche dopo aver realizzato l’opera pubblica e ciò nonostante l’impegno formalmente assunto e ribadito con nota sindacale n. 5852 del 22 settembre 2000. Ciò premesso in punto di fatto, in diritto la ricorrente osservava che, non essendosi perfezionato il negozio di cessione e non essendo neppure stato emesso il decreto di esproprio nel termine di cinque anni dal decreto di occupazione dell’8 marzo 89 ed avendo nel contempo il Comune realizzato il parco giochi, si è verificata una lesione del diritto di proprietà di essa ricorrente in relazione all’occupazione sine titulo dell’area. Lamentava che il Comune, oltre a non aver stipulato un regolare atto di cessione, non aveva provveduto a redigere il piano particolareggiato dell’area assegnando al lotto residuo di proprietà Olivieri Costruzioni la volumetria dell’area acquisita, ai fini del concreto utilizzo.

Osservava quindi la ricorrente che si era avuto un illecito permanente da parte dell’amministrazione che utilizza il suolo altrui in mancanza di un decreto di espropriazione, ribadendo che il negozio di cessione volontaria abbisogna della forma scritta, a pena di nullità, e che l’accordo sull’ammontare della indennità viene a perdere di efficacia ove il procedimento, e per essere nelle more verificatesi la c.d. occupazione acquisitiva, non si concluda col negozio di cessione o con decreto di esproprio.

La ricorrente non era stata messa in condizioni di poter usufruire della volumetria dell’area acquisita dal Comune, posto che il PRG prevede che l’edificazione dell’area avvenga previa redazione di un piano attuativo esteso ad una superficie ben più ampia della residua area ancora in proprietà della ricorrente, la quale, facendosi carico degli oneri di progettazione, aveva essa stessa predisposto un piano attuativo, ostacolato dal Comune con motivazioni del tutto pretestuose.

Il Comune quindi doveva risarcire i danni patiti per lesione del diritto di proprietà derivante dall’occupazione senza titolo dell’area. Per quanto riguarda la natura dell’area, secondo la ricorrente ne è certo il carattere edificatorio in rapporto alla zona territoriale omogenea in cui la stessa è ricompresa. Per il valore va fatto riferimento al prezzo medio di mercato pari al momento dell’acquisizione illecita; la parte, che è proprietaria al 50% dell’area occupata, rivendica la somma di € 638.350,00 (euro 100,00 per mq.12757 diviso due = 638.350,00) più 237.034,00 per svalutazione, più 388.397,00 per interessi legali e quindi complessivamente euro 1.263.771,00.

Rivendica altresì indennità per occupazione legittima di cinque anni che quantifica in € 439.568,00 comprensivi di interessi ad oggi maturati (euro 159.307,00), oltre interessi sino al soddisfo.

Competente a decidere è poi il G.A. qui dotato di giurisdizione esclusiva.

Si costituiva in giudizio il Comune che con controricorso del 4 marzo 2008 contestava le avverse prospettazioni; faceva presente che il tutto muoveva da una proposta avanzata dal sig. Vincenzo Olivieri, già amministratore Unico della Immobiliare Veridiana srl, formalizzata con istanza del 27.4.1989 (un mese dopo il decreto di occupazione d’urgenza) di cessione volontaria, bonaria e gratuita dei suoi suoli ed alla condizione del recupero a titolo di corrispettivo da parte della società cedente della volumetria espressa dai suoli oggetto di ablazione, condizione questa realizzatasi attraverso l’approvazione del nuovo PRG che ha tipizzato le aree residue nella perimetrazione della zona omogenea C2 la cui edificazione è subordinata alla relazione di strumento urbanistico attuativo. Tra l’altro parte privata ebbe a presentare del maggio 2006 lottizzazione su cui il Comune ha solo avanzato richieste istruttorie. Eccepiva poi il Comune l’avvenuta prescrizione in quanto la cessione dei suoi è avvenuta in uno con la realizzazione del parco giochi agli inizi degli anni novanta, e quindi la domanda risarcitoria è proposta ben oltre il quinquennio.

Con atto di motivi aggiunti, contestuale a memoria difensiva, notificato in data 5 gennaio 2009 e depositato il successivo 14 gennaio parte ricorrente, muovendo sempre dalla mancata conclusione del procedimento di esproprio, sottolineando anche con richiamo alle disposizioni di cui all’art. 43 del t.u. sugli espropri n. 327 del 8 giugno 2001 che l’amministrazione non può diventare proprietaria di un bene in assenza di un titolo previsto dalla legge, ed aggiungendo ancora che non è dato ravvisare alcuna prescrizione perché il diritto di proprietà del privato per fatto imputabile alla p.a. non si prescrive, chiedeva la condanna del Comune alla restituzione del fondo su cui è stato realizzato il parco giochi.

La difesa del Comune ha decisamente contestato l’ultima richiesta parlando di inammissibile mutatio libelli più che di emendatio libelli e ribadendo, per il resto, quanto già espresso nelle sue prime memorie.

Il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R., dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in relazione alla domanda di liquidazione dell’indennità da occupazione legittima, accoglieva le richieste della parte ricorrente, facendo applicazione dell’art. 43 del t.u. in materia di espropriazione.

Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’erroneità della sentenza, riproponendo le doglianze avanzate in primo grado.

Nel giudizio di appello, si è costituita la Olivieri costruzioni s.r.l., chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.

Alla pubblica udienza del 25 gennaio 2011, il ricorso è stato discusso ed assunto in decisione.

DIRITTO

1. – L’appello non è fondato e va respinto, sebbene la sentenza del T.A.R. debba essere rivista nelle sue statuizioni a seguito dei mutamenti ordinamentali sopravvenuti.

2. – Con il primo motivo di diritto, il Comune contesta l’affermazione del giudice di prime cure secondo cui l’occupazione dei suoli di cui è causa sarebbe illegittima in quanto non sarebbe stato sottoscritto il contratto di cessione. Al contrario, argomenta l’appellante che, nel caso in specie, vi sarebbe stata la conclusione di un vero e proprio contratto, fondato sullo scambio di proposta (quella formulata dal sig. Olivieri quale amministratore unico della società Viridiana con comunicazione del 27 aprile 1989 prot. n. 3497) ed accettazione (quella data con delibera di Consiglio comunale n. 159 del 13 luglio 1989), secondo gli ordinari schemi civilistici.

Da tale lettura dei fatti emergerebbe, da un lato, il perfezionamento della fattispecie acquisitiva secondo gli schemi valevoli nelle negoziazioni tra privati e, dall’altro, l’attribuzione della giurisdizione sulla vicenda al giudice ordinario, trattandosi di una fattispecie contrattuale.

2.1. – La ricostruzione operata dal Comune non è condivisibile.

Occorre evidenziare che l’oggetto del contendere, e quindi il contenuto dei due atti sopra evocati e qualificati dall’appellante come proposta ed accettazione, è la richiesta operata dal privato di conseguire dal Comune un intervento di carattere pianificatorio in tema urbanistico. Infatti, la comunicazione del 27 aprile 1989 prot. n. 3497 evidenziava la disponibilità della società a cedere in via bonaria i suoli di sua proprietà “a condizione che la volumetria rinveniente dalla estensione dell’area di proprietà possa essere comunque realizzata attraverso la formazione di comparti, in modo cioè che gli oneri degli standards urbanistici non ricada unicamente sulla società Veridiana”.

Si tratta quindi di un tipo di oggetto contrattuale, se proprio si vuol mutuare la terminologia privatistica fatta propria dall’appellante, che coinvolge profili di azione amministrativa di carattere autoritativo, ossia modi di cura dell’interesse pubblico che sono del tutto estranei alla libera disponibilità delle parti, dovendo invece essere regolati secondo il regime del diritto amministrativo, in particolare perché tesi a regolare valori aventi influenza anche al di fuori del rapporto tra le singole parti direttamente interessate.

La qualificazione di una tale tipologia di atti è quindi unicamente quella di atti consensuali interni al procedimento amministrativo a cui accedono o, per usare la terminologia della legge n. 241, peraltro successiva allo scambio di comunicazione tra le parti, di accordi procedimentali, integrativi o sostitutivi del provvedimento finale.

Tale qualificazione, che da un lato permette di espungere la prevalenza della valutazione di carattere civilistico della fattispecie e dall’altro di confermare l’attribuzione della giurisdizione a questo plesso; permette anche di valutare come correttamente il giudice di prime cure abbia escluso la formazione di un legittimo accordo tra le parti.

Infatti, accanto ai motivi di carattere formale evidenziati in sentenza (ossia l’assenza di una stipulazione con atto pubblico), la ragione reale per cui non si può accedere alla ricostruzione della difesa appellante attiene all’oggetto del presunto rapporto contrattuale, che è invece una vicenda di diritto pubblico, esplicitamente sottratta alla libera disponibilità delle parti, come ha confermato la disciplina sopravvenuta della legge n. 241 del 1990 che, all’art. 13, ha confermato che, per l’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione.

In concreto, l’ipotesi sostenuta dall’appellante, ossia l’esistenza di una generale ed atipica potestà del Comune di dare vita a forme non tipizzate di urbanistica contrattata, non trova riscontro nell’ordinamento che, al contrario, individua esattamente ed univocamente ambiti e limiti entro i quali tali negoziazioni possono avere vita, contestualmente predisponendo sistemi di tutela anche degli interessi dei terzi, secondo il sistema tipico del diritto amministrativo.

Inquadrata concettualmente in tal modo la fattispecie, si deve convenire sulla correttezza delle conclusioni cui giunge il giudice di prime cure, il quale, seppur facendo riferimento al solo dato formale della mancata redazione del contratto in forma scritta a pena di nullità, evidenzia come nel caso in specie il procedimento espropriativo non si sia perfezionato e che mai il Comune abbia potuto acquisire la proprietà dei beni di proprietà dell’attuale appellata.

Vanno invece disattese le ulteriori affermazioni contenute in sentenza, e aventi chiaramente natura di obiter dictum, sulle quali si sofferma la difesa appellante, che tende ad evidenziare come, da parte sua, il Comune abbia ottemperato alle condizioni indicate nella comunicazione del 27 aprile 1989 prot. n. 3497. Non essendo sorto alcun rapporto di natura contrattuale tra le parti, gli atti ulteriori posti in essere dal Comune vanno valutati solo come autonoma espressione della potestà pianificatoria dell’ente.

3. – Con il secondo motivo di diritto, viene dedotta la prescrizione delle domande proposte dall’originaria ricorrente, evidenziando come, dal momento dell’intervenuta trasformazione del fondo, si sia determinato il trasferimento della proprietà in favore dell’ente e, conseguentemente, sia prescritto il relativo credito risarcitorio. Nel dettaglio, il decreto sindacale di occupazione d’urgenza n. 2535 dell’8 marzo 1989 stabiliva che le opere dovessero essere completate entro il termine di cinque anni e che, effettivamente, il completamento dei lavori si è avuto nel maggio del 1991. Pertanto, a parere del Comune, la pretesa risarcitoria è da considerarsi perenta a far data dal marzo 1996, ossia allo scadere del termine quinquennale decorrente dal completamento dei lavori.

In merito poi alla domanda di restituzione del fondo, avanzata a seguito dell’atto di motivi aggiunti depositato in data 14 gennaio 2009, la difesa del Comune ribadisce l’eccezione di inammissibilità, in quanto avente il valore di una mutatio libelli.

3.1. – Le doglianze del Comune non hanno fondamento.

In merito alla questione dell’inammissibilità della domanda restitutoria, come già osservato in prime cure, non si assiste in questa sede ad alcuna mutatio. L’eccezione sollevata, nella quale si coglie l’eco della disciplina delle eccezioni di inadempimento in ambito contrattuale, non considera che la doppia azione proposta è espressione della tutela approntata dall’ordinamento in favore dell’amministrato, in base alla quale la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito. Si tratta quindi, in assenza di una disciplina preclusiva, non già di una mutatio, ma solo di una emendatio libelli, assolutamente compatibile con il sistema vigente.

Per quanto attiene poi il tema della prescrizione, occorre svolgere una considerazione più articolata che parte però da una premessa ineludibile, ossia quella dell’intervenuta espunzione dal nostro ordinamento dell’istituto dell’acquisizione de facto della proprietà in mano pubblica a seguito della realizzazione di un’opera pubblica.

Questa Sezione ha già precisato (Consiglio di Stato, sez. IV, 30 gennaio 2006, nr. 290) che l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di un superamento dell’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato operata in relazione al diritto comune europeo.

Partendo dall’esame della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve ritenersi che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera). Nella sentenza citata, la Corte ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non fosse impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità – occupazione acquisitiva o usurpativa – di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.

La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.

Ne discende che, tranne che l’amministrazione intenda comunque acquisire il bene seguendo i sistemi che di seguito saranno evidenziati, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.

4. – Così inquadrato il tema della vicenda, osserva la Sezione che, stante la sopravvenuta declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del testo unico sulle espropriazione, la parte della sentenza gravata che fa riferimento a tale norma la fine di dettare prescrizioni all’ente pubblico deve ritenersi non più corretta.

Non potendo più essere azionato tale meccanismo procedimentale accelerato, deve ritenersi che il Comune abbia unicamente la possibilità di ottenere il consenso della controparte per la stipula di un contratto di vendita, anche con funzione transattiva, oppure agisca con un nuovo procedimento espropriativo.

La Sezione deve quindi unicamente pronunciarsi sulle modalità cui dovrà attenersi l’amministrazione per la quantificazione del danno risarcibile, fermo rimanendo che, perpetuandosi l’illegittima detenzione fino al momento dell’acquisizione della proprietà, fino a quel momento permarrà anche l’obbligo di tenere indenne il privato dalla conseguenze illegittime del fare amministrativo.

4.1. – Acclarato che non può essere risarcito il danno alla proprietà, in quanto il diritto dominicale permane in capo al privato non legittimamente espropriato, il risarcimento del danno deve allora operare in relazione alla illegittima occupazione del bene, è illecito permamente, e deve pertanto coprire le voci di danno da questa azione derivanti, dal momento del suo perfezionamento fino alla giuridica regolarizzazione della fattispecie.

Ciò impone quindi l’individuazione del momento iniziale e di quello finale del comportamento lesivo.

In relazione al termine iniziale, questo deve essere identificato nel momento in cui l’occupazione dell’area privata è divenuta illegittima, il che significa che decorre dalla prima apprensione del bene, ossia dalla sua occupazione, qualora l’intera procedura espropriativa sia stata annullata, oppure dallo scadere del termine massimo di occupazione legittima, qualora invece questa prima fase sia rimasta integra.

In relazione al termine finale, questo deve essere individuato nel momento in cui la pubblica amministrazione acquisterà legittimamente la proprietà dell’area. A tal proposito, deve evidenziarsi come la già citata interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha eliminato ogni possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e quello autoritativo del procedimento espropriativo. Ciò è avvenuto dichiarando l’illegittimità, per contrasto con il principio di legalità, delle ricostruzioni che miravano ad individuare fatti o comportamenti (e quindi l’avvenuto completamento dell’opera pubblica o la richiesta del solo risarcimento come momento abdicativo implicito della proprietà) idonei a sostituire i sistemi legali di acquisto della proprietà. Infine, anche lo strumento di cui all’art. 43 del testo unico sull’espropriazione (che di fatto dava vita ad un procedimento espropriativo accelerato) è stato espunto dall’ordinamento, giusta la sentenza della Corte costituzionale n. 293 dell’8 ottobre 2010.

Pertanto, l’amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso, ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. L’illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono quindi fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all’acquisto della proprietà, indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente.

4.2. – Venendo ai profili quantificatori, stanti le premesse appena svolte, possono riferirsi unicamente a due diverse fattispecie: quella dell’acquisto del bene tramite moduli consensuali e quella della quantificazione del danno dovuto per l’occupazione illegittima avutasi medio tempore.

Come già la Sezione ha avuto modo di precisare (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 676) in relazione al valore da corrispondere al privato, dovrà tenersi conto di quello di mercato dell’immobile, individuato “non già alla data di trasformazione dello stesso (non potendo più individuarsi in tale data, una volta venuto meno l’istituto della c.d. accessione invertita, il trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione), e nemmeno a quella di proposizione del ricorso introduttivo (non potendo, come detto, ravvisarsi in tale atto un effetto abdicativo), bensì alla data in cui sarà adottato il più volte citato atto transattivo, di qualsiasi tipo, al quale consegua l’effetto traslativo de quo”.

In relazione poi al danno intervenuto medio tempore, e quindi a quello conseguente dall’illegittima occupazione, intercorrente tra i termini iniziali e finali sopra precisati, “i danni da risarcire corrisponderanno agli interessi moratori sul valore del bene, assumendo quale capitale di riferimento il relativo valore di mercato in ciascun anno del periodo di occupazione considerato; le somme così calcolate andranno poi incrementate per interessi e rivalutazione monetaria dovuti dalla data di proposizione del ricorso di primo grado fino alla data di deposito della presente sentenza”.

5. – Le prescrizioni sopra imposte sono idonee a conformare l’azione amministrativa, rendendo ragione sia delle domande proposte dalla parte appellata [le cui ragioni di danno sono fondamentalmente di tre tipi: i danni subiti in relazione alla occupazione legittimamente subita, ossia quella dal giorno 8 marzo 1989, data del decreto sindacale di occupazione d’urgenza, fino allo scadere del termine quinquennale di sua validità; il danno per illegittima perdita della proprietà; il danno per l’illegittima perdita dell’utilità derivante dal bene, (dal giorno 9 marzo 1994 fino alla data di effettivo soddisfo)], sia delle relative eccezioni di prescrizione che, trattandosi di danni permanenti, non possono essere accolte.

Le stesse prescrizioni sono idonee a risolvere anche le questioni poste con il terzo ed il quarto motivo di censura, in cui si evidenzia l’erroneità nella quantificazione del danno subito, in relazione a due ordini di motivi: da un lato, la valutazione del valore del bene ablato andava fatta in relazione al valore dalla stesso avuto al momento dell’apprensione in mano pubblica; dall’altro, si evidenzia come la stessa area, a norma della successiva destinazione impressale dagli strumenti urbanistici, avrebbe dovuta essere ceduta gratuitamente, con una previsione che veniva ad azzerare il suo valore di mercato.

La soluzione proposta, che si allinea alla recente posizione giurisprudenziale e normativa di valorizzazione del valore venale del bene, è idonea a superare le dette doglianze.

6. – L’appello va quindi respinto. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalla parziale novità della questione.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:

1. respinge l’appello n. 8750 del 2009;

2. compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nelle camere di consiglio del giorno 25 gennaio 2011 e del 15 marzo 2011, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – con la partecipazione dei signori:

Paolo Numerico, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere, Estensore
Andrea Migliozzi, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 01/06/2011

 

 

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