Da giochi di abilità a slot machine: manomissione da frode informatica
Il gestore di un locale che altera un apparecchio da intrattenimento per dribblare la maggiore tassazione ottiene, infatti, un ingiusto profitto con “artifici o raggiri”
Così ha stabilito la sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 18909 del 30 aprile.
Il caso
I giudici della Corte di cassazione hanno confermato l’ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva disposto la misura degli arresti domiciliari a carico del gestore di una sala giochi che, in accordo con coloro i quali agivano come incaricati di pubblico servizio, aveva prima alterato e poi installato nei propri locali degli apparecchi da gioco.
A seguito della suddetta modificazione, gli apparecchi, che originariamente erano previsti per semplici giochi di abilità, assoggettati a imposte da versare in maniera forfetaria, erano stati trasformati in vere e proprie slot machine, ossia apparecchi che, in quanto caratterizzati da completa aleatorietà, sarebbero stati soggetti a un maggiore tributo, pari al 13,5% delle somme giocate.
Pertanto, come effetto della manomissione, il gestore dei locali e gli agenti incaricati di pubblico servizio incassavano e trattenevano illecitamente le somme dovute al monopolio di Stato.
Il regime degli apparecchi da gioco
La disciplina in materia di apparecchi da gioco è contenuta nell’articolo 110 del regio decreto n. 773 del 1931 (Tulps – Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza).
La disposizione in commento prevede due diverse categorie di apparecchi da gioco.
La prima (comma 6) è relativa ad apparecchi (slot machine) che producono vincite e per i quali è prevista l’emissione, da parte dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, di un nulla osta alla distribuzione e alla messa in esercizio. In tal caso, è tassativamente prevista l’instaurazione di un collegamento telematico tra gestore e pubblica amministrazione, che consenta di monitorare l’attività di gioco che lo Stato affida a terzi in concessione e di riscontrare le imposte effettivamente versate all’Erario. Con tale meccanismo, infatti, l’amministrazione può rilevare il volume di gioco e determinare il numero di vincite a titolo di imposta dovute (prelievo erariale unico), pari al 13,5% delle somme giocate, ed è altresì garantita la percentuale di vincite da erogare agli utenti, pari per legge al 75% su un ciclo di 140mila partite.
La seconda categoria (comma 7) riguarda gli apparecchi di puro svago, che non erogano premi, incentrati sull’abilità del giocatore e assoggettati a imposte versate forfettariamente.
Il reato di frode informatica
La manomissione ideata dall’indagato, in accordo con gli incaricati di pubblico servizio, ha fatto sì che le macchine collocate nei propri locali, anziché riprodurre giochi di abilità, come originariamente previsto, raffigurassero in realtà vere e proprie slot machine.
Gli apparecchi così alterati non proponevano giochi correlati all’abilità del giocatore, ma giochi caratterizzati da completa aleatorietà, ed erogavano vincite con modalità esterna alla macchina, atteso che i “punti” della vincita venivano in realtà convertiti in denaro (e annotati in brogliacci trovati all’interno degli apparecchi).
Inoltre, il numero di partite per ciascun giocatore era illimitato, con possibilità di vincite superiori al limite consentito per legge.
Tale meccanismo aveva consentito agli indagati l’appropriazione indebita della quota, pari al 13,5% del costo di ciascuna partita, non monitorata e dovuta a titolo di prelievo erariale.
L’adita Corte di cassazione ha sancito che, con “l’introduzione, in apparecchi elettronici per il gioco di intrattenimento senza vincite, di una seconda scheda, attivabile a distanza, che li abilita all’esercizio del gioco d’azzardo (cosiddette “slot machine”), trattandosi della attivazione di un diverso programma con alterazione del funzionamento di un sistema informatico“, si ravvisano gli estremi del reato di frode informatica.
A parere dei giudici di legittimità, la frode informatica è un’ipotesi speciale di truffa, “della quale conserva tutti i tratti costitutivi, fra cui proprio la condotta fraudolenta (artifizi e raggiri) finalizzata ad ottenere un ingiusto profitto con altrui danno“, con l’unica differenza che nel primo reato l’attività fraudolenta non investe la persona, bensì il sistema informatico di pertinenza del medesimo soggetto, attraverso la manipolazione di detto sistema.
Nella lunga sentenza in commento, i giudici della Suprema corte hanno affrontato un ulteriore aspetto, sorto in considerazione del fatto che uno degli agenti del concorso di reato fosse un pubblico ufficiale o, più precisamente, “un incaricato di pubblico servizio“.
Il quesito posto all’attenzione della Corte attiene al corretto inquadramento, per la fattispecie in esame, dei reati di frode informatica e di peculato.
Riprendendo la costante giurisprudenza in materia, i giudici di legittimità hanno affermato che si ravvisa il reato di frode quando gli artifici e i raggiri posti in essere dal pubblico ufficiale (o da un incaricato di pubblico servizio) sono antecedenti all’appropriazione fraudolenta del denaro (o di un bene mobile) spettante allo Stato: pertanto l’appropriazione, che costituisce il momento consumativo del reato, è di conseguenza posteriore all’attività illecita.
Nel peculato, invece, i termini della questione sono invertiti, perché il pubblico ufficiale ha già, per effetto del proprio ruolo, il possesso del bene o del denaro, che segna il momento consumativo del reato, mentre l’eventuale condotta fraudolenta serve solo per occultare il reato già consumato.
In altri termini, si ravvisa frode, e non peculato, quando il soggetto attivo (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), non avendo il possesso del denaro (o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione), “se lo procuri in maniera fraudolenta, facendo ricorso ad artifici o raggiri per procurarsi un ingiusto profitto“.
Alla luce di tali principi, la fattispecie in esame certamente configura il reato di frode informatica.
Infatti, i raggiri e gli artifici, ossia la manomissione degli apparecchi prima dell’installazione nei locali di proprietà del gestore, avevano comportato che i macchinari non fossero assoggettati alla più pesante tassazione prevista per le slot machine (pari al 13,5% delle giocate effettuate).
Per effetto dell’alterazione, il gestore e gli incaricati di pubblico servizio finivano per trarre in inganno il Monopolio dello Stato, che non era messo nelle condizioni di poter riscuotere il tributo dovuto e, conseguentemente, potevano incassare e trattenere illecitamente la quota del 13,5 per cento.