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Natura giuridica di una struttura sanitaria privata rispetto alla domanda di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale

 Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza 473 del 14/01/2015

Occupandosi della natura giuridica della posizione soggettiva attiva di una struttura sanitaria privata rispetto alla domanda di accreditamento con il servizio sanitario nazionale, le sezioni unite di questa Corte, chiamate a pronunciarsi in ordine alla devoluzione al giudice amministrativo, piuttosto che a quello ordinario, della relativa controversia, hanno escluso che il nuovo regime dell’accreditamento, di cui all’art. 8 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come integrato dall’art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e successive modificazioni, abbia inciso sulla natura del rapporto esistente tra struttura privata ed ente pubblico preposto all’attività sanitaria, all’uopo precisando che tale rapporto era e resta di tipo concessorio, con la sola particolarità, rispetto al regime preesistente, che nel nuovo sistema si è in presenza di concessioni ex lege di attività di servizio pubblico, di tal che la relativa disciplina è dettata in via generale dalla legge, pur con rinvii integrativi a norme di secondo grado o regionali e nella perdurante vigenza, in ogni caso, dei poteri di programmazione, di vigilanza e di controllo delle Regioni sull’espletamento dell’attività concessa (confr. Cass. civ. sez. un. 8 luglio 2005, n. 14335). Ed è significativo che di tali poteri venga predicata l’inerenza non solo alle concrete modalità di erogazione delle prestazioni oggetto della convenzione, ma anche alla valutazione del loro fabbisogno da parte dell’utenza, valutazione correlata all’impossibilità che le stesse siano fornite direttamente dalle strutture pubbliche (Cons. di Stato 2 febbraio 2010, n. 454).

Più nello specifico, mentre nel sistema inaugurato dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833, il principio di libera scelta della prestazione sanitaria da parte dell’assistito non era assoluto, dovendo contemperarsi con la disciplina posta da altre norme – come l’art. 19 della legge 11 marzo 1988 n. 67, e le disposizioni regionali che ad essa rinviavano – le quali consentivano l’accesso alle strutture private convenzionate con il servizio sanitario nazionale ponendo due condizioni: che il servizio pubblico non fosse in grado di soddisfare la richiesta di prestazioni specialistiche entro un tempo determinato e che la USL territorialmente competente avesse rilasciato apposita autorizzazione alla struttura privata; l’idea di fondo del nuovosistema è quella di conformare l’organizzazione del servizio sanitario su un modello di tipo anglosassone di concorrenza amministrata o quasi mercato, caratterizzato dall’esistenza di una pluralità di soggetti erogatori, tra i quali i cittadini hanno piena libertà di scelta e le cui prestazioni vengono rimborsate attraverso tariffe standard dall’ente pubblico finanziatore (confr. Cass. civ. 25 gennaio 2011, n. 1740).

Peraltro l’esigenza di contemperare gli obiettivi di liberalizzazione con la necessità di blindare la spesa pubblica nel settore sanitario ha trovato il suo punto di equilibrio nel disposto dell’art. 2, comma 7, d.P.R. 14 gennaio 1997, n. 37, a tenor del quale la qualità di soggetto accreditato non costituisce vincolo per le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale a corrispondere la remunerazione delle prestazioni erogate, al di fuori degli appositi rapporti di cui all’art. 8, commi 5 e 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, nell’ambito del livello di spesa annualmente definito. Di talché, in definitiva, non solo l’accesso alla qualifica di erogatore del servizio continua ad essere mediata da un provvedimento concessorio, sia pure a contenuto legislativamente regolamentato, ma nessuna erogazione di prestazione sanitaria finanziariamente coperta dalla mano pubblica è possibile ove non sussista un provvedimento amministrativo di competenza regionale che riconosca alla struttura la qualità di soggetto accreditato e al di fuori di singoli, specifici rapporti contrattuali.

Quanto sin qui detto consente di cogliere le insufficienze dell’approccio degli esponenti, la cui linea difensiva è tutta incentrata, in contrasto con il diritto vivente testé richiamato, sulla pretesa inidoneità dell’istituto dell’accreditamento a determinare l’instaurazione di un rapporto concessorio tra ente privato ed ente pubblico, nonché, con riferimento alla terza transazione, sulla sua inerenza al danno connesso a una condotta dell’ente qualificabile in termini di responsabilità precontrattuale, e cioè a una fattispecie, in tesi, particolarmente emblematica dell’errore prospettico posto a base della sentenza impugnata.

E invero, pacifico che i primi due accordi sono venuti a innestarsi in già attivi sistemi di erogazione delle prestazioni – rilievo che evidentemente spiega lo scarso impegno degli impugnanti con riferimento agli stessi – è assai difficile sostenere l’estraneità del terzo a uno schema operativo della pubblica amministrazione fondato sulla cooptazione delle strutture private nella somministrazione di servizi che ad essa, e non ad altri, mettono capo, considerato che, per quanto innanzi detto, l’accreditamento determina, già da sé, l’instaurazione di un rapporto concessorio.

Val la pena a questo punto ricordare che, sul piano sistematico, l’ampliamento della responsabilità erariale a soggetti non ricompresi nell’apparato amministrativo è avvenuto attraverso il (( cavallo di troia ” dell’elaborazione di una nozione di rapporto di servizio in senso ampio, quale rapporto configurabile tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo all’ente, si trovi investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore dello stesso, venendo conseguentemente a inserirsi nella sua organizzazione e ad assumere particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali, cui l’attività medesima, nel suo complesso, è preordinata (Cass. civ. sez. un. ord. 22 settembre 2014; Cass. civ. sez. un. 9 febbraio 2011, n. 3165; Cass. civ. sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; Cass. civ. 9 settembre 2008, n. 22652). Siffatti approdi sono stati giustificati, sul piano letterale e sistematico, con il rilievo che l’art. 52 del r.d. 12 luglio 2934, n. 1214, applicabile agli amministratori e al personale degli enti locali in forza dell’art. 58 legge 8 giugno 1990 1 n. 142, a sua volta trasfuso nell’art. 93 del d.lgs. 15 maggio 2000, n. 127, manifesta il trasparente intento di non limitare la categoria dei destinatari delle norme in materia di responsabilità amministrativa ai soli soggetti che abbiano instaurato con lo Stato o con altro ente pubblico un rapporto di impiego vero e proprio, dato che menziona, oltre agli impiegati, i funzionari e gli agenti, civili e militari, tout court, siano essi dipendenti ovvero comunque retribuiti da amministrazioni, aziende e gestioni pubbliche; sotto il profilo teleologico si è invece rimarcato che interpretazioni restrittive delle disposizioni che fissano l’ambito della giurisdizione del giudice contabile appaiono tanto meno giustificabili quanto più siano suscettibili di risolversi nella restrizione del numero degli obbligati a risarcire il danno in definitiva provocato dall’agente all’intera comunità (confr. Cass. sez. un. 4 gennaio 2012, n. 11; Cass., sez. un., 4 novembre 2009, n. 23332).

Se tutto questo è vero, l’assunto secondo cui la giurisdizione della Corte dei conti non possa essere riconosciuta laddove, come nella fattispecie, il danno è stato cagionato da accordi corruttivi nell’ambito dei quali il solo funzionario pubblico ha agito per l’ente di appartenenza, mancando una relazione funzionale idonea a calare il privato all’interno dei meccanismi gestionali dell’amministrazione – assunto intorno al quale ruotano i motivi di ricorso in esame – poggia su una lettura riduttiva e fuorviante della realtà fattuale sottesa alla decisione del giudice contabile. Le transazioni delle quali sono stati chiamati a rispondere i ricorrenti sono invero il frutto di una mala gesti° del rapporto concessorio in essere tra ente e struttura privata, di quel rapporto, cioè che, iniziato con il riconoscimento a Fenig s.r.l. della qualità di soggetto accreditato, ha determinato l’inserimento della stessa, in modo continuativo e sistematico, nella organizzazione della Pubblica Amministrazione, relativamente al settore della assistenza sanitaria.

Del resto, ragionando con riferimento a un caso in cui il giudizio per danno patrimoniale era stato promosso in relazione alla indebita richiesta, e alla conseguente, indebita corresponsione di un finanziamento ad una società a responsabilità limitata per la realizzazione dei suoi programmi imprenditoriali, queste sezioni unite, nell’affermare la giurisdizione della Corte dei conti, hanno segnatamente evidenziato che il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è ormai spostato dalla qualità del soggetto – che può ben essere un privato o un ente pubblico non economico – alla natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché ove il privato, cui siano erogati fondi pubblici, determini, con la sua condotta, un significativo sviamento dell’ente dalle finalità perseguite, lo stesso realizza un danno per l’ente pubblico, del quale deve rispondere davanti al giudice contabile (confr. Cass. civ. sez. un. 3 marzo 2010, n. 5019; Cass. civ. sez. un. 1° marzo 2006, n. 4511).

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