Arte & Cultura

DUE OPUSCOLI DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA LIBERTA’ DELLA CULTURA.

di Pancrazio Caponetto – L’Associazione Italiana per la libertà della cultura ( Ailc ) nacque nel 1951 come branca del Congress for cultural freedom, per iniziativa di Nicola Chiaromonte, intellettuale antitotalitario, e dello scrittore Ignazio Silone. Il Congress for cultural freedom era sorto a Berlino Ovest nel 1950 come risposta dell’Occidente al Congresso mondiale degli intellettuali per la pace tenutosi a Breslavia nel 1948. Furono due momenti della Guerra fredda culturale tra comunismo sovietico e Occidente liberale. Il Congresso di Breslavia fu un episodio della strategia culturale del comunismo internazionale e vide la partecipazione di numersi intellettuali tra cui gli italiani Emilo Sereni, Salvatore Quasimodo e Antonio Banfi. Il Congress for cultural freedom, invece, fu opera di intellettuali anticomunisti come Arthur Koestler e Ignazio Silone, antitotalitari come Margarete Buber – Neumann ( reduce dai lager nazisti e dai gulag sovietici ) e il filosofo svizzero Denis De Rougemont e uomini di cultura scampati alla morsa sovietica, tra cui il polacco Jerzy Giedroyc e il cecoslovacco Karel Kupka. Tra gli italiani, oltre ai citati Silone e Chiaromonte, spiccavano Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo, e il giovane giornalista Enzo Forcella.Il Congress godeva del sostegno di fondazioni e sindacati americani e di un comitato internazionale indipendente formato, fra gli altri, dai filosofi Bertrand Russel,Benedetto Croce, Jacques Maritain, Raymond Aron,dal pedagogista John Dewey, dallo scrittore John Dos Passos, dall’uomo politico francese Leòn Blum.
L’Ailc si schierava decisamente nel campo dell’Occidente, ma Silone e Chiaromonte non condividevano le punte estreme dell’anticomunismo americano ( maccartismo ). ” Indipendenza dai partiti, separazione delle responsabilità politiche da quelle culturali, libertà e drastica opposizione ai totalitarismi,opposizione al comunismo per i metodi praticati dalla dittatura: di questi capisaldi ispiratori si nutriva la filosofia politica e culturale di Silone e Chiiaromonte…” ( Massimo Teodori in La parabola della Repubblica ).
All’atto di fondazione dell’Ailc venne stilato un manifesto degli intellettuali dal quale stralciamo un passo:
” Noi riteniamo che il mondo moderno possa proseguire nel suo avanzamento solamente in virtù di quel principio di libertà della coscienza, del pensiero, dell’espressione, che si è faticosamente conquistato nei secoli passati.
Riteniamo che in quanto uomini e cittadini anche coloro che professano le arti e le scienze siano tenuti ad impegnarsi nella vita politica e civile, ma che al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una o per l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica, sia loro dovere custodire e difendere la propria indipendenza, e che gravissima e senza perdono sia la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa.”
L’Ailc fu attiva per oltre un decennio e gli intellettuali che vi aderirono si impegnarono nella difesa dei diritti individuali e delle libertà culturali : ” denunciarono la violazione della libertà religiosa e le censure nelle opere d’arte…Soprattutto difesero la libertà di stampa, avanzarono proposte per la revisione dei codici fascisti e combatterono le imposizioni del governo e dell’opposizione comunista in tema di arte e scienza denunziando la pena di morte e i misfatti degli Stati autoritari. “( Massimo Teodori in La parabola della Repubblica ).
L’Ailc, inoltre, pubblicò una serie di opuscoli: profili di intellettuali, saggi di filosofia, letteratura, storia. Ne considereremo due dedicati a Piero Gobetti e Ernesto Buonaiuti, intellettuali che lasciarono il segno nella cultura italiana del primo Novecento.
Partiamo dal testo di Umberto Morra, Il messaggio di Piero Gobetti. Morra, scrittore, antifascista, liberale, amico e collaboratore di Gobetti, pubblicò, nel 1952, questo volumetto con l’intento di diffondere tra i giovani linee e caratteristiche del pensiero dell’intellettuale torinese per invogliarli a conoscerlo direttamente. Le prime pagine dello scritto sono dedicate a riassumere nei punti essenziali la vita di Gobetti, dalla fondazione della sua prima rivista Energie Nove ( 1918 ), alla pubblicazione di Rivoluzione liberale ( 1922 ), alla sua battaglia contro il fascismo, alla fatale aggressione squadrista, fino all’esilio parigino e alla morte ( 15 febbraio 1926 ). Morra passa poi ad analizzare le principali opere di Gobetti: Risorgimento senza eroi e La rivoluzione liberale. Nel primo testo l’intellettuale torinese denunciava la mancanza di eroismo, la mancata partecipazione popolare alla rivoluzione nazionale. Nel Risorgimento il liberalismo invece di allearsi con le masse è stato complice delle monarchie è non si è identificato con la democrazia.” Questa assenza del pensiero di Stato, come Stato – popolare, – scrive Morra citando Gobetti – è poi la deficienza di tutto il nostro Risorgimento fallito “. Tra gli uomini di Stato protagonisti della nostra rivoluzione nazionale, spicca, per Gobetti Cavour. ” La storia civile della penisola – egli scrive, citato da Morra – pare talvolta il soliloquio di Cavour, che da una materia ancora informe in dieci anni di diplomazia cerca di trarre gli elementi della vita economica moderna e i quadri dello Stato laico. ”
Quanto a La rivoluzione liberale Morra si sofferma sulle pagine in cui Gobetti esalta l’affermarsi in Italia di “vigorose minoranze operaie “; disegna un breve ritratto di Antonio Gramsci suo “compagno ed educatore “; analizza la natura del fascismo e del “fenomeno “ Mussolini .
Per Gobetti nel triangolo industriale Genova – Torino – Milano si era formato un proletariato moderno che non pensava a “scomposte rivolte” ma a creare un “ordine nuovo “ . Con tenacia e intransigenza esso aveva ottenuto i suoi diritti civili rendendosi degno degli altri proletariati europei e conquistandosi un posto nell’Europa lavoratrice del futuro. Per Morra si tratta di considerazioni quasi profetiche pensando al ruolo degli operai Fiat negli scioperi del ‘43 e nella Resistenza contro il nazifascismo.
In Gramsci Gobetti vedeva, scrive Morra,”l’eversore di un fiacco costume del socialismo nostrano di quel tempo “. Nel 1914 il socialismo torinese, secondo Gobetti, peccava di “impreparazione e superficialità “ in quanto riprendeva dal giolittismo “ un gretto neutralismo, arido,privo di motivi spirituali, utilitarista”, ripugnante a “un partito di popolo “. Profondamente diverse da queste tradizioni erano la preparazione e la fisionomia spirituale di Gramsci. Nella figura di Lenin, leader della rivoluzione bolscevica, gli sembrava agire una “volontà eroica di liberazione “ che doveva essere per il proletariato italiano, un “incitamento a una libera iniziativa operante dal basso. “ “ E’ un Gramsci – commenta Morra – visto in parte sotto lo stimolo delle teorie di Gaetano Mosca ( un altro degli autori di Gobetti ) suscitatore e scopritore di aristocrazie” in grado di muovere il corso della storia.
Infine il fascismo e Mussolini.
” Il fascismo – scrive Gobetti con giudizio che Morra giudica intimamente profetico – si risolverà in un pacifismo imbelle e astensionista per la sua incapacità di educare gli italiani alla responsabilità, per la sua indulgenza al sogno idillico di un regime paterno. ”
” Il fascismo in Italia – aggiunge Gobetti – è un’indicazione di infanzia perchè sogna il trionfo della facilità,della fiducia dell’entusiasmo. ” Fascismo dunque, commenta Morra, come “sfogo infantile “, come sfogo di quelli che per Gobetti sono gli anti – eroi. A questa stagnante condizione esistenziale e politica Gobetti preferiva di gran lunga l’asprezza della lotta politica: ” Confessiamo di aver sperato – scriveva – che la lotta tra fascisti e social – comunisti dovesse continuare senza posa….” E ancora : ” Privi di interessi reali, distinti, necessari gli italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte.Ma è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile…”
Quanto a Mussolini Gobetti vedeva nell’agire politico del duce una ripresa del trasformismo giolittiano ” con più decisi espedienti teatrali “. ” Le doti del politico – osserva l’intellettuale torinese – si riducono tutte ad astuzie di manovre e a calcoli tattici… ” ” Il mussolinismo è dunque – aggiunge Gobetti – un risultato assai più grave del fascismo stesso perchè ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza. ” Parole da ricordare, osservava Morra, perchè la società italiana del dopoguerra gli appariva ancora propensa a sostiture il lungo cammino di consapevolezza, di responsabilità e di lotte con il fascino e le arti personali di un ” capo” pronto a ” fare per lei “.
Nonostante limiti, imprecisioni, frammentarietà, ” la visione generale che Gobetti ebbe degli eventi di quegli anni – scrive Morra in conclusione del suo opuscolo – può ancora valere come un orizzonte nuovo” e ” tante delle sue convinzioni e delle sue ‘scoperte’ si protraggono fino a noi, come fossero d’oggi. ” In particolare la denuncia del carattere infantile della “media borghesia ” italiana, pare a Morra definitiva per la conoscenza della vita politica italiana. Non meno interessanti ci sembrano le riflessioni gobettiane sulla mancata partecipazione popolare al Risorgimento e le sue analisi sul ” fenomeno” Mussolini, sul culto del “capo “, tratto distintivo della società italiana. Sono considerazioni che fanno di Gobetti uno degli intellettuali di spicco della cultura italiana del primo Novecento, nonchè un costante punto di riferimento per ogni coscienza di antifascista.
Il secondo opuscolo di cui ci occupiamo è dedicato a Ernesto Buonaiuti, che fu, secondo Raffaello Morghen ( autore nel 1956 dell’opera ), ” tra le figure più singolari ed eminenti della cultura italiana dell’ultimo cinquantennio” .
Morghen storico medievista, incontrò Buonaiuti, guida del modernismo italiano e docente di Storia del cristianesimo, nel 1916 e ne fu fortemente influenzato sul piano personale, religioso e scientifico. Dedicò questo volumetto a Buonaiuti un uomo che ” per la libertà della cultura e per gli ideali di una più elevata vita civile e religiosa, combattè, nella solitudine e nel dolore, una dura battaglia che non può e non deve essere oggi dimenticata. ”
Buonaiuti, rimasto orfano da fanciullo, entrò ancora adolescente nel Pontificio Seminario romano dell’Apollinare dove fu educato nelle forme del più rigido tomismo. Fin dalla giovinezza si appassionò agli studi di storia della Chiesa e del cristianesimo. All’origine della sua formazione vi è la tradizione della storiografia romantica e, secondo Morghen, ” quel filone di cattolicesimo risorgimentale che aveva sognato una idillica conciliazione tra l’Evangelo di Cristo e le nuove aspirazioni del movimento liberale. ”
Il percorso culturale di Buonaiuti non fu senza momenti di crisi.In particolare egli visse con profondo turbamento il contrasto tra i due mondi, quello della tradizione religiosa e quello della nuova cultura laica. Il contrasto, manifestatosi fin dai tempi di Galilei col dibattito sulla validità della sacra Scrittura nelle questioni di scienza, si era riacceso nel secolo XIX nel campo della storia. Negli studi sul cristianesimo primitivo, la storiografia moderna considerava i testi sacri come tutte le altre fonti sulle quali si esercitava la ricerca storica. Citando una lettera di Buonaiuti del 1921, Morghen individua le strade che condussero il giovane studioso a riaffermare la sue fede : l’accettazione della critica storico – filologica moderna e, soprattutto, il ritorno alla pura fede del VangeIo. ” Il banco di prova – scrive Morghen – sul quale Ernesto Buonaiuti saggiò per la prima volta la validità delle sue posizioni spirituali fu la lotta modernistica. ”
Il modernismo fu un movimento di rinnovamento del cattolicesimo nato tra la fine del XIX° secolo e l’inzio del XX°, che si proponeva di adattare la religione cattolica a tutte le conquiste dell’epoca moderna nel dominio della cultura e del progresso sociale. Tra i maggiori esponenti vi furono, in Francia, Alfred Loisy, biblista e storico, in Italia Ernesto Buionaiuti.
Quest’ultimo iniziò a diffondere il suo programma di azione religiosa attraverso due opere stampate anonime Il programma dei modernisti e Lettere di un prete modernista e con la pubblicazione della Rivista storico – critica delle scienze teologiche che contava migliaia di abbonati tra il clero italiano.
Il modernismo venne condannato da Papa Pio X con l’enciclica Pascendi del 1907. L’enciclica passò cone un ” vento devastatore “, scrive Buonaiuti, citato da Morghen, sul movimento. Pertanto il clero per “una deviante volontà di rivalsa ” – continua Buonaiuti – si gettò nelle competizioni politico – sociali. E quando, dopo la Grande Guerra, ” l’Italia avrebbe avuto più bisogno di raccogliersi austeramente e spiritualmente in un lavoro di arricchimento culturale e morale che la rendesse degna del suo nuovo destino, questo clero rissoso e accaparrante si diede anima e corpo, sotto l’egida della Segreteria di Stato, a quel partito popolare che doveva abbattere le costruzioni della classe dirigente liberale italiana ed aprire il varco alla così detta rivoluzione fascista ».
Anche Buonaiuti fu travolto dal ” vento devastatore “. Perse la cattedra di storia ecclesiastica che da giovanissimo teneva al Seminario romano dell’Apollinare e la rivista che dirigeva fu costretta a cessare le pubblicazioni. Al contrario però di molti preti modernisti che gettarono la tonaca, egli rimase tenacemente attaccato alla Chiesa. In questa scelta si manifestava l’espressione più genuina della sua religiosità, che era “permeata – ricorda Morghen – dal senso del valore sacrale della vita associata. Per lui non esisteva possibilità di vita religiosa se non nella comunità dei fratelli. ”
Quando tutto sembrava volgere al peggio venne per Buonaiuti, nel 1915, l’ingresso nel mondo accademico con la cattedra di Storia del Cristianesimo all’Università di Roma. Intorno a lui si formò un cenacolo di giovani ammiratori del maestro di scienza e di vita spirituale. Vi erano cattolici liberali, cattolici di rigida osservanza, ebrei, protestanti, giovani non appartenenti ad alcuna confessione religiosa. Tutti uniti dall’intento di Buonaiuti di costruire ” nella atmosfera dell’esperienza religiosa paolina, un primo nucleo di quella più vasta comunità di spiriti dalla quale egli sperava potesse avere inizio, con il ritorno al Vangelo, il rinnovamento della società. ” ( Raffaello Morghen, Ernesto Buonaiuti ).
Ma la travagliata esistenza di Buonaiuti non era conclusa. Nel 1921, denunciato al S. Uffizio dai gesuiti della rivista Civiltà Cattolica, per la pubblicazione di un volume di esegesi paolina, venne scomunicato. Reintegrato nella comunità ecclesiastica per intervento del Segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, venne scomunicato una seconda volta nel 1924, provvedimento ribadito definitavamente nel 1926. Era il tempo delle trattative tra Santa Sede e Regime fascista ,che avrebbero portato al Concordato del 1929 e in questo clima Buonaiuti fu messo al bando dalla società religiosa e dalla società civile: venne allontanato dalla sua cattedra di Storia del Cristianesimo, quando il fascismo impose ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime, e comandato presso l’Istituto Storico Italiano del Medioevo. Da allora in poi ” per circa un ventennio – scrive Morghen – Ernesto Buonaiuti trascorse la sua vita operosa nell’isolamento e nella povertà, disseminando tra amici e discepoli devoti i tesori inesauribili della sua dottrina e della sua anima evangelica. ”
Con la liberazione dell’ Italia dal nazifascismo, Buonauti si dedicò all’attività giornalisitica, al lavoro di conferenziere e di pubblicista, convinto, nell’atmosfera del dopoguerra, che la società italiana avesse ancora bisogno dei valori del cristianesimo per una sua rigenerazione. Ernesto Buonaiuti morì a Roma nel 1946. Raffaello Morghen nel suo opuscoletto, pubblicato dall’Ailc dieci anni dopo, così riassume il senso della sua esistenza e del suo percorso culturale : ” Ai cattolici il pensiero di Buonaiuti dovrebbe essere di stimolo ad approfondire maggiormente le ragioni della loro fede e della loro tradizione; ai laici la vicenda di Buonaiuti dovrebbe far presente la necessità di difendere con maggior consapevolezza i valori della cultura, che sono i valori stessi della coscienza umana e della libertà, affermatisi anch’essi sul grande tronco della tradizione cristiana.”

I due opuscoli dell’Ailc dedicati a Gobetti e Buonaiuti si possono leggere, insieme ad altri nella Biblioteca Gino Bianco:
www.bibliotecaginobianco.it



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