Andreotti: il “processo del secolo” approda in Cassazione
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Undici
anni dopo la richiesta di autorizzazione a procedere, avanzata dalla Procura
diretta da Giancarlo Caselli, arriva in Cassazione il processo per mafia a
Giulio Andreotti. Nel 1993 era stato definito il ”processo del secolo” ma il
dibattimento è durato tanto che, per arrivare alla conclusione, di secoli ne ha
dovuto attraversare addirittura due. Per Andreotti, che si era augurato comunque
di giungere ”in vità’ fino alla fine, è già il risultato più importante.
In Cassazione approda un caso controverso. L’uomo più rappresentativo della
prima Repubblica, dopo avere incassato l’assoluzione piena per l’uccisione del
giornalista Mino Pecorelli, è chiamato a rispondere dell’ accusa di avere
stretto con la mafia un patto scellerato. O comunque, come sostiene la sentenza
d’ appello, avrebbe mantenuto verso Cosa nostra un atteggiamento di ”amichevole
disponibilità”. Almeno fino al 1980. Poi avrebbe cambiato registro e si
sarebbe anzi impegnato a promuovere iniziative rigorose contro i boss. La difesa
ha sempre parlato di un processo senza prove e giudicato le tesi accusatorie ”inconsistenti”
oppure basate su ”fatti inesistenti”. Il senatore, sette volte presidente del
Consiglio, non si è limitato a rivendicare un coerente impegno antimafia. Ha
anche sostenuto che le iniziative legislative adottate dai suoi governi non
sarebbero il frutto di una politica del ”doppio gioco” o del ”doppio binario”
ma di una scelta radicalmente ”contraria agli interessi di Cosa nostrà’. E
percio’ chiede un’ assoluzione piena che cancelli ogni ombra di dubbio sul suo
impegno contro la mafia.
Il processo era cominciato, in un’aula gremita e davanti alle televisioni di
tutto il mondo, il 26 settembre 1995. In primo grado si era concluso il 23
ottobre 1999 con una sentenza di assoluzione. In appello la corte presieduta da
Salvatore Scaduti, il 2 maggio 2003, aveva scelto una soluzione più articolata:
prescrizione per i fatti contestati fino al 1980 e assoluzione per il periodo
successivo. I giudici hanno in sostanza distinto, nella vita di Andreotti, un ”primà’
caratterizzato da relazioni di scambio con le cosche e un ”dopo” di segno
opposto.
La tesi di fondo dell’ accusa è sostenuta dalle dichiarazioni di 37 pentiti, da
Tommaso Buscetta a Nino Giuffrè. I perni principali del rapporto tra Andreotti
e la mafia sarebbero stati l’ eurodeputato Salvo Lima, capo della corrente in
Sicilia ucciso nel 1992, e gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Attraverso i loro
canali il senatore si sarebbe assunto il ruolo di grande ”referentè’ delle
cosche. E lo avrebbe fatto, sottolinea la sentenza d’appello, con la ”piena
consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti
con alcuni mafiosi”.
Nella ricostruzione dell’ accusa ha trovato spazio anche un episodio poi
giudicato ”inverosimilè’, riferito da Balduccio Di Maggio: il famoso ”bacio”
con Toto’ Riina. L’incontro avrebbe dovuto suggellare l’impegno di Andreotti per
un ”aggiustamento” del maxi processo. La richiesta della mafia sarebbe stata
preceduta da segnali pesanti. Nel 1986 avrebbe mandato un ”avvertimento” alla
Dc dirottando sul Psi e sui radicali un consistente pacchetto di voti. Ma quando
la Cassazione confermo’ le condanne per la ”cupolà’, Cosa nostra avrebbe
inviato al senatore altri messaggi terrificanti: prima fu ucciso Salvo Lima, poi
Ignazio Salvo.
Questa parte dell’impianto accusatorio non ha pero’ retto al giudizio della
corte d’appello secondo la quale la rottura tra Andreotti e Cosa nostra si
sarebbe consumata oltre vent’anni prima. L’episodio cruciale è stato
rintracciato nell’uccisione del presidente della Regione, Piersanti Mattarella,
avvenuta il 6 gennaio del 1980. I giudici definiscono ”eroico” l’impegno di
Mattarella teso a riportare in un contesto di legalità l’ attività della
Regione. I boss erano per questo irritati e avrebbero chiesto al senatore di
”trovare una soluzione politicà’. In caso contrario, avrebbero risolto la
questione in modo ”cruento”.
Dopo una prima sottovalutazione Andreotti, ha raccontato il pentito Francesco
Marino Mannoia, si sarebbe ”precipitato” in Sicilia per tentare una mediazione
incontrando il boss Stefano Bontade in una riserva di caccia del costruttore
catanese Carmelo Costanzo. Mattarella fu assassinato lo stesso e Andreotti, che
pure era un avversario politico del presidente della Regione, ne rimase
sconvolto. Da quel momento, è detto nella sentenza d’appello, l’atteggiamento
del senatore nei confronti di Cosa nostra sarebbe cambiato.