Penale

Le misure alternative sono applicabili anche ai clandestini, CASSAZIONE PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 7458 del 27/04/2006


IMMIGRAZIONE – STRANIERO EXTRACOMUNITARIO CLANDESTINO O
IRREGOLARE – MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE CARCERARIA – APPLICABILITA’

In materia di esecuzione della pena detentiva,
le misure alternative alla detenzione in carcere (nella specie, l’affidamento in
prova al servizio sociale), sempre che ne sussistano i presupposti stabiliti
dall’ordinamento penitenziario, possono essere applicate anche allo straniero
extracomunitario che sia entrato illegalmente nel territorio dello Stato e sia
privo del permesso di soggiorno.

 

 

Con una innovativa sentenza
la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che “in materia
di esecuzione della pena detentiva, le misure alternative alla detenzione in
carcere, sempre che ne sussistono i presupposti stabiliti dall’ordinamento,
possono essere applicate anche allo straniero extracomunitario che sia entrato
illegalmente nel territorio dello Stato e sia privo del permesso di soggiorno
“.

In particolare il caso di
specie è relativo ad una ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari del
17.02.05 che aveva ammesso un cittadino extracomunitario alla misura alternativa
dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Tale provvedimento veniva
impugnato dalla Procura della Repubblica che denunciava l’erronea applicazione
dell’art. 47 Ord. Penit., sulla base del principio di diritto enunciato dalla
giurisprudenza di legittimità secondo cui le misure alternative alla detenzione
sono inapplicabili allo straniero che si trovi in condizione di clandestinità.

Le misure alternative alla
detenzione sono ispirate al principio della funzione rieducativa, sancito
nell’art. 27 della Cost..

Le stesse, infatti,
sostituendosi alle pene detentive, che comunque devono essere considerate come
estrema razio e utilizzabili quando non si possa, in nessun modo, garantire la
funzione cui la pena è diretta, abituano il condannato alla vita di relazione,
rendendo più efficace l’opera di risocializzazione.

Le misure alternative
rientrano nella più ampia opera dell’ordinamento penitenziario operata dalla L.
26.7.75 n. 354.

Tali misure possono
incidere soltanto sulla fase esecutiva della pena principale e sono di
competenza del Tribunale di Sorveglianza.

In questa sentenza viene
riesaminata la questione, ripercorrendo tutte le tappe delle interpretazioni
della giurisprudenza, attraverso il paragone tra le interpretazioni contrastanti
esistenti.

Secondo un primo indirizzo (Cass., Sez. I,
20/5/2003, Calderon, rv. 226134; Sez. I, 5/6/2003, Mema, rv. 225219; Sez. I,
11/11/2004, P.G. in proc. Hadir, rv. 230191; Sez. I, 22/12/2004, P.G. in proc.
Raufu Emiola Orolu), l’affidamento in prova ed in generale tutte le misure
alternative non possono essere concesse alo straniero extracomunitario che si
trovi in situazione di clandestinità, essendo tale ultima situazione preclusiva
all’applicazione di misure extramurarie, perchè, nel rigore della normativa
dettata dal vigente testo unico sull’immigrazione, è oggettivamente impossibile
instaurare l’interazione tra il condannato e il servizio sociale a causa
dell’illegale permanenza nel territorio dello Stato, nè puo’ ammettersi che
l’esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la
violazione o l’elusione delle regole che configurano detta illegalità.

L’opposto e più recente orientamento sostiene,
invece, che la condizione dello straniero clandestino o irregolare, pur se
soggetto ad espulsione amministrativa da eseguire dopo l’espiazione della pena,
non è di per sè ostativa alla concessione di misure extramurarie.

Tale linea interpretativa, dapprima affermatasi
in riferimento alla semilibertà (Cass., Sez. I, 14/12/2004, P.G. in proc.
Sheqja, rv. 230586), è stata ripresa e sviluppata da una successiva sentenza
riguardante l’affidamento in prova al servizio sociale (Cass., Sez. I,
18/5/2005, Ben Dhafer Sami, rv. 232104), cui hanno poi aderito altre decisioni
della stessa Sezione (Sez. I, 18/10/2005, P.G. in proc. Tafa; Sez. I,
25/10/2005, P.G. in proc. Chafaoui; Sez. I, 24/11/2005, P.G. in proc. Metalla).

Quest’ultima misura, giusta le ripetute affermazioni del
Giudice delle leggi e di quello di legittimità (v., da ultimo, Cass., Sez. Un.,
27/2/2002, Martola), costituisce “una misura restrittiva di esecuzione penale”,
“una pena essa stessa, alternativa alla detenzione o se si vuole una modalità
di esecuzione della pena”, e che le relative prescrizioni hanno “carattere
sanzionatorio-afflittivo”, al pari di ogni conseguenza restrittiva discendente
da una condanna penale.

Le Sezioni Unite, nel caso di specie, hanno condiviso il
secondo dei richiamati indirizzi giurisprudenziali,

sottolineando, anzitutto, che l’ordinamento penitenziario non opera alcuna
discriminazione del relativo trattamento sulla base della liceità, o non, della
presenza del soggetto nel territorio dello Stato italiano, e non contiene alcun
divieto, esplicito o implicito, di applicazione delle misure alternative alla
detenzione a favore del condannato straniero che sia entrato o si trattenga
illegalmente in Italia.

La Corte ha poi ritenuto,
considerando i preminenti valori costituzionali della uguale dignità delle
persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, comma 3, Cost.),
che l’applicazione di dette misure non puo’ essere esclusa, a priori, nei
confronti dei condannati stranieri, che versino in condizione di clandestinità
o di irregolarità e siano percio’ potenzialmente soggetti ad espulsione
amministrativa da eseguire dopo l’espiazione della pena.

La Corte trae il proprio
convincimento da una ragione di fondo: la tutela della dignità della persona,
indipendentemente dal suo diritto a stare in Italia, è alla base delle norme
che regolano il sistema delle pene alternative, da applicare senza
differenziazioni di nazionalità non esistendo alcuna incompatibilità tra
l’espulsione da eseguire a pena espiata e le opportunità che l’Ordinamento
offre per favorire il reinserimento nella società.

Non conta, quindi, che il
clandestino sia stato raggiunto da un decreto di espulsione, che lo allontanerà
dall’Italia quando avrà scontato la sua pena.

Il giudizio richiesto per la applicazione delle
misure alternative non puo’ considerarsi precluso sulla base di una sorta di
presunzione assoluta di inidoneità delle stesse per un’intera categoria di
persone, gli stranieri extracomunitari presenti illegalmente in Italia,
restringendo la risocializzazione all’interno di “connotati nazionalistici”.

Non esiste, infatti, un regime penitenziario
che, incurante dei principi costituzionali di uguaglianza  e di finalità
rieducativa della pena, comporti un divieto assoluto di applicazione delle
misure alternative alla detenzione nei confronti degli extracomunitari, la cui
applicazione è, inoltre, da valutare  caso per caso.

Secondo la Corte la tesi di un inderogabile
divieto di applicazione delle misure alternative, che
muove solo sulla situazione di irregolarità dello straniero, contrasta,
peraltro, con la prassi amministrativa per la quale anche lo straniero
condannato puo’ essere ammesso alle dette misure (v. le circolari Min. lavoro,
15/3/1993 n. 27 – richiamata dalla nota 11/1/2001 -; Min. giustizia, 23/3/1993
n. 691858, 16/3/1999 n. 547899 e 12/4/1999 n. 547671; Min. interno, 2/12/2000 n.
300 e 4/9/2001 n. 300/01).

L’opposta tesi della incompatibilità tra misure alternative ed
esecuzione della pena per lo straniero trova, invece, fondamento nelle
disposizioni dell’art. 16 comma 5 del D.Lgs 286/98, e nell’art. 15 L. 189/02
che, in particolare prescrive che “Nei confronti dello straniero, identificato,
detenuto, che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’art. 13 comma 2
[clandestino, irregolare o pericoloso, e percio’ soggetto ad espulsione
prefettizia], che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore
a due anni, è disposta l’espulsione”.

La Corte ha smontato tale tesi sottolineando come non sia possibile
dare a tale tipo di espulsione carattere generalizzante, atteso che, proprio
nella formulazione del comma 5 del citato art. 16, si puo’ desumere una
inoperatività dell’istituto per una larga fascia di situazioni.

La “sanzione alternativa” non puo’ essere disposta, infatti, nei
confronti dello straniero in regime di esecuzione penale, che non sia
“identificato”, nè “detenuto”, o debba scontare una pena detentiva, anche
residua, superiore a due anni (art. 16, comma 5, primo periodo), ovvero sia
stato condannato per “uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett.
a), c.p.p.” e per “delitti previsti dal presente testo unico” (secondo periodo).

Occorre aggiungere che l’applicabilità della sanzione, oltre ad
essere generalmente esclusa nei casi di divieto di espulsione per le ragioni
lato sensu umanitarie indicate dall’art. 19 (art. 16, comma 9), ben potrebbe
essere altresi’ paralizzata, di fatto, da particolari circostanze che ne
impediscano la concreta esecuzione.

Non essendo consentito, per tali soggetti anticipare l’espulsione,
nè rinvenendosi alcun divieto di accesso alle misure alternative è proprio il
provvedimento del Tribunale di Sorveglianza a costituire “titolo” idoneo a
sospendere l’espulsione amministrativa e a legittimare la permanenza dello
straniero sul territorio nazionale, nonchè l’eventuale svolgimento di una
attività lavorativa per il periodo del provvedimento stesso.

A conclusione la Corte ha stabilito il seguente principio di
diritto “In materia di esecuzione della pena detentiva, le misure alternative
alla detenzione in carcere (nella specie, l’affidamento in prova al servizio
sociale), sempre che ne sussistano i presupposti stabiliti dall’ordinamento
penitenziario, possono essere applicate anche allo straniero extracomunitario
che sia entrato illegalmente nel territorio dello Stato e sia privo del permesso
di soggiorno”.

 

Lorenzo Sica

 


CASSAZIONE PENALE, Sezioni
Unite, Sentenza n. 7458 del 27/04/2006   
(Presidente
N. Marvulli, Relatore G. Canzio)

 

RITENUTO IN FATTO

1. – Con ordinanza del 17/2/2005, il Tribunale di sorveglianza di Sassari
applicava ad A.R., condannato per i reati di detenzione di banconote e marche da
bollo falsificate e detenuto in carcere in esecuzione della pena di anni due di
reclusione, la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale,
ritenendo sussistenti le condizioni prescritte dall’art. 47 ord. penit..

Rilevava il Tribunale, alla luce della documentazione prodotta, della nota
informativa della Questura di Milano e delle relazioni del competente GOT, che
l’A.R., a carico del quale non risultavano carichi pendenti e che aveva espiato
parte della pena, aveva tenuto in carcere una condotta regolare, svolgendo con
impegno le mansioni di stalliere e di pastore e dimostrando una seria volontà
di reinserimento anche in occasione della fruizione di permessi premio, poteva
contare su un gruppo familiare coeso e aveva l’opportunità di andare a vivere a
Milano presso l’abitazione della cognata e di svolgere attività lavorativa in
una pizzeria, il cui ambiente offriva garanzie di serietà. Di talchè,
l’affidamento in prova, atteso il positivo percorso compiuto dal condannato,
appariva misura idonea a favorirne il reinserimento sociale e ad evitare il
pericolo di commissione di altri reati.

Il Procuratore Generale presso la sezio

https://www.litis.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *