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Nei gradi “sostanziali” di giudizio c’è spazio per ridurre la pretesa – Cassazione Civile, Sentenza 23171/2010

Una caratteristica del processo tributario è quella di poter intervenire nel merito dell’accertamento

Il giudice tributario, quale “arbitro” del rapporto, può modificare il contenuto dell’accertamento, diminuendo l’importo preteso dall’ufficio e motivando tale riduzione correttamente, con riferimento agli elementi e alle circostanze di causa.
Lo ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza n. 23171 del 17 novembre.

Il caso
Un contribuente ha impugnato l’avviso di accertamento relativo a Irpef, Ilor e Ssn, emesso nei suoi confronti per l’anno di imposta 1995. In particolare, l’ufficio, determinando sinteticamente il reddito netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali (ex articolo 38 Dpr 600/1973 vigente ratione temporis), ha presunto che la spesa per l’acquisto di un’azienda fosse stata sostenuta con i redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui la stessa spesa era stata effettuata e nei cinque anni precedenti.
Di conseguenza, ha imputato al 1995 un sesto (corrispondente a circa 73 milioni di vecchie lire) del reddito presuntivamente derivante dal predetto acquisto (per 490 milioni di lire) effettuato nel 1998 (previa detrazione della somma di 57 milioni – pervenuta al contribuente per successione nel 1997).

La sentenza di primo grado, che ha respinto il ricorso del contribuente e quantificato l’esborso iniziale relativo all’acquisto in 140,5 milioni, rilevando altresì che gli ulteriori pagamenti sono avvenuti negli anni successivi, è stata riformata in toto dalla sentenza della Commissione tributaria regionale di Milano.
I giudici d’appello, infatti, hanno accolto l’impugnazione del contribuente in relazione alla valutazione dell’esborso effettivo, provato dallo stesso appellante attraverso la produzione dell’atto di acquisto, qualificato come vendita a rate (con acconto iniziale, seguito da cambiali e da una rivendita nel 2001 dell’azienda, mediante accollo del residuo debito di 254 milioni di lire da parte del nuovo acquirente), senza tuttavia provvedere alla rideterminazione quantitativa della pretesa tributaria.

L’ufficio, quindi, si è visto annullare integralmente l’avviso di accertamento in quanto basato su un importo superiore a quello pagato dal contribuente.
Con ricorso alla Corte suprema, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza di secondo grado per violazione degli articoli 38, comma 5, Dpr 600/1973, e 2697 del codice civile, nonché per difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione, da parte dei giudici tributari, dell’articolo 38 citato.
A parere dell’Amministrazione finanziaria, infatti, la Commissione regionale avrebbe dovuto ridurre il reddito relativo al 1995 in relazione alla somma effettivamente pagata dal contribuente nel 1998 (secondo un insieme di calcoli esposti negli atti), ma non annullare completamente l’avviso impugnato.

La sentenza
Con sentenza n. 23171 del 17 novembre, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia statuendo che:
a) “il giudice tributario, che è giudice del rapporto, può modificare il contenuto dell’accertamento, nell’ambito dell’importo preteso dall’Ufficio, di cui le Commissioni tributarie possono operare la riduzione, ove correttamente motivata (Cass. n. 10816/2002), come riscontrabile dagli elementi e dalle circostanze di causa…”
b) “… secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. 15825/2006, 16252/2007; 13868/2010; 13132/2010) essendo il processo tributario annoverabile non tra i processi di ‘impugnazione/annullamento’, ma fra quelli di ‘impugnazione/merito’, in quanto non diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva, sia della dichiarazione del contribuente che dell’accertamento dell’Ufficio, il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare, come nella specie, l’atto impositivo, ma deve esaminare il merito della pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, ricondurla eventualmente nella corretta misura, purché entro i limiti, della domanda…”.

La Corte ha, quindi, individuato nel giudice tributario il giudice del rapporto d’imposta e ha giustificato tale ruolo in relazione alle caratteristiche del processo tributario il cui oggetto non è il solo atto tributario bensì anche il rapporto giuridico d’imposta.
In passato, i giudici di legittimità avevano statuito che, “il giudice, il quale ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’amministrazione, non deve né può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal ‘petitum’ delle parti …”(con riferimento a un errore di calcolo nella determinazione del valore dei beni strumentali, Cassazione, sentenza n. 17072/2010).
Tale quantificazione deve essere effettuata, “… quanto alla congruità della pretesa tributaria, entro i limiti fissati rispettivamente dal reddito dichiarato dal contribuente e da quello accertato dall’ufficio … sì che il giudice tributario può dare alla pretesa dell’amministrazione un contenuto quantitativo diverso da quello sostenuto dalle parti contendenti, avvalendosi degli ordinari poteri di indagine e di valutazione dei fatti e delle prove consentiti dagli artt. 115 e 116 c.p.c.,… in tal modo determinando il reddito effettivo del contribuente, e senza che ciò costituisca attività amministrativa di nuovo accertamento, rappresentando invece soltanto l’esercizio dei poteri di controllo, di valutazione e di determinazione del quantum della pretesa tributaria …”(Cassazione, n. 1852/2008).
E intanto, il giudice tributario può esercitare tali poteri poiché, come ricordato dalle Sezioni unite con sentenza n. 13916/2006, “… il processo tributario si estende anche al merito e all’accertamento del rapporto e non è (solo) un “giudizio sull’atto” (da annullare)…”,con la conseguenza che“…il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento … per motivi … di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria…”.

Inoltre, come riconosciuto dalla Corte suprema, tra i poteri del giudice tributario vi è anche quello, “… ove ricorrono i necessari presupposti processuali della sua rituale investitura, … di esaminare … tutti i possibili aspetti del potere sanzionatorio esercitato dall’ente impositore, nonché il potere di determinare (nell’ambito delle richieste delle parti) l’entità delle sanzioni effettivamente dovute. Quando il giudice è investito della valutazione di un atto impositivo che non ha correttamente determinato la sanzione (nel caso di specie, per non avere applicato l’istituto della continuazione ex art. 12 d.lgs. n. 472 del 1997), non deve limitarsi a dichiarare la nullità dell’atto medesimo, ma deve provvedere a rideterminare l’entità delle sanzioni effettivamente dovute (nell’ambito delle richieste delle parti)…”(Cassazione, sentenza n. 25376/2008).

Tuttavia questi poteri non sono senza limiti. Si fermano, infatti, alle domande e ai valori dedotti dalle parti, essendo precluso alle Commissioni tributarie provinciali e regionali di effettuare qualificazioni giuridiche e determinazioni quantitative diverse da quelle indicate dalle parti o comunque differenti da quelle riscontrabili dagli elementi e dalle circostanze di causa.Nel caso in esame, spetterà al giudice del rinvio, sulla base dell’effettivo esborso del contribuente nel 1998, accertato e non contestato ulteriormente dall’Agenzia, di rapportare le quote di reddito presunto nel quinquennio precedente e di effettuare il relativo calcolo.

Romina Morrone
fonte: nuovofiscooggi.it

 

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