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Liberamente valutabili dal giudice le dichiarazioni di terzi raccolte nelle operazioni di verifica – Cassazione Civile, Sentenza n. 23996/2010

Da sole non hanno valore probatorio, ma insieme ad altri indizi concorrono alla formazione della decisione

Le dichiarazioni di terzi raccolte nel processo verbale di constatazione rappresentano indizi liberamente valutabili dal giudice tributario; da sole, tuttavia, non possono costituire piena prova dei fatti a cui si riferiscono.

In questi termini si è espressa la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23996 del 26 novembre, con cui ha confermato il proprio consolidato orientamento circa il valore probatorio da attribuire, nell’ambito del processo tributario, alle dichiarazioni rese da terzi alla Guardia di finanza o ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate, nel corso delle attività ispettive.

Il divieto di prova testimoniale
La norma chiave della pronuncia, per l’aspetto esaminato in questa sede, è l’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992, in base al quale “Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” nel processo tributario.
In forza di tale disposizione, pertanto, la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, è stata spesso investita della questione dell’ammissibilità e del valore probatorio da attribuire alle cosiddette “dichiarazioni di terzi” rese ai pubblici ufficiali dell’Amministrazione finanziaria nel corso delle operazioni di verifica.
Tali dichiarazioni, infatti, non potendo essere considerate come prove testimoniali scritte, avrebbero potuto essere escluse in sede di processo tributario. La Cassazione, però, le ha sempre considerate ammissibili e anche liberamente valutabili dal giudice di merito alla stregua, tuttavia, di meri indizi e non di prove piene, come si desume anche dalla decisione assunta dai Supremi giudici con la pronuncia in commento.

La sentenza
Una società riceveva un avviso di rettifica Iva con cui l’ufficio competente accertava a suo carico un debito d’imposta e l’inesistenza di un credito, sulla base di un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, con cui erano stati ritenuti indeducibili alcuni costi, in quanto derivanti da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse da una Srl e da un’altra ditta individuale.

Il contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale, che si pronunciava a suo favore. I giudici osservavano che il pvc della Guardia di finanza era fondato sulle dichiarazioni del direttore amministrativo della società ricorrente e dell’amministratore della Srl che aveva emesso le fatture false, dichiarazioni che, secondo il collegio giudicante, costituivano prova testimoniale non ammissibile nel processo tributario.
Inoltre, la Commissione tributaria provinciale osservava che dagli accertamenti compiuti risultava che la Srl, nell’anno oggetto di controllo, aveva compiuto ingenti acquisti, tali da poter giustificare la vendite nei confronti della ricorrente e anche le operazioni poste in essere dalla succitata ditta individuale, secondo i giudici di prima istanza, potevano considerarsi “veritiere”.

Di diverso avviso, invece, si dimostrava la Commissione tributaria regionale che, a seguito dell’appello dell’ufficio, ribaltando la decisione di primo grado, emetteva una sentenza favorevole all’Amministrazione finanziaria.

Proponeva allora ricorso per Cassazione la contribuente, con ben dieci motivi, tutti, però, puntualmente respinti dalla Suprema corte.
Con il primo di essi, la società ricorrente denunciava la violazione dell’articolo 63 del Dpr 633/1972, per non essersi sufficientemente pronunciata la Commissione tributaria regionale sull’illegittima utilizzazione di atti coperti da segreto investigativo in assenza dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria.
La Cassazione ha ribadito, al riguardo, che la mancanza della “preventiva autorizzazione dell’A.G. non rende nulla l’utilizzazione stessa ma può semmai determinare conseguenze penali o disciplinari a carico degli utilizzatoci (Cfr. Cass. 3852/2001)” e ha rigettato, quindi, il mezzo di ricorso.

Con il secondo e terzo motivo, trattati congiuntamente nella pronuncia di legittimità, il ricorrente censurava la sentenza di secondo grado per non aver colto la doglianza proposta in quella sede dal contribuente sull’illegittimo comportamento dell’ufficio che aveva emesso l’avviso di rettifica ignorando, tuttavia, il contenuto dei processi verbali di constatazione redatti nei confronti dei due soggetti che avevano posto in essere la falsa fatturazione (la Srl e la ditta individuale).
I giudici, nel rigettare anche tali motivi di ricorso, hanno osservato che dall’impugnata sentenza risulta che nel pvc della Guardia di finanza sono state riportate le dichiarazioni rese dal direttore della ricorrente e dall’amministratore della Srl in ordine ai rapporti intercorsi fra le due società e, altresì, che nel medesimo pvc sono indicati molteplici elementi di valutazione con riferimento ai rapporti intercorsi fra la società ricorrente e la ditta individuale che aveva emesso le fatture fittizie, “sicché deve escludersi che nella specie l’Ufficio abbia deciso senza conoscere il contenuto dei verbali … ed altresì che il contribuente, che era conoscenza del p.v.c., sia stato limitato nel suo diritto di difesa, essendo l’intero atto di rettifica essenzialmente fondato sul p.v.c. de quo”.

Il quarto, quinto, sesto e settimo motivo di ricorso, unitamente esaminati dal Supremo collegio, costituiscono il punto focale ai fini dell’argomento in trattazione, atteso che, con essi, la contribuente eccepiva l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da terzi e riportate nel processo verbale di constatazione, stante il divieto di prova testimoniale di cui all’articolo 7 del Dlgs 546/1992.
I giudici della Suprema corte, investiti della questione, hanno ricordato che la giurisprudenza di legittimità “ha già precisato, con statuizioni assolutamente condivisibili, che fermo il divieto di cui al richiamato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, le dichiarazioni di terzi trasfuse nel p.v.c. possono essere valutate dai giudici tributari alla stregua di indizi mentre non possono da sole costituire piena prova dei fatti. (Cass. civ. 14.05.2010 n. 11785; Cass. civ. 29.07.2005 n. 16032)”.
Principio preso in considerazione dalla Commissione tributaria regionale che, nell’esaminare i rapporti intercorsi fra la ricorrente e la Srl, aveva fatto riferimento non solo alle dichiarazioni dei rispettivi amministratori ma anche agli altri indizi desumibili dal processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, indizi riportati e specificati nella motivazione della sentenza. Analogamente per i rapporti con la ditta individuale, i giudici d’appello avevano fatto riferimento a una serie di elementi indicati analiticamente sempre nella motivazione della pronuncia impugnata. Pertanto, anche questi mezzi di ricorso sono stati rigettati.

Con l’ottavo motivo, la società ricorrente censurava la decisione dei giudici di secondo grado, che sarebbe stata basata soltanto sulle dichiarazioni di terzi, non essendo stato possibile suffragare tali dichiarazioni con altri indizi che si sarebbero dovuti desumere dai verbali redatti nei confronti dei fornitori della società, che, però, non erano mai stati resi disponibili. La Suprema corte, respingendo anche questo motivo, ha stabilito che “gli elementi di riscontro utilizzati dalla CTR sono stati desunti correttamente dal p.v.c. mentre non risulta che la soc. ricorrente abbia fornito elementi idonei a neutralizzare la valenza probatoria degli elementi de quibus”.

Il nono motivo di ricorso, invece, tendeva sostanzialmente a “proporre una diversa interpretazione degli elementi probatori valutati dal giudice di merito” e, pertanto, la Cassazione ne ha dichiarato l’inammissibilità.

Con il decimo e ultimo motivo, la società ricorrente censurava la sentenza impugnata nella parte in cui si limitava a sostenere l’indetraibilità dell’Iva relativa a operazioni inesistenti. Il contribuente osservava che, nella specie, non si trattava di indetraibilità ma di duplicazione di imposta avendo la società pagato l’Iva alla ditta cedente, che aveva l’obbligo di riversarla all’erario e che non può, quindi, chiederla sia al cedente che all’acquirente. La Cassazione, però, ha ritenuto infondato anche quest’ultimo motivo, statuendo che “nell’ipotesi di operazioni inesistenti la prova della legittimità e correttezza della detrazione incombe al richiedente. (ex plurimis Cass. civ. 27.01.2010 n. 1650; Cass. civ. 03.12.2001 n. 15228). Alla luce della riportata giurisprudenza irrilevante appaiono le argomentazioni del ricorrente in ordine alla duplicità di imposizione posto che la fittizietà dell’operazione comporta il mancato pagamento dell’IVA, salvo prova contraria che incombe appunto al richiedente”.

La Suprema corte, pertanto, ha respinto il ricorso della società, che è anche stata condannata al pagamento delle spese di giudizio.

Considerazioni conclusive
La sentenza appare ricca di spunti riflessivi, ma il tema più interessante è sicuramente la decisione di ammissibilità nel processo tributario delle dichiarazioni di terzi e soprattutto della capacità probatoria a esse attribuita dalla Suprema corte, che ha nuovamente confermato un orientamento ormai ampiamente consolidato. Appena un mese fa, infatti, la Cassazione, con la sentenza 21317/2010, aveva già richiamato “il costante insegnamento di questa Corte, secondo cui può darsi ingresso alle dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione Finanziaria o in altra sede qualificata, come ad ogni altro elemento indiziario acquisito in sede di verifica amministrativa, purché tali indizi trovino ulteriore riscontro nelle risultanze dell’accesso dei verbalizzanti (Cass., 10 marzo 2010, n. 5476; Cass., 12 febbraio 2010, n. 3389; Cass., 13 novembre 2006, n. 24200; Cass., 29 luglio 2005, n. 16032; Cass., 11 marzo 2002., n. 3526; Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18)”.

In conclusione, le dichiarazioni di terzi raccolte nel processo verbale di constatazione – secondo la Cassazione – sono liberamente valutabili dal giudice di merito alla stregua di meri indizi, atteso che l’integrazione di una prova piena, invece, richiederebbe ulteriori elementi concordanti a conforto delle stesse, come ribadito anche nella sentenza in commento, in cui, peraltro, è stato osservato che la prova a favore dell’Amministrazione finanziaria era stata correttamente ritenuta integrata dalla Commissione tributaria regionale in considerazione di una pluralità di elementi congiuntamente valutati.

Alessandro Borgoglio
nuovofiscooggi.it

 

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