CivileGiurisprudenza

Sanzionata Google suggest per aver associato il nominativo di una persona al termine “truffatore” – Tribunale Civile di Milano, Ordinanza 31/11/2011

Google Suggest, ossia l’elenco di termini suggeriti che compare digitando una o più parole chiave all’interno del box del motore di ricerca Google, dovrà creare un filtro ad hoc per alcuni suggerimenti che potrebbero essere potenzialmente pericolosi. LO ha deciso il tribunale di Milano a seguito della denuncia per diffamazione di un imprenditore finanziario secondo cui digitando il proprio nome e cognome venivano ad essi associati i suggerimenti “truffa” o “truffatore”.

Secodo Il Tribunale, la valenza diffamatoria dell’associazione di parole quali “truffa” o “truffatore” è innegabilmente di per sé foriera di danni all’onore onore, alla persona ed alla professionalità del soggetto vittima di tale accostamento. L’associazione tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore”, infatti, sebbene operata del software messo a punto appositamente e adottato da Google per ottimizzare l’accesso alla sua banca dati con modalità volutamente individuate e prescelte per consentirne l’operatività allo scopo voluto (quello appunto di agevolare l’utilizzo del motore di ricerca Google), non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale, degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema può determinare. Inconferente è l’obiezione mossa dalla società che sostiene di non essere un content provider, di non avere alcun ruolo rispetto al trattamento dei dati presenti sulle pagine dei siti internet gestiti e di proprietà di terzi e che l’abbinamento dei termini non è frutto di una “scelta” del motore di ricerca o dei suoi gestori, bensì “è la semplice rappresentazione di quello che soggetti terzi – gli utenti di internet che accedono al motore di ricerca – hanno ricercato con maggiore frequenza di recente.

E’ innegabile, si legge ancora nella ordinanza, che il servizio “suggest/Autocomplete” opera tramite il trattamento dei dati presenti sulle pagine web immesse da soggetti terzi, adottando come criterio di individuazione del termine utile a completare la ricerca (impostata dall’utente) i termini di ricerca più utilizzati dagli utenti – calcolando in via automatica e con cadenze regolari il numero di volte in cui la parola o la frase è stata inserita dagli utenti nella stringa di ricerca. Ed è proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determina il risultato rappresentato dagli abbinamenti che costituiscono previsioni o percorsi possibili di ricerca e che appaiono all’utente che inizia la ricerca digitando le parole chiave. Dunque è la scelta a monte e l’utilizzo di tale sistema e dei suoi particolari meccanismi di operatività a determinare – a valle – l’addebitabilità a Google dei risultati che il meccanismo così ideato produce; con la sua conseguente responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) per i risultati eventualmente lesivi determinati dal meccanismo di funzionamento di questo particolare sistema di ricerca. Si tratta di una scelta che ha chiaramente una valenza commerciale ben precisa, connessa con l’evidenziata agevolazione della ricerca e quindi finalizzata ad incentivare l’utilizzo (così reso più facile e rapido per l’utente) del motore di ricerca gestito da Google.

(© Litis.it, 12 Aprile 2011 – Avv. Marco Martini. Riproduzione riservata)

Tribunale Civile di Milano, Ordinanza 31/11/2011

Il Collegio, come sopra costituito, sciogliendo la riserva che precede

osserva

Il sig. A. B. ha proposto ricorso in via d’urgenza esponendo:

1) di essere un imprenditore del settore finanziario che si occupa, tra l’altro, di organizzare corsi formativi in materia finanziaria e di pubblicizzare la maggior parte delle sue attività tramite la rete internet;

2) di avere verificato che – utilizzando come motore di ricerca Google – non appena veniva digitato il nome B. o A. B. tramite il servizio “suggest search” (”ricerche correlate”) il sito web suggeriva di includere nella ricerca anche le parole “truffa” o “truffatore”.
Ritenendo il ricorrente che l’abbinamento al proprio nome di tali parole costituisca un suggerimento non solo falso, ma anche diffamatorio e dunque lesivo del suo onore, della sua immagine e della sua reputazione sia personale che professionale, ha chiesto al Tribunale di ordinare alla società resistente Google Inc. la rimozione dal proprio software “suggest” dell’associazione tra il proprio nome A. B. e le parole “truffa” e “truffatore”, con fissazione di un risarcimento per ogni giorno di ritardo nell’adempimento dell’ordine del giudice.

Il ricorrente evidenzia che “Google suggest search” (pag. 4 del ricorso) “rappresenta un servizio che, ricorrendo ad algoritmi matematici che operano in modo automatico, suggerisce all’utente termini o frasi da ricercare relativamente alle parole chiave inserite da quest’ultimo.
In particolare, non appena viene digitata la prima parte del nome, come nel nostro caso “B. t” o “B. tr “(uno degli aspetti maggiormente presenti nei corsi e nelle pubblicazioni del ricorrente è l’attività di “trading”), il software automatico apre una tendina sulla barra di digitazione che suggerisce di includere nella ricerca termini come “truffa” o “truffatore”, ritenendo che si tratti dei risultati delle ricerche che hanno avuto la maggiore popolarità tra gli utenti”. Ciò accade anche solo digitando il nome del ricorrente.

A tale proposito quest’ultimo evidenzia come nel caso di specie le informazioni di cui si discute non siano quelle direttamente memorizzate sul server, bensì siano frutto dell’intervento su di esse operato da un software creato appositamente da Google per facilitare la ricerca da parte degli utenti.

Lamenta il sig. B. non già la mancata adozione ad opera di Google di filtri preventivi – da inserire nel software – idonei ad impedire il verificarsi di abbinamenti di parole o comunque di suggerimenti inappropriati e lesivi dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, ma il fatto che la resistente non abbia comunque provveduto ex post ad intervenire sul sistema per eliminare l’abbinamento censurato.

Perciò – in linea di diritto – il ricorrente riconduce la responsabilità di Google per tale condotta, al principio generale ricavabile dalla direttiva_2000_31_CE e dagli art. 15 e 16 del decreto_legislativo_70_2003 in virtù dei quali l’”host provider non è considerato responsabile delle informazioni fornite solo ed esclusivamente se dimostra: a) di non essere stato effettivamente a conoscenza dell’illiceità delle informazioni fornite: b) di aver provveduto tempestivamente alla rimozione di tali informazioni non appena ne sia venuto a conoscenza.”. Google invece ha omesso l’intervento doverosamente correttivo, nonostante l’espressa e specifica segnalazione inviatale dal legale del B. in relazione all’abbinamento diffamatorio in oggetto. In ogni caso il ricorrente invoca la responsabilità extracontrattuale di controparte ai sensi dell’art. 2043 c.c., avendo avuto Google “l’obbligo giuridico di adoperarsi con tutti gli strumenti possibili al fine di far cessare la condotta diffamatoria” (pag. 9 del ricorso).

In prime cure la resistente ha contestato la fondatezza del ricorso evidenziando come essa “si limita a fornire una piattaforma di hosting, di per sé “neutra” e che può essere potenzialmente lesiva solo in virtù dei contenuti eventualmente illeciti immessi da terzi” e dunque non addebitabili alla resistente. Infatti tramite la funzionalità (servizio) di Google Web Search denominata Suggest/Autocomplete il motore di ricerca è costituito da un software, creato da Google, che opera secondo un algoritmo matematico che procede su basi puramente statistiche ed automatiche, diffusamente descritte alle pagg. da 5 a 11 della memoria di costituzione della resistente. Google perciò non compie alcuna “condivisione” dei contenuti delle pagine web (il cui contenuto è e resta nella responsabilità dei terzi utenti), “né vi è alcun preventivo intervento “umano” di Google atto a impedire, modificare e/o alterare i risultati della ricerca”, essendo quest’ultima frutto – come detto – di un sistema assolutamente automatico e fondato su dati statistici.
La resistente afferma comunque l’assenza di ogni sua responsabilità, non ricorrendo nella specie alcuna delle ipotesi previste nell’art. 16 del D. Lgs. n. 70/2003. A tale proposito essa – richiamando anche giurisprudenza sul punto – sottolinea come in ogni caso in questa sede potrebbe trovare applicazione esclusivamente l’ipotesi di cui alla lettera b) dell’art. 16 del D. Lgs n.70/03, ma nessun ordine dell’autorità risulta essere stato adottato nei suoi confronti.

Dunque nessuna inerzia o inadempimento le sarebbero addebitabili.
Con ordinanza resa in data 21/25 gennaio 2011 e comunicata a Google il successivo 07.02.2011 il giudice ha accolto il ricorso cautelare ordinando a Google di provvedere alla rimozione dal proprio software suggest/Autocomplete dell’associazione tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore”, fissando una somma per ogni giorno di ritardo nell’ottemperanza all’ordine così impartito.

Nell’ordinanza il giudice di prime cure ha ritenuto che la semplice associazione – creata dal software che gestisce il servizio Google Suggest/Autocomplete – tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore” presenti di per sé caratteri diffamatori in quanto lesivi dell’onore e della reputazione della persona nominata; ingenerando nell’utente il sospetto di attività non lecite da parte del B. ed inducendolo quindi a non proseguire la ricerca. Irrilevante è stata perciò ritenuta dal giudice di prime cure la circostanza che – una volta accettato il suggerimento offerto dal sistema – non appaiano documenti dal contenuto offensivo per il ricorrente.

Quanto al profilo del periculum in mora, si legge nell’ordinanza che esso consegue dalla circostanza (non contestata) che il B. utilizza prevalentemente la rete internet per pubblicizzare la propria attività.
Avverso tale provvedimento Google ha proposto reclamo deducendo:

1) l’errata interpretazione, da parte del primo giudice, del funzionamento di Google Autocomplete;

2) l’errata e insufficiente motivazione dell’Ordinanza in ordine alla responsabilità di Google come Internet Service Provider.

3) L’errata e insufficiente motivazione dell’Ordinanza in merito al pregiudizio subito dal ricorrente e alla natura diffamatoria dell ‘associazione di termini.
Parte resistente ha chiesto la conferma dell’ordinanza impugnata in parte riproponendo ed in parte richiamando sostanzialmente le argomentazioni già svolte in prime cure ed in particolare evidenziando come il contenuto dei suggerimenti di ricerca viene presentato da Google come “propri suggerimenti di ricerca” e dunque non già “fotografia inalterata di ciò che accade in rete” (pag. 4 della memoria di costituzione in sede di reclamo).
Passando quindi all’esame dei diversi profili di censura mossi da Google all’ordinanza reclamata, al punto 1) Google evidenzia come “le associazioni di parole visualizzate dagli utenti attraverso la funzionalità denominata “Autocomplete” non sono – contrariamente a quanto afferma l’Ordinanza _ “associazioni create dal software” di Google, bensì sono il risultato delle ricerche più popolari effettuate dagli utenti”.

Ritiene il Collegio che la censura sia infondata. Il procedimento attraverso il quale opera il servizio Autocomplete è chiaro e può ritenersi assolutamente pacifico anche per il fatto che sin dal ricorso introduttivo lo stesso ricorrente (come evidenziato in premessa) ha dato atto alla pag. 4 dell’automatismo della ricerca compiuta dal software che raccoglie i termini di ricerca immessi dagli utenti nel web e provvede a restituirli in ordine di popolarità – mediante un algoritmo matematico. Altrettanto ha detto il giudice nel terzo capoverso della parte motiva del provvedimento. In coerenza con tale passo va inteso quello censurato dal reclamante e contenuto nel sesto capoverso dell’ ordinanza, ove l’espressione “associazioni create dal proprio software” va inteso appunto come associazioni “elaborate” dal software attraverso il filtro dei termini di ricerca maggiormente utilizzati dagli utenti (come puntualmente descritto al richiamato terzo capoverso dell’ ordinanza).

Quanto al punto 2) la società reclamante lamenta che il primo giudice abbia omesso di motivare adeguatamente l’affermazione di responsabilità a suo carico, senza tenere conto delle diffuse argomentazioni che sul punto Google aveva articolato nella memoria di costituzione in relazione al ruolo ed alle responsabilità assegnate all’Internet Service Provider dal D. Lgs. n. 70/2003 che ha recepito la direttiva 2000/31/CE in materia di commercio elettronico. In particolare osserva la reclamante che “non solo Google ha ampiamente dimostrato in fase cautelare la sua natura di ISP, ma lo stesso ricorrente espressamente riconosce che ai sensi del D. Lgs. n. 70/2003 Google è un hosting provider ed in quanto tale non è responsabile dei contenuti immessi in rete da terzi”.

A tale proposito è opportuno inquadrare l’ambito e le modalità secondo le quali opera la società reclamante. Va anzitutto premesso che il termine “provider” si riferisce, in genere, ad un’azienda o ad un’organizzazione che fornisce un servizio e, in particolare, il termine può riferirsi ad un Internet Service Provider, che è un fornitore di servizi internet. Google è notoriamente un ISP (Internet Service Provider) vale a dire un provider che offre servizi di motore di ricerca. I motori di ricerca sono database che indicizzano i testi sulla rete e che offrono agli utenti un accesso per la consultazione: sono dunque sostanzialmente una banca dati + un software. Per tale ragione i motori di ricerca vengono qualificati come ISP ed operano come intermediari dell’informazione tipici dell’Internet, utilizzando vari strumenti per intermediare appunto le informazioni, tra cui a) una piattaforma tecnologica (il che comporta pagine di web, data-base e software necessari al funzionamento della piattaforma); b) databases e c) softwares (in particolare gli spiders). Il complesso di tale sistema consente di pervenire all’esito della ricerca che è una o più pagine web con una serie di informazioni organizzate dal meccanismo predisposto dal motore di ricerca.
I motori di seconda generazione come Virgilio, Yahoo, Google ecc. sono sicuramente banche dati in quanto gestiscono un catalogo manuale e/o automatico delle migliori pagine selezionate dal web. Google in particolare è un’enorme banca dati di pagine web prelevate dagli spiders quasi per intero dal web e memorizzate su enormi sistemi di storage residenti presso il suo web-farm.

Dunque i motori di ricerca sono vere e proprie raccolte di dati, informazioni, opere, consultabili attraverso la digitazione di “parole chiave”.

Concludendo, i motori di ricerca organizzano informazioni (sia estratte da data-base propri o trovate in rete attraverso spiders) che sono offerte, così organizzate, all’utente.
Google è un hoster provider, vale a dire un soggetto che si limita ad offrire ospitalità ad un sito internet – gestito da altri in piena autonomia – sui propri servers.

Il riferimento normativo per una qualificazione giuridica della posizione dei vari providers è dato dagli art. da 12 a 15 della direttiva comunitaria 2000/31/CE (recepita dal D. Lgs. n. 70/03) relativa ad aspetti giuridici del commercio elettronico e più in generale dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno. Con riferimento alI’host provider la disciplina normativa citata prevede che colui che presta un servizio consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da altro soggetto (hosting) non ne è responsabile, a condizione che non sia a conoscenza che l’attività sia illecita o non sia al corrente di fatti o circostanze in base ai quali l’illegalità è apparente o, non appena al corrente di tali fatti, non agisca immediatamente per ritirare le informazioni o per rendere impossibile l’accesso (art. 14). L’art. 15 esclude poi un obbligo di sorveglianza generale a carico dei providers o un obbligo di ricerca di fatti illeciti, ma prevede l’obbligo di informare l’autorità web dove le stesse figurano presenti) sono il risultato delle ricerche più frequenti e quindi più “popolari” effettuate in precedenza dagli utenti.

Se – come è pacifico -l’associazione tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore” è opera del software messo a punto appositamente e adottato da Google per ottimizzare l’accesso alla sua banca dati operando con le modalità ora descritte e volutamente individuate e prescelte per consentirne l’operatività allo scopo voluto (quello appunto di agevolare l’utilizzo del motore di ricerca Google), non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale, degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema può determinare.

Inconferente è l’obiezione mossa dalla società che sostiene di non essere un content provider, di non avere alcun ruolo rispetto al trattamento dei dati presenti sulle pagine dei siti internet gestiti e di proprietà di terzi e che l’abbinamento dei termini non è frutto di una “scelta” del motore di ricerca o dei suoi gestori, bensì “è la semplice rappresentazione di quello che soggetti terzi – gli utenti di internet che accedono al motore di ricerca – hanno ricercato con maggiore frequenza di recente” (pag.7 del reclamo).
Infatti il content provider è un fornitore di contenuti e – come più volte evidenziato – Google è solo un host provider ed in ogni caso nella specie il sig. B. non si lamenta del contenuto del materiale memorizzato sul web, bensì dell’abbinamento di parole che è il frutto del sistema adottato da Google e da intendersi dunque come prodotto di un’attività direttamente riconducibile, come tale, alla reclamante.

D’altro canto è innegabile che il servizio Suggest/Autocomplete opera tramite il trattamento dei dati presenti sulle pagine web immesse da soggetti terzi, adottando come criterio di individuazione del termine utile a completare la ricerca (impostata dall’utente) i termini di ricerca più utilizzati dagli utenti – calcolando in via automatica e con cadenze regolari il numero di volte in cui la parola o la frase è stata inserita dagli utenti nella stringa di ricerca.

Ed è proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determina il risultato rappresentato dagli abbinamenti che costituiscono previsioni o percorsi possibili di ricerca e che appaiono all’utente che inizia la ricerca digitando le parole chiave.
Dunque è la scelta a monte e l’utilizzo di tale sistema e dei suoi particolari meccanismi di operatività a determinare – a valle – l’addebitabilità a Google dei risultati che il meccanismo così ideato produce; con la sua conseguente responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) per i risultati eventualmente lesivi determinati dal meccanismo di funzionamento di questo particolare sistema di ricerca.

Si tratta di una scelta che ha chiaramente una valenza commerciale ben precisa, connessa con l’evidenziata agevolazione della ricerca e quindi finalizzata ad incentivare l’utilizzo (così reso più facile e rapido per l’utente) del motore di ricerca gestito da Google.

D’altro canto è un falso problema quello prospettato dalla reclamante secondo la quale ove si pretendesse la rimozione a posteriori deIl’associazione censurata “Google che impedisse la visualizzazione di contenuti immessi dagli utenti potrebbe causare lamentele e richieste risarcitorie a carico del motore di ricerca proprio da parte degli utenti che vedrebbero un ‘illegittima intromissione dell ‘hosting provider nei contenuti da questi immessi nel sito” (pag. 7 della memoria di costituzione di prime cure).
Infatti – come si è descritto in precedenza – il servizio “Suggest/ Autocomplete” non compie alcun intervento diretto sui contenuti memorizzati nel web, ma si limita a compiere su di essi una rilevazione/estrapolazione meramente statistica (e dunque “esterna” rispetto al contenuto) dei dati oggettivi sulla base unicamente della frequenza (c.d. popolarità) dei termini usati dagli utenti nelle ricerche.

Si tratta perciò di un software che solo astrattamente è “neutro” in quanto basato su di un sistema automatico di algoritmi matematici, poiché esso perde tale neutralità ove produca – quale risultato dell’applicazione di tale automatismo basato sui criteri prescelti dal suo ideatore – un abbinamento improprio fra i termini di ricerca.

Né viceversa il solo fatto che la modalità operativa (software) del sistema crea l’abbinamento in maniera automatica può rendere “neutro” – in virtù della mera automaticità con la quale perviene all’associazione di parole – un abbinamento che di per sé non lo è.
Irrilevante ai fini che interessano è poi il rilievo per il quale – secondo Google – “trattandosi di un software completamente automatico,… è evidente l’impossibilità – senza compromettere l’intero servizio – di operare un discrimine tra termini “buoni” e termini “cattivi “, non solo in considerazione del numero indeterminabile di parole con un potenziale significato negativo, ma anche e soprattutto de/fatto che il medesimo termine potrebbe avere significati del tutto diversi se abbinati a parole diverse” (paggg. 12 e 13 del reclamo).

Anche in questo caso la reclamante si pone in una prospettiva diversa da quella introdotta dal ricorrente: ciò che quest’ultimo richiede non è il controllo preventivo sui dati presenti nel sistema, ma quello successivo a posteriori sui risultati della sua operatività. Sotto tale profilo, peraltro, è evidente che resta del tutto irrilevante in questa sede la problematica connessa ai rimedi operativi da adottare direttamente sul software per evitare in maniera sistematica che si pervenga al risultato di abbinamenti impropri – trattandosi chiaramente di aspetti estranei alla cognizione di cui il Tribunale è stato investito. Tanto più che Google ben potrebbe ritenere sufficiente in ipotesi intervenire soltanto in via successiva, provvedendo a rimuovere l’abbinamento solo nei casi in cui ciò fosse richiesto – a fronte di chiare violazioni di diritti di terzi.

Non si deve in ogni caso dimenticare che il software che consente l’accesso al servizio “Suggest/Autocomplete” costituisce unicamente un’agevolazione (nei termini illustrati) offerto da Google ai suoi utenti, la cui eventuale modifica e/o eliminazione non comprimerebbe in alcun modo la libertà degli stessi di accedere alle ricerche offerte dal motore di ricerca Google – alla stessa maniera di quanto accade per gli altri motori di ricerca.
Per tale ragione è il risultato improprio ottenuto con l’applicazione di detto sistema a determinare la responsabilità di chi dello stesso si avvale – irilevante essendo, in tale prospettiva, l’assenza di ogni intenzionalità lesiva nel provider che lo utilizza.

Quanto al punto 3) ritiene il collegio di condividere la valutazione del giudice di prime cure che ha ritenuto diffamatoria la semplice associazione al nome del B. delle parole “truffa” e “truffatore”. Non pare revocabile in dubbio – anche solo sulla base della comune esperienza – che l’utente che legge tale abbinamento sia indotto immediatamente a dubitare dell’integrità morale del soggetto il cui nome appare associato a tali parole ed a sospettare una condotta non lecita da parte dello stesso.
Né appare idonea a svuotare l’abbinamento in oggetto del ritenuto contenuto lesivo la circostanza (peraltro pacifica in causa) che i risultati di ricerca correlati ai due suggerimenti di ricerca di cui si tratta – una volta attivata la ricerca stessa – siano obiettivamente del tutto privi di contenuti offensivi.

A tale proposito non si può condividere la tesi di Google secondo la quale la suggestione iniziale sarebbe comunque subito eliminata dalla lettura dei contenuti inoffensivi del materiale raccolto all’interno della ricerca stessa. Infatti tali contenuti non sono immediatamente visualizzabili dall’utente, che deve digitare le parole del suggerimento per “entrare” nel relativo contenuto e leggerlo. Per essere indotto a ciò, all’evidenza, egli deve essere mosso da un qualche interesse specifico – in assenza del quale gli resta solo l’originaria ed immediata impressione negativa ingenerata dall’abbinamento di parole.

Obietta in proposito Google che “l’utente di internet è perfettamente in grado di filtrare e di interpretare i contenuti caricati sul web da terzi (a maggior ragione se tali contenuti si limitano ad una stringa di ricerca) e di discernere, vagliare e selezionare le informazioni a disposizione su internet” (pag. 17 del reclamo). Si tratta di affermazione sulla quale questo Tribunale non ritiene di concordare non solo perché priva di ogni riscontro obiettivo, ma anche perché, allo stato ed in considerazione del diverso livello culturale e delle capacità assai variegate in ambito informatico da parte degli utenti di internet, la tesi non appare condivisibile neppure secondo la comune esperienza e buon senso. Da parte di Google si ipotizza un utente smaliziato, che naviga abitualmente in internet, sicuro di ciò che cerca nel sistema informatico, “perfettamente in grado di discernere i contenuti offerti dalla rete”: che rappresenta un’ immagine certamente corrispondente ad una fetta – ma minoritaria – degli utenti del sistema; utopistica con riguardo all’utente medio del sistema e certo alla grande maggioranza di essi.

Irrilevante è altresì la circostanza che le parole censurate siano state individuate dal sistema automatico di completamento della ricerca (secondo i criteri di operatività già descritti) essendo esse presenti in parte in un articolo redatto dallo stesso B. ed in parte in contenuti immessi nel sistema dagli utenti. Si tratta di un profilo da considerarsi pacifico ma ininfluente ad elidere la responsabilità di Google, per le considerazioni già espresse laddove si è evidenziato che è il risultato dell’ operatività automatica del sistema – qualora determini associazioni improprie di termini – a fondare la responsabilità di Google.

La ritenuta valenza diffamatoria dell’associazione di parole che riguarda il reclamato è innegabilmente di per sé foriera di danni al suo onore, alla sua persona ed alla sua professionalità. Negare – come fa Google – che una condotta diffamatoria non generi nella persona offesa un danno quantomeno alla sua persona significa negare la realtà dei fatti ed i riscontri della comune esperienza. La potenzialità lesiva della condotta addebitata alla reclamante – suscettibile, per la sua peculiare natura e per le modalità con cui viene realizzata, di ingravescenza con il passare del tempo stante la notoria frequenza e diffusione dell’impiego del motore di ricerca Google – giustifica il legittimo accoglimento, da parte del giudice di prime cure, del ricorso in via d’urgenza pure sotto il profilo del periculum in mora; anche in considerazione della difficoltà obiettiva di provare e quindi liquidare il danno nella sua effettiva consistenza, avuto riguardo altresì alla circostanza (rilevabile dal sito del B. ed in ogni caso non contestata) che il reclamato utilizza il web per la propria attività professionale.
L’accertata infondatezza dei moti vi dedotti con il proposto reclamo ne comporta il rigetto, con la conseguente condanna di Google a rimborsare a controparte le spese della presente fase.

Esse vengono liquidate d’ufficio, in assenza di nota spese, nella misura indicata in dispositivo, tenuto conto del valore della causa e della natura delle questioni trattate.

P.Q.M.

Rigetta il reclamo proposto da Google e condanna quest’ultima a rimborsare al reclamato le spese di lite, liquidate in € 1.500,00 per diritti ed € 2.300,00 per onorari, oltre rimborso spese forfettario ed accessori di legge.

Depositata in Cancelleria il 28.03.2011

 

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