Attualità

La formazione del giurista. Articolo di Natalino Itri


di Natalino Irti

Sommario: 1. Interrogarsi sull’identità. L’uomo intero e l’università tedesca. – 2. La fase tecnico-funzionale: il nuovo rapporto tra sapere e fare. – 3. La specialità dei saperi giuridici. – 4. L’uomo frazionario ed il linguaggio della tecno-economia. – 5. Il circuito di sapere tecnico-prestazione-funzione. – 6. Prestazioni legali e prestazioni forensi. – 7. Il problema del diritto romano. – 8. L’altrove della scienza giuridica.

1. Perchè una Facoltà giuridica, antica di otto secoli, famosa per maestri e tradizione di studi, giunge a interrogarsi sulla propria identità? perchè oggi cerchiamo, in colloquio con altri ordini, di capire o ricostruire il senso del nostro ufficio?
Le risposte – le mie risposte – non avranno un andamento medico, di `diagnosi’ e `terapià, o di `guasto’ e `riparazionè, ma soltanto descrittivo. Una lettura delle cose come sono, un impegno a cogliere la logica di cio’ che, accadendo intorno a noi e dentro di noi, non si lascia ripudiare con gesti di fastidio o con sospiri di nostalgia.
Ci troviamo in un’età di transizione, in uno di quei periodi di mezzo, dove scopi e forme di ieri non ci sono più, e scopi e forme di domani non ci sono ancora. Vediamo istituzioni che declinano e tramontano; percepiamo appena il nuovo inizio, i contorni di istituzioni future.
Intanto, da dove veniamo? Volgendo lo sguardo al passato, e tornando indietro di circa due secoli, mi sembra di scorgere tre fasi storiche delle Facoltà di giurisprudenza. Si tratta, certo, di una semplificazione, che tuttavia giova alla chiarezza del discorso: per tale è enunciata e per tale va accolta. La prima fase storica si colloca sul principio del secolo XIX, negli anni di fondazione dell’Università di Berlino. Ci assale non so che stupore o smarrimento quando percorriamo la disputa, che dischiuse quell’inizio: grandi voci di pensatori, inaudito orizzonte di problemi: Schelling, Fichte, Humboldt, Schleiermacher. La Facoltà di giurisprudenza – posta fra teologia, medicina, e filosofia – è destinata, al pari delle altre, all’educazione spirituale dell’uomo, a risvegliare la pienezza interiore dell’individuo. Percio’ essa non è una semplice scuola; il sapere giuridico non si disgiunge dalle altre forme del sapere, e insieme con queste confluisce in un tutto, in un centro comune, che dà senso a ciascuna di esse. L’acquisizione di conoscenze, utilizzabili nel mondo della prassi, non è il fine dell’Università. Si badi: i pensatori dell’idealismo tedesco ben percepiscono il rapporto tra Facoltà giuridica e bisogni organizzativi della società, e cosi’ il corrispondere di essa a una “funzione esteriore” (sono parole di Schleiermacher), ma reputano che tale esigenza sia da soddisfare oltre e fuori dell’Università. La teoria e la tradizione del sapere appartengono all’Università; il tirocinio pratico appartiene alle scuole. Università e scuole sono mondi separati.

Già in questi cenni, in questo sguardo gettato sulla fondazione dell’Università tedesca, la quale subito diviene modello per la scienza europea, ci sono tutti i problemi, tutte le domande, che accompagneranno in due secoli – ed oggi stringono più da vicino – le Facoltà di giurisprudenza. Allora le `funzioni esteriori’, gli impieghi del sapere nella soddisfazione di bisogni individuali e sociali, non riescono a penetrare nell’Università, non minacciano il sistema della conoscenza, non colpiscono pienezza e unità dell’uomo. Questi caratteri sono garantiti e presidiati da una concezione integrale e piena dell’essere umano, dall’unità del soggetto come principio e fine di ogni istituzione.

2. Le Facoltà giuridiche entrano in un’altra fase storica già nella seconda metà del secolo decimonono, quando il trionfante positivismo, la nascita delle scienze sociali, la rivoluzione industriale, l’espansione egemonica della borghesia, chiedono un nuovo rapporto tra il sapere e il fare. Il lavoro, cioè l’uso del sapere, assume importanza decisiva: tutto è valutato in vista del lavoro, scienza insegnamento istituzioni. E poichè il lavoro è governato dal principio di divisione – sicchè ciascuno fa il suo, e lo svolge bene se “sa il fatto suo” -, ecco che l’uomo viene considerato in questa specifica e concreta destinazione. Il lavoro è misura dell’uomo; e percio’ ne divide e scompone l’unità.
Certo nessuno, o pochi, sono capaci di analisi lucide e impietose. L’unità sistematica del sapere è sempre affermata e difesa. Essa ha si’ perduto il sostegno della filosofia tedesca, ma ha dalla sua potenze di altrettale vigore: tradizione delle Università, ideologie della politica, forza unificante dei codici, eredità del diritto romano. La fase umanistica è tramontata; si è aperta la fase, che chiamerei tecnico-funzionale, ma nessuno ancora ardisce di dichiararlo.
Eppure, anche nei piani più alti e nobili delle Facoltà giuridiche, si scopre il nuovo rapporto fra sapere e fare. Soltanto due esempi, ma di estremo rilievo. Nel 1909, un giurista tedesco di larga fama, Ernst Zitelmann, svolge una conferenza su L’educazione del giurista (conferenza, volta in italiano di li’ a tre anni). Vi leggiamo: “Io sostengo il principio fondamentale, che il sistema di educazione del giurista deve venir riformato in modo da ottenere che studio universitario e tirocinio pratico si alternino a vicenda in una doppia successione”. E Zitelmann propone corsi istituzionali dei primi tre semestri, che “offrirebbero appunto cio’ di cui puo’ aver bisogno chi aspira a divenir funzionario superiore nelle poste, nei telegrafi, nelle miniere” (un preannuncio di quella che oggi si denomina “laurea breve”); e pure ammonisce le Università a non mantenersi ostili a tali tendenze didattiche, poichè altrimenti “ci troveremo tutti, un giorno, noi professori universitari, lungi dalla corrente della vita reale, in un asilo di vecchi”. E forse puo’ destar meraviglia che le proposte di Zitelmann ricevano nel 1923 il sostanziale consenso di Piero Calamandrei, giurista-umanista se altri fu mai.

3. La proposta dell’alternarsi temporale di studio universitario e tirocinio pratico dimostra, pur nell’ingegnosa singolarità, che la prassi non è più una funzione esterna all’Università, ma vi è ormai penetrata dentro, e ne condiziona e orienta i contenuti. Siamo ad una svolta di straordinaria importanza: entro le Facoltà giuridiche si determina un’antinomia fra sapere e saper fare, fra studio teorico e impiego applicativo. Questi termini sono sempre in tensione: e il secondo, ricollegandosi a bisogni e attese del mondo `esterno’, ha un irresistibile vigore.
La fase tecnico-funzionale raggiunge l’estremo compimento nei nostri anni. Sono caduti pudori e cautele: le cose hanno ormai raggiunto un’essenziale e risoluta sincerità. Non siamo più dinanzi al vecchio e banale rapporto fra teoria e pratica, fra studio e tirocinio, ma a una diversa concezione del sapere e dell’uomo. Questa è la condizione necessaria per capire cio’ che accade e per intravvedere un nuovo inizio.
Il diritto ha perduto ogni garanzia di unità. Non soltanto le antiche garanzie teologiche e metafisiche, ma anche le garanzie terrene e storiche. Il diritto, distaccandosi dalla sovranità territoriale degli Stati, non ha più un centro: si affollano e sovrappongono norme nazionali, leggi regionali, direttive europee, dichiarazioni universali. La perdita di centro è perdita di un senso complessivo. Tirato in alto verso la latitudine globale; tirato in basso verso la particolarità dei luoghi; conteso fra s-confinatezza e confini, tra uniformità e differenze; il diritto ci appare tutto casuale, contingente, consegnato per intero alle forze della volontà. L’acutezza precorritrice di Federico Nietzsche aveva già fermato, nell’aforisma 459 di Umano, troppo umano, questo pensiero: “… noi tutti non abbiamo più un senso tradizionale del diritto, percio’ dobbiamo accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressione della necessità che esista un diritto”.
La scienza non puo’ recare ordine e unità dove domina l’arbitraria casualità. E non puo’ sovrapporre concetti e categorie logiche, ricavati dal diritto di ieri, a un diritto che li rifiuta e disconosce. Non affronto qui il problema se si diano concetti costanti e perenni, quasi indisgiungibili dall’idea stessa di diritto; ma certo essi sarebbero ben pochi ed elementari (norma, obbligo, illecito, sanzione), e dunque incapaci di fronteggiare e governare l’assoluta contingenza delle norme. Si spiega cosi’ l’andamento esegetico e divulgativo dell’odierna letteratura giuridica, la quale non è inferiore alle dottrine di epoche diverse, ma obbedisce alla logica del proprio oggetto. La scienza non puo’ darci cio’ che l’oggetto ha ormai perduto.

Il sapere giuridico si frange cosi’ nella molteplice specialità dei saperi. E questi, ormai divelti da una forma universale e strappati da un centro comune, si offrono in una sorta di chiusa e serrata auto-sufficienza. Ciascuno sta a sè; ciascuno conosce bene il fatto suo. Il giurista completo, il Volljurist, è figura del passato. Anche al passato appartiene il titolo della mia relazione, che meglio suonerebbe la preparazione dei giuristi (sempre che non si voglia pur rinunciare all’accademica solennità della parola `giuristà, e sostituirla con “esperti giuridici” o “esperti legali”).

4. La molteplicità dei saperi corrisponde alla figura dell’uomo frazionario, quale è richiesta dalla divisione del lavoro e dalla logica del capitalismo. L’uomo intero non riguarda più l’Università. L’alleanza fra tecnica ed economia, la tecno-economia, domina il nostro tempo. Essa non reclama unità e pienezza dell’individuo, rifiuta gli attriti del soggetto, esige l’impersonale oggettività della prestazione tecnica. Il principio di divisione del lavoro determina la pluralità delle funzioni: ciascuna funzione esige un’abilità tecnica. Il sapere, sperimentato sui casi, assume il valore di prestazione, vendibile ad altri e acquistabile da altri. Sapere tecnico, prestazione e funzione costituiscono la triade interpretativa della nostra epoca. La funzione chiede di esser soddisfatta da una prestazione; la prestazione consiste nell’uso applicativo di un sapere tecnico. Il sapere deve `servirè, deve `impiegarsi’.
L’Università non è più in grado di opporre resistenza. E come potrebbe se, proprio al suo interno, nelle forme intrinseche del sapere, sono cadute – come sopra abbiam visto – tutte le garanzie di unità? La tecno-economia la avvolge, di giorno in giorno, con il proprio linguaggio. Anche l’essere dell’Università è nel suo linguaggio. Parole nuove, e per secoli inaudite, risuonano negli antichi palazzi: credito formativo, competizione, efficienza, abilità, test, competenza, servizi. Queste parole, come tutte le parole, non sono innocenti. Il linguaggio della filosofia idealistica ha ceduto il posto al linguaggio della tecno-economia.
Il rapporto fra Università e mondo del lavoro (rapporto, che ai più sembra ovvio, ma che nella sua essenza è eversivo e rivoluzionario) è prossimo al compimento. I saperi giuridici – saperi parziali, frammentari, slegati da qualsiasi centro – consentono di produrre prestazioni tecniche, negoziabili nell’economia di mercato. Un grande scrittore francese, Paul Valèry, con la forza presaga che gli dei concedono soltanto ai poeti, ha notato nel lontano 1919: “Il sapere, che era fino ad allora un valore di consumo, diventa un valore di scambio. L’utilità del sapere rende il sapere stesso una derrata, ambita non più da qualche intenditore particolarmente distinto, ma dal mondo intero. Questa derrata assumerà quindi delle forme sempre più maneggevoli e commestibili; verrà distribuita ad una clientela sempre più numerosa; diventerà cosa commerciale, qualcosa quindi che si imita e si produce un po’ ovunque”.

Il sapere universitario, insomma, non è più un fine in sè, non concorre più nell’educazione dell’uomo, e diventa un valore di scambio, un articolo di commercio, che il detentore puo’ negoziare sul mercato o sottoporre al controllo dell’esame di Stato. L’antinomia fra sapere e saper fare si è risolta definitivamente in favore del saper fare: le funzioni del lavoro non sono più `esternè, ma interne alle Facoltà giuridiche .

5. Nel quadro, di cui ora ho sbozzato qualche linea, tutti i fenomeni, che accadono intorno a noi, e che ci sembrano arbitrari e illogici, acquistano significato e si compongono nella coerenza d’una nuova realtà. Moltiplicazione di sedi universitarie, numero e qualità media dei docenti, carattere specialistico dei corsi, attesa di un sapere immediatamente fruibile, pluralità di titoli di laurea: questi ed altri fenomeni non sono segni di inattesa irrazionalità, che irrompa e devasti antiche tradizioni, ma elementi della razionalità tecnico-produttiva.
Si è disegnato poco di sopra il circolo sapere tecnico-prestazione-funzione. Il circolo attribuisce alle Facoltà giuridiche l’ufficio di erogare saperi tecnici, i quali, per convertirsi in prestazioni, fruibili o negoziabili, richiedono l’esercizio sulla singolarità dei casi. Le Facoltà giuridiche sono scuole di leggi; i corsi successivi alla laurea, che hanno preso nome di specializzazione professionale, sono propriamente scuole di casi. Le parole `scuolà e `specializzazionè, usate per la fase post-universitaria, segnano un distacco che non c’è più: anche l’Università è ormai `scuolà erogatrice di saperi tecnici; anche l’Università è ormai `specialisticà. Il rapporto è piuttosto di legge a caso, di sapere tecnico a impiego applicativo. I saperi tecnici, offerti dalle Facoltà, e già di per sè frazionari e speciali, sono sperimentati, si collaudano e misurano sui casi, e cosi’ assumono carattere di prestazioni, fruibili all’esterno dell’Università. I saperi diventano potenzialità di prestazioni e rivelano l’intrinseco valore di scambio. Università e scuole sono in verità due gradi o momenti di una sola ed unica scuola, la scuola del saper fare.

6. Il programma di questo convegno individua quattro specie di funzioni e prestazioni giuridiche: magistratura, avvocatura, notariato, impiego nella pubblica amministrazione. E’ la quadripartizione tradizionale, che troviamo già nel vecchio libro calamandreiano del 1923. Ma essa andrebbe riconsiderata e ridefinita: mi limito a qualche rilievo. La prestazione dell’avvocato ha perduto ogni unità e continuità: si profilano e distinguono prestazioni legali e prestazioni forensi. Le prestazioni legali prescindono dalla causa, non riguardano nè ragione e torto in un processo civile, nè innocenza e colpevolezza in un processo penale. Esse, mirando ad accertare la compatibilità fra leggi e decisioni economico-sociali, concorrono con altre prestazioni a costituire materiale tecnico-informativo, che l’autore della decisione trova dinanzi a sè e di cui si serve per compiere la propria scelta. La decisione dell’imprenditore o del pubblico amministratore degrada il sapere legale a addendo informativo. Accanto ad altri `esperti’ c’è anche l’esperto di leggi. L’elemento giuridico tende a spostarsi dalla decisione al controllo giurisdizionale sulla decisione, dall’agire all’eventuale giudizio sull’agire. E prestazione legale, e non forense, è l’opera svolta – a titolo d’esempio – nella verifica di regolarità contabili o societarie (si pensi alla due diligence, che accompagna la circolazione di aziende o di pacchetti azionari). Qui puo’ soccorrere la varietà dei titoli di laurea, affinchè si determini un efficace equilibrio tra sapere tecnico e contenuto della prestazione.
Quanto alla prestazione giudiziale, è solo da augurarsi che il legislatore non vulneri l’unità della magistratura penale: anche l’indagine dei fatti, i quali vanno ricostruiti selezionati ricomposti in figure normative, è interpretazione e applicazione di diritto. Nel diritto non esiste il nudo fatto, ma sempre e soltanto un fatto da investigare e val

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