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No all’ammortamento finanziario in presenza di contratto di appalto – Comm. Trib. Trento, Sentenza 63/5/10

E’ consentito solo quando la gratuita devoluzione dei beni è prevista alla scadenza di una concessione

La deduzione di quote costanti di ammortamento finanziario è ammessa solo ed esclusivamente in presenza di una concessione e non di altre tipologie di contratti. In caso di appalto, pertanto, vanno applicati i coefficienti ministeriali. A stabilirlo è stata la Commissione tributaria di Trento con sentenza n. 63/5/10 del 18 ottobre 2010.

La controversia
Una grossa società operante a livello nazionale nel campo della ristorazione collettiva è risultata vincitrice di numerose gare di appalto con enti pubblici. Nei capitolati relativi a tali gare viene stabilito che il soggetto aggiudicatario deve accollarsi l’acquisto dei beni necessari per l’espletamento del servizio (arredi, elettrodomestici, stoviglie eccetera). Tali beni, alla scadenza dell’appalto, devono essere ceduti gratuitamente all’ente appaltante.

Nel corso di una verifica condotta dall’ufficio Controlli della direzione provinciale di Trento, è emerso che il costo di tali immobilizzazioni è stato ammortizzato (civilisticamente e fiscalmente) sulla base della durata del contratto di appalto, applicando, de facto, il criterio dell'”ammortamento finanziario” previsto dall’articolo 104 del Tuir, secondo cui “Per i beni gratuitamente devolvibili alla scadenza di una concessione è consentita la deduzione di quote di ammortamento finanziario” determinate “dividendo il costo dei beni […] per il numero degli anni di durata della concessione”.
In altri termini, la società ha ammortizzato i beni non applicando gli ordinari coefficienti previsti dal Dm 31/12/1988, così come richiamato dall’articolo 102 del Tuir, bensì suddividendo il costo di acquisto del bene per la durata dell’appalto. Così operando, ad esempio, nel caso di appalti della durata di due anni, la società ammortizzava i mobili con un coefficiente del 50% annuo in luogo del 12% previsto dal citato decreto ministeriale.

La contestazione dell’ufficio e la decisione della commissione
In sede di accertamento, l’ufficio ha contestato alla società l’illegittimo utilizzo dell’ammortamento finanziario poiché quest’ultimo è consentito “in luogo dell’ammortamento di cui agli articoli 102 e 103” esclusivamente in presenza di una concessione. Secondo l’ufficio, infatti, la scelta del legislatore è stata quella di consentire l’ammortamento finanziario in presenza della gratuita devoluzione dei beni solo se accompagnata dalla sussistenza della concessione.

In sede di ricorso, la società ha sostenuto, invece, che la condizione sufficiente per poter procedere all’ammortamento finanziario è unicamente la gratuita devoluzione dei beni a nulla rilevando il rapporto sottostante, appalto o concessione, istituti ritenuti dalla società come analoghi.
Secondo la società, inoltre, il termine “concessione” sarebbe stato inserito nell’articolo 104 solo a titolo esemplificativo ma non esaustivo delle fattispecie previste.

La Commissione ha rigettato le tesi della ricorrente sostenendo che “nessun criterio soggettivo, per quanto logico, possa sostituire quello fissato dalle suddette disposizioni”: anche se fosse civilisticamente corretto suddividere il costo di acquisto del cespite sulla base della durata dell’appalto nel caso in cui il bene al termine avesse valore residuo pari a zero (poiché deve essere ceduto gratuitamente), dal punto di vista fiscale ciò non è consentito, poiché non si è in presenza di una concessione bensì di un appalto.
Tali istituti (appalto e concessione) sono, infatti, nettamente diversi e in modo diverso devono essere trattati fiscalmente. In merito, osserva la Commissione: “La norma, infatti, presuppone […] una concessione, la quale, come si sa, fa sorgere nel concessionario un diritto, prima inesistente […] Nel nostro caso, invece, si tratta di appalto, vale a dire di un contratto sinallagmatico, per nulla simile all’istituto della concessione”.

Quanto poi alla paventata possibilità di ricorrere all’istituto dell’analogia, la Commissione ha giustamente evidenziato come la stessa sia consentita “soltanto in mancanza di una specifica norma di legge che, invece, come è dato rilevare, nella specie esiste e coincide con il citato art. 102 TUIR”. Per lo stesso motivo, non è neanche possibile invocare l’articolo 108, comma 2, del Tuir concernente le spese relative a più esercizi (“Le altre spese relative a più esercizi, diverse da quelle considerate nei commi 1 e 2 sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”).

In sintesi, quindi, in presenza di una figura diversa dalla concessione, non resta che ammortizzare i cespiti applicando i coefficienti previsti dal Dm 31/12/88: le eventuali differenze rispetto alla quota ammortizzata civilisticamente devono essere riprese a tassazione mediante una corrispondente variazione da operarsi in dichiarazione dei redditi.

Ulteriori questioni affrontate
La sentenza in commento risulta interessante anche per altre questioni “procedurali” affrontate dal collegio giudicante.

La società, in sede di ricorso, ha sollevato la questione dell’illegittimità dell’avviso di accertamento poiché basato su un processo verbale redatto a seguito di una verifica che si sarebbe protratta ben oltre il termine dei 30 giorni (prorogabili a 60) previsto dall’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000.
In merito, l’ufficio ha evidenziato come il termine suddetto si riferisce solo all’attività esterna dei verificatori e, inoltre, deve essere inteso come tempo complessivo al netto delle varie interruzioni e sospensioni. Infatti, diversamente argomentando, considerando i 30 giorni come generali e perentori, “eventuali condotte ostruzionistiche […] potrebbero agevolmente ridurre di molto il tempo a disposizione per l’Autorità procedente, soprattutto in alcuni tipi di verifiche” complesse condotte su soggetti di grandi dimensioni. Tra l’altro, la norma richiamata comunque non prevede alcuna declaratoria di nullità dell’atto impugnato in caso di infrazione.
La doglianza di parte è stata fermamente respinta dalla Commissione, poiché il tempo a cui fa riferimento il citato articolo 12 attiene esclusivamente alla “permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, non certo all’attività di verifica” (in senso lato), la quale può protrarsi fuori dai locali della ditta anche oltre il suddetto termine.

Non meno interessante è la questione della facoltà concessa al contribuente dall’articolo 12, comma 7, della legge 212/2000, di far pervenire, nel termine di 60 giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione, “osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori”. La società ricorrente ha infatti lamentato che l’ufficio, nell’avviso di accertamento, non ha espressamente tenuto conto delle memorie e osservazioni presentate dalla parte dopo la consegna del pvc.
Poiché però le memorie sono state presentate ben oltre il termine dei 60 giorni, l’ufficio ha correttamente argomentato sostenendo che “nessuna norma procedimentale infatti impone una valutazione esplicita degli scritti del contribuente, quando questi vengono presentati oltre i termini prefissati”.
La Commissione ha respinto l’eccezione della contribuente osservando giustamente come l’ipotizzato difetto di contraddittorio fisco-contribuente che si sarebbe verificato in virtù dell’omessa valutazione delle memorie presentate comunque fuori termine, è insussistente poiché il “contraddittorio precontenzioso è anche quello che si svolge in sede di verifica, laddove il contribuente può giustificare le contestazioni addebitategli”(cfr Cassazione, sentenza 13998/2000).

Maurilio Ricciardiello
fonte: fiscooggi.it

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