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La resistenza non violenta di Aldo Capitini

Articolo del Prof. Pancrazio Caponetto

Dopo il 1943 l’antifascismo diede vita all’esperienza della lotta armata, la Resistenza. Ma vi fu anche chi si oppose al fascismo sostenendo gli ideali della nonviolenza: fu il caso di Aldo Capitini, il Gandhi italiano.
Capitini era nato a Perugia nel 1899, dopo studi tecnici, da autodidatta maturò una formazione filosofico-letteraria che gli consentì di ottenere un posto di convittore alla Scuola Normale di Pisa, della quale fu nominato segretario ( 1929 ) al termine degli studi.

Agli anni della Normale risale l’amicizia con Claudio Baglietto, assistente del filosofo Armando Carlini. Così Capitini ricorda Baglietto nel suo ANTIFASCISMO TRA I GIOVANI ( 1966 ): “era una mente limpida e forte, … uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, … Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo gandhiano della noncollaborazione col male.

Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell’uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale .”

Nel 1932 Baglietto ottenne una borsa di studio per perfezionarsi all’Università di Friburgo in Germania. Qui egli, con una scelta coerente con i suoi ideali di nonviolenza, decise di non rientrare più in Italia per non sostenere il servizio militare e rinunciò alla borsa di studio.

Capitini continuò ad approfondire le sue idee nonviolente ed antifasciste fino a quando, nel 1933, perse il posto di segretario della Normale di Pisa per essersi rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista.

Tornato a Perugia Capitini si mantenne dando lezioni private e maturando nel frattempo quelle posizioni che lo porteranno alla stesura della sua prima opera filosofica: ELEMENTI DI UN ‘ESPERIENZA RELIGIOSA ( 1937 ). L’opera venne pubblicata dalla Casa Editrice Laterza grazie all’interessamento di Benedetto Croce. Il lavoro di Capitini sfuggì alla censura fascista convinta che nulla vi fossa da temere da un libro che si occupava di religione. Invece, come scriveva Capitini nell’introduzione alla seconda edizione degli ELEMENTI ( 1947 ) : “ In quello che avevo scritto, dunque, dentro questo libro e nel modo di sentirlo e praticarlo, viveva uno spirito che era proprio l’opposto di quello dominante fascista. Di qui doveva poi derivare anche una tattica opposta a quella fascista : contro l’ordine chiuso, l’ordine sparso, contro il totalitarismo, lo stato fluido… la libera ricerca, il libero contributo, l’ascoltare e il parlare.”

Ma cosa intendeva Capitini per “esperienza religiosa”? Egli fu sempre molto critico delle religioni tradizionali. Innanzitutto esse si fondavano sul principio della trascendenza, ormai insostenibile alla luce dei più recenti sviluppi della filosofia moderna. Esse, inoltre, nel corso della storia, avevano assunto un carattere prevalentemente conservatore appoggiandosi ai potenti ed allontanandosi dalle esigenze degli ultimi, degli umili. A questo proposito molto dura è la critica di Capitini alla chiesa cattolica che aveva da poco concluso con il fascismo il concordato. La Conciliazione, scrive Capitini in NUOVA SOCIALITA’ E RIFORMA RELIGIOSA, turbò quell’esigenza “ di uno schietto cristianesimo che sia più vivo e ben più evidente della struttura istituzionale ecclesiastica romana… Ed allora, se si voleva ritrovare una vita religiosa nella sua purezza più strenua, bisognava cercarne gli elementi altrove che in quell’insieme di idealismo cattolicheggiante e di religione ufficiale romaneggiante. Ecco il modo di opposizione di noi e di altri al fascismo. Se le ragioni religiose più profonde sono avverse al militarismo…, e se l’istituzione più potente che avrebbe dovuto affermare queste ragioni non lo faceva, la religione doveva ricominciare dall’intimo, dall’anima che risoluta si oppone e non collabora, in nome di principi di nonviolenza e nonmenzogna, assolutamente opposti al fascismo.”

Quanto ai precedenti storici e culturali della sua esperienza religiosa, Capitini ne ricordava tre: 1) La filosofia moderna europea che aveva dato un valore centrale al soggetto; 2) la tragedia della prima guerra mondiale, che lo spinse a riflettere sui limiti della civiltà attivistica, “ che dava tutto il valore al fare, alla violenza, al godimento”, e al tempo stesso, a meditare sul problema di chi soffre, di chi non può agire, di chi è sopraffatto ; 3) l’eco che nel suo animo produsse l’azione di Gandhi. Su quest’ultimo punto Capitini scrive: “… Ho visto Gandhi portare i principi della nonviolenza e della nonmenzogna nella vita politica e questo mi ha attratto…Gandhi mi mostrava con i fatti e con le sue parole limpidissime che la mia tendenza alla politica…non era discorde dall’esperienza intima, religiosa, di servire il meglio, ciò che è buono assolutamente.”

Gli ELEMENTI DI UN’ESPERIENZA RELIGIOSA divennero uno dei punti di riferimento per i giovani che tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta iniziarono a distaccarsi dal fascismo. Molti capivano che con la guerra d’Etiopia e l’intervento in Spagna al fianco del generale Franco, l’Italia andava allontandosi dalle democrazie occidentali e si avvicinava pericolosamente al totalitarismo nazista. A questi giovani in fermento Capitini offriva un nuovo universo di valori: nonviolenza, nonmenzogna, rifiuto del militarismo, nuova socialità e nuova religiosità, ascolto deli ultimi, degli umili, dei sofferenti. Quest’opposizione al fascismo, ricordata da Capitini nel suo ANTIFASCISMO TRA I GIOVANI, diede a vita a diversi gruppi clandestini, tra questi uno dei più attivi fu il movimento liberalsocialista . Il movimento che, oltre a Capitini, vide l’adesione di molti intellettuali, in seguito protagonisti della vita culturale italiana del dopoguerra ( Guido Calogero, Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola, Carlo Ragghianti, Guido De Ruggiero ), aspirava a realizzare una sintesi di libertà e giustizia sociale. Nel movimento confluirono correnti liberaleggianti di ispirazione crociana, correnti repubblicano-democratiche, correnti socialiste e infine la componente religiosa e nonviolenta. L’elaborazione teorica sviluppata dai liberalsocialisti confluì in un documento, il primo MANIFESTO DEL LIBERALSOCIALISMO, redatto nel 1940. La polizia fascista sorvegliò l’attività del movimento effettuando arresti dei principali dirigenti. Lo stesso Capitini venne arrestato, una prima volta nel 1942, rilasciato dopo alcuni mesi, una seconda volta nel 1943, liberato definitivamente dopo il crollo del regime fascista.

Dopo la caduta del fascismo gli esponenti liberalsocialisti, amici di Capitini confluirono nel Partito d’Azione, costituitosi a Firenze nell’agosto del 1943. Capitini non partecipò alla fondazione del Partito convinto della radicale differenza esistente tra Movimento e Partito. Il primo, secondo Capitini, si fonda sul valore della persona quindi spinge gli uomini a una rivoluzione interiore che li muove gli uni verso gli altri in una sorta di affratellamento. Il Partito invece privilegia la massa e tende a far approvare la sua politica con l’arma del convincimento a tutti i costi separando gli individui che professano concezioni opposte. Mentre il Partito appariva dunque a Capitini uno strumento del potere. Il Movimento gli sembrava mezzo più adeguato alla costruzione di una nuova socialità fondata sull’amore e la liberazione spirituale. Ecco il modo in cui esprimeva il suo ideale liberalsocialista: “ Il liberalsocialismo dovrà far di tutto per portarsi in mezzo alle moltitudini e volgerle, via via, dalla posizione materialistica e totalitaria alla libertà. Per fare questo occorrerà assimilare pienamente l’esigenza socialista, cioè la compresenza reale dell’umanità lavoratrice, come soggetto della storia, come proprietaria dei mezzi di produzione…Assimilata in pieno questa base socialista, non si dovrà restare in essa, chè si potrebbe correre il rischio di stabilire un totalitarismo amministrativo; bisognerà perciò, far vivere il valore della libertà; cioè l’intima tensione alla produzione dei valori del Bello, del Vero, del Buono; quella tensione ad uno sviluppo non semplicemente fisico, ma nel dramma del miglioramento, nell’affinarsi agli atti di bontà, di verità, di bellezza, in cui l’umanità lavoratrice si eleva e si fa eterna.”
Ma con quali metodi Capitini pensava di realizzare questa nuova socialità ?

Subito dopo la liberazione di Perugia, nel luglio 1944 Capitini fondò il primo Centro di orientamento sociale (COS), un’esperienza di democrazia dal basso. Nel COS, infatti, si svolgevano periodiche discussioni, aperte a tutti, sulle questioni amministrative, sociali, politiche promuovendo forme di democrazia diretta attraverso la costituzione di consigli di quartiere e centri sociali. Questa esperienza di partecipazione democratica si diffuse in molti paesi dell’Umbria, oltre che a Firenze e Ferrara, e si sviluppò fino al 1948, quando essa giunse al termine a causa dell’ostilità dei poteri politici ed ecclesiastici.

Fino all’anno della morte ( 1968 ), Capitini fu instancabile animatore di iniziative politico-sociali: nel 1952 fonda i Centri di Orientamento Religioso ( COR ), nel 1961 organizza la marcia Perugia – Assisi per la pace e la
fratellanza tra i popoli, negli ultimi anni della sua vita promuove la nascita del Movimento nonviolento e del periodico Azione nonviolenta.

Per un bilancio della sua attività di intellettuale e di attivista, ci affidiamo alle parole di uno scritto del Movimento nonviolento comparso nel 2018, cinquantenario della morte di Capitini:
“L’apparente inattualità del pensiero di Capitini, antifascista durante il fascismo, antiautoritario al tempo dell’autoritarismo, eretico per la chiesa del potere, politico senza tessera contro la peggiore partitocrazia,  profeta nonviolento che voleva smilitarizzare e unire oriente e occidente, ci appare oggi come il più attuale e lungimirante interprete di quella necessaria rivoluzione nonviolenta di cui oggi sentiamo il bisogno per fermare il declino politico, morale, culturale nel quale il paese sta precipitando.”

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